Quando l’arte entra in scena
Il caso «Uffizi Live» e le arti dello spettacolo dal vivo come modello di valorizzazione museale
Nasce nell'estate del 2016 la fortunata rassegna di spettacoli dal vivo Uffizi Live, la kermesse di eventi e performance che da giugno a settembre anima con successo le sale della Galleria delle Statue e delle Pitture durante le aperture serali del museo. Nasce come un tentativo, una prova, un esperimento inedito di promozione culturale e di valorizzazione alternativa delle opere d'arte degli Uffizi fortemente voluto dal direttore Eike Schmidt. Un esperimento che oggi, ai nastri di partenza dell'edizione 2018, si può dire stia dando i suoi frutti, consentendo di tracciare un primo bilancio che ha visto in soli due anni un crescendo progressivo di numeri e consensi, sia da parte del pubblico spettatore (con un incremento di visitatori nel 2017 del 114,25% rispetto alla prima edizione che pure aveva registrato già un considerevole incremento dell’81,21% rispetto al 2015) sia da parte degli artisti, che in totale hanno presentato, per il bando di selezione 2018, circa 580 progetti per un parterre di soli 15 posti disponibili, ossia più del doppio delle proposte ricevute per l’edizione 2017, e addirittura 25 volte di più di quelle presentate per l'edizione pilota del 2016.
Sono dati di gran lunga incoraggianti, e non solo dal punto di vista del parametro quantitativo. Anche la qualità media delle perfomance si è andata via via attestando su livelli professionistici sempre più alti ed esteticamente apprezzabili senza contare il fatto che anche la stessa area di appartenenza culturale e geografica dei performer si è progressivamente e sensibilmente allargata rispetto agli esordi. In confronto alle due precedenti edizioni la rassegna 2018 si distingue soprattutto per una maggiore e più spiccata vocazione internazionale e interculturale degli spettacoli e degli artisti, provenienti quest'anno da tutto il mondo, dal Burkina Faso alla Russia, dalla Cina alla Francia alla Slovenia senza trascurare un'eterogenea e nutrita rappresentanza nazionale che riunisce talenti da tutta Italia, dal Piemonte alla Sicilia, dalla Liguria al Veneto fino alla Puglia passando attraverso la Toscana.
È dunque un piccolo caso in progressiva espansione, e tutto da analizzare, questo di Uffizi Live. Si è parlato in apertura di un "esperimento inedito". Perché? In fondo allestire spettacoli di arti performative all'interno dei musei non è certo una novità. Le gallerie e i siti culturali di tutto il mondo organizzano questo tipo di eventi ormai da decenni. E dunque qual è la portata innovativa dell'idea sottesa a questa rassegna? In che modo si può dire che Uffizi Live rappresenti un'esperienza museale alternativa, lo spunto per l'elaborazione di modelli inediti di fruizione e valorizzazione dell'arte all'interno dei nostri musei?
Verso la costruzione di un modello semiotico per la valorizzazione delle opere d'arte
Durante l’estate, ogni settimana - in genere il martedì - gli Uffizi restano aperti fino alle 22, e dalle 19 hanno inizio nelle sale del museo delle performance di spettacolo dal vivo concepite ad hoc, progettate specificamente in dialogo con le opere d’arte della collezione e gli spazi della Galleria. La prima sostanziale novità rispetto ad operazioni simili realizzate in luoghi d’arte analoghi è proprio questa: gli Uffizi infatti non offrono i propri spazi per ospitare una rassegna, per diventare palcoscenico, sfondo o cornice entro cui attori, danzatori, musicisti e performer sono chiamati ad esibirsi. È il museo stesso il protagonista delle performance: gli artisti vengono cioè stimolati, attraverso un bando di selezione, a creare i loro contributi in un confronto reale, approfondito e specifico con le opere d'arte esposte in Galleria allo scopo di arricchirne la visione e migliorarne la fruizione. Quasi come una committenza d’altri tempi.
Le arti performative previste dal bando sono le più diverse, nel tentativo di intercettare un vasto bacino di utenza, con un'attenzione particolare rivolta ad un pubblico più internazionale possibile, ai giovani e ai loro linguaggi. Ad oggi si sono tenuti spettacoli di teatro, danza, musica, canto, perfomance, happening, giocoleria, illusionismo, digital art, nuove tecnologie, ed è stato incoraggiato l'utilizzo dei mezzi espressivi e dei registri più vari, dal tradizionale allo sperimentale, dal classico al contemporaneo, dal sacro al profano, dal drammatico al comico, dal provocatorio al cross-over e così via. Senza nessuna preclusione se non un rispetto del decoro, della pubblica decenza, di ogni credo religioso e delle sensibilità proprie di culture diverse.
Distribuendo questionari per analizzare il target e il relativo feedback degli spettatori della rassegna, è emerso che il pubblico che sceglie di rimanere ad assistere alle performance – che sono offerte gratuitamente, nelle sale normalmente aperte e lungo il percorso di visita ordinario della Galleria senza delimitazione alcuna dello spazio scenico - è un pubblico perlopiù internazionale, giovane, under 35, che lascia per il 90% un feedback positivo perché più abituato a vedere esperienze del genere nei grandi musei internazionali.
Qualche resistenza in più invece si riscontra, pur trattandosi solo di casi sporadici ma interessanti, nel pubblico italiano, meno familiare con questo tipo di esperienza museale. È un dato su cui probabilmente pesa una tendenza culturale ormai abbastanza storicizzata da qualche decennio in Italia. Dopo l'esplosione degli anni Settanta e Ottanta, quando le arti dello spettacolo fiorivano in ogni luogo - ancora meglio se extrateatrale - per andare ad incontrare le persone più diverse per cultura, estrazione sociale, lingua, etnia, condizione, con una vocazione e una funzione segnatamente sociali, si è assistito negli ultimi quarant'anni ad un progressivo riflusso delle stesse arti sceniche entro i confini del proprio alveo naturale di origine: il teatro, complice l’avvento dell'era tecnologica, che necessita di spazi scenici dedicati e sempre più attrezzati, oltre ai profondi cambiamenti socio-culturali e di costume che hanno rivoluzionato tendenze, linguaggi e codici di ogni medium di comunicazione, non ultimo lo spettacolo dal vivo.
Nel sentire comune quindi, le attività che "restano fuori" dal luogo di elezione - il teatro - non sempre, e non da tutti, vengono considerate parimenti arte, quasi si trattasse di sottoprodotti o prodotti necessariamente commerciali o amatoriali o di serie B o "che se avessero valore non starebbero qui ma in un teatro importante". Dunque non stupisce particolarmente se nel campione statistico rilevato qualche visitatore abbia percepito le arti dello spettacolo all'interno dei musei - e quindi all'esterno dell'unico luogo evidentemente legittimo e legittimante - non più come forme d’arte vere e proprie in dialogo con le altre (la pittura, la scultura…) quanto piuttosto forme di più o meno consono intrattenimento, diversivi o divertissement.
In realtà l'essenza dell'esperimento Uffizi Live è proprio portare a dialogare tra loro arti diverse ma sorelle dove l'una legittima e accresce il valore dell'altra in continuità: la differenza è che notoriamente le arti figurative sono quelle che per definizione lasciano un segno perché sono l'eredità visibile e tangibile di un passato, mentre le arti performative per loro natura sono fatte "della stessa materia di cui sono fatti i sogni", per dirla con Shakespeare, sono incorporee, informi, cioè prive di una forma. Non lasciano segno perché vivono, rispetto al dipinto o alla scultura, in un eterno presente. Vivono nel momento stesso in cui vengono rappresentate "per la durata della propria ora e poi non se ne sa più niente", tanto per continuare a parafrasare il Bardo dalle sue più celebri riflessioni sull’essenza delle arti sceniche. Lo spettacolo rispetto alle arti figurative non lascia traccia di sé visibile agli occhi. Non abita in nessun modo né il dominio della forma né quello della materia né tanto meno è sottoposto alle leggi del tempo.
Sulla scorta di questa consapevolezza i progetti che vengono selezionati per Uffizi Live devono tutti avere alla base un'intrigante operazione semiotica di compenetrazione di codici, integrazione di segni, commistione di linguaggi propri sia delle arti performative sia delle arti figurative per creare una moltiplicazione di significati, di suggestioni, di prospettive sulle opere della Galleria; scorci inediti, creativi, personali che avanzino ipotesi e stimolino riflessioni sia attraverso linguaggi contemporanei - più appetibili a un pubblico anche più giovane, che ci interessa particolarmente riavvicinare ai musei – sia attraverso linguaggi transnazionali, evitando quindi progetti in sola lingua italiana o comunque fatti solo di parola, in un'unica lingua o dedicati ad un unico target.
A questo scopo, per creare e prestare la propria arte ad una o più opere, ogni artista è quindi chiamato a studiare, lasciarsi preventivamente attraversare e ispirare dai capolavori degli Uffizi, per poi, in un secondo momento, sceglierli e sovrapporre dialetticamente il proprio mondo contemporaneo, i propri linguaggi performativi e "live" e non ultimo il proprio sentire artistico a quello, diverso - perché appartenente ad altri codici - delle arti figurative dei grandi geni del passato; pittori, scultori, architetti che hanno fatto la storia e che oggi rivivono nelle sale della Galleria.
Di norma ogni artista selezionato per le performance non studia le opere solo sui libri di critica, ma effettua sopralluoghi preliminari per incontrare fisicamente l'opera d'arte e ascoltarla nel suo contesto, appunto, “vivo”. Chiede informazioni al nostro staff, pensa la propria performance in relazione non solo - concettuale - alle opere scelte ma anche logistica, in rapporto alla specificità degli spazi della Galleria dove vorrà esibirsi, che devono restare sempre aperti alla libera circolazione dei visitatori, senza creare ostacoli o ingorghi, e senza prevedere limitazioni o demarcazioni fisiche dello spazio scenico neanche durante gli spettacoli. Il pubblico deve sempre avere la possibilità di scegliere se continuare la propria visita o soffermarsi ad assistere alle performance in completa libertà e per il tempo che crederà opportuno. Se il visitatore sceglierà di rimanere sarà solo perché l'artista riuscirà a catturarlo - per il tempo di cui sarà capace - davanti all'opera d'arte protagonista della sua pièce.
"Quattro trappole per artista": le difficoltà di esibirsi agli Uffizi
Non è certo un compito facile quello che viene richiesto agli artisti che partecipano ad Uffizi Live. Si trovano in sostanza a dover prevedere e gestire, già in fase di stesura dei loro progetti, una serie di problematiche connaturate alla specificità del contesto degli Uffizi e che, sulla scorta dell'esperienza maturata fin qui, potremmo categorizzare, dal punto di vista della funzione segnica, in quattro insidie o "trappole" con cui c’è sempre da fare i conti per non vanificare il proprio spunto creativo: la tentazione dello specchio, dell'eco, l'effetto acquario e il richiamo della sirena.
1. Le insidie dello specchio
Se per moltiplicare il senso e il fascino di un'opera d'arte l'artista sceglie la strada della sua rappresentazione mimetica riproponendone semplicemente il soggetto, quasi mimandolo fisicamente, dandogli vita e voce come in una sorta di tableau vivant a specchio, dall'esperienza delle precedenti edizioni della rassegna emerge che operazioni di questa portata risultano spesso deboli e di poco impatto sul pubblico al limite del déjà vu.
Paradossalmente accade che riprodurre visivamente il soggetto in modo quasi speculare, o comunque per via imitativa, piuttosto che rafforzare, banalizzi il contenuto dell’opera d’arte. Questo perché si toglie l’opera al suo tempo, che è un tempo assoluto in cui l’osservatore proietta le sue più diverse e molteplici suggestioni, percezioni e appercezioni emotive, personali. Quando l'artista sceglie di “mimare” o comunque rimodulare gesti ed espressioni di un dipinto o di una scultura, nell'illusione di dargli vita in realtà gli sta solo dando una forma. E improvvisamente tutti i molteplici rivoli di senso occulto che un'opera ha inscritta in sé si sviliscono, perdono potenza e capacità fascinatoria.
Strappata al suo tempo assoluto e catapultata in un presente attraverso una semplice rievocazione mimetica a specchio, l'opera d'arte è costretta in una e un'unica forma. Viene "spiegata", ne viene data una sola interpretazione, un'operazione che paradossalmente ne mortifica la connaturata polisemia ottenendo piuttosto l’effetto contrario rispetto a quello sperato, un effetto boomerang per l'artista: è come tirare un unico filo da un gomitolo pieno di altri fili e colori diversi. Lo si può dispiegare in tutta la sua estensione, ma indubbiamente si verrà a perdere quell'effetto policromatico dell'insieme che conserverà sempre un fascino maggiore e maggiori potenzialità rispetto al singolo filo tirato di un unico colore. Imitare o replicare le forme di un’opera d’arte è una vera e propria trappola per l’artista che intende instaurare con l’opera stessa un dialogo interessante e denso di nuovi sapori. Le convulsioni, la torsione e gli spasmi del corpo di un performer, ricalcate o ispirate a quelle scolpite nel marmo del Laocoonte di Baccio Bandinelli, non ne potranno mai restituire la stessa plastica intensità, né la stessa smisurata potenza drammatica e reale se mai queste fossero le intenzioni dell’artista che le mette in scena. A meno che non si tratti di un esercizio didattico o di stile, non conviene mai al performer farsi insidiare dalla tentazione del “copista” e porsi in confronto con l’originale attraverso lo specchio della sua arte.
2. L'effetto eco
Complementare ma di segno opposto alla "trappola dello specchio" è quella di un possibile "effetto eco" che le performance possono generare rispetto alle opere d'arte con cui l'artista intende entrare in relazione. Se nel primo caso il performer si colloca necessariamente come un osservatore esterno in una sorta di rappresentazione o imitazione a specchio di tipo simmetrico, frontale o rovesciata che sia, rispetto all'opera, nella seconda ipotesi accade che l'artista cerchi piuttosto la via dell'immedesimazione con l'opera o lo spazio, collocandosi come un osservatore stavolta interno, quasi come parte o appendice della stessa opera: una sorta di "amplificatore di senso" o megafono semantico. Facciamo qualche esempio.
Eseguire un concerto di musica medievale nella Sala delle Maestà del Due e Trecento o una danza barocca dinanzi al San Lorenzo del Bernini non basta di per sè ad aggiungere un surplus di significato.
A volte si crede erroneamente che la sovrapposizione cronologica della scelta dei programmi da eseguire - soprattutto dei grandi autori e artisti del campo della musica, della danza e del teatro - in consonanza con le epoche dei pittori o degli scultori esposti nelle sale della Galleria, basti da sola a creare l'evento. Sicuramente possono anche essere performance di altissimo pregio che nel migliore dei casi contribuiscono a creare un'atmosfera correttamente intonata all'opera d'arte presa in esame. Ma non sono progetti giusti per Uffizi Live. In questo contesto non è un'operazione convincente quella di ricostruire in maniera filologica e ineccepibile ciò che sta dentro all'opera d'arte e al suo contesto storico o al suo humus culturale. Né tentare l'immedesimazione nel genius loci degli Uffizi.
Accade perciò che quando il performer si limita a percorrere, senza nient'altro aggiungere, questa strada della mera consonanza cronologica accostando artisti di arti diverse come ad esempio musicisti e pittori soltanto perché vissuti nella stessa epoca, piuttosto che moltiplicare segni e significati - che, come abbiamo detto, è il fine ultimo del modello Uffizi Live - li sovrappone semplicemente. Ma sovrapposizione non equivale a moltiplicazione. L'effetto ottenuto spesso è solo quello di "accompagnare" l'opera d'arte, sottolineare il contenuto o il soggetto di un dipinto, di una scultura o di un'architettura senza fornirne una prospettiva nuova o alternativa. Un "effetto eco" dunque dove a una voce se ne sovrappone semplicemente un'altra, che sostanzialmente è identica e non sposta di una virgola il dettato originale, e dove il risultato finale è solo una maggiore amplificazione del "volume" del contenuto del messaggio originario come se si utilizzasse un megafono. Senza nessun processo di accumulazione di nuovi significati.
3. L'effetto acquario
Il rischio dell'"effetto acquario" riguarda il pericolo logistico di spazi e misure inadeguate, di relazione spaziale sbagliata fra il corpo degli artisti e le opere d’arte nel contesto degli Uffizi. Ecco perché ogni progetto deve essere sempre preceduto da un considerevole tempo di studio e sopralluoghi e non condotto solo attraverso internet o strumenti virtuali: viceversa il rischio è quello di non cogliere il senso della misura.
Non si può ad esempio pensare di eseguire una coreografia con dieci danzatori se si sceglie come soggetto un quadro fiammingo di 20x20 cm, come non è del resto possibile concepire una performance su un dipinto se purtroppo questo si trova collocato in una posizione logisticamente difficile da gestire, magari in uno spazio angusto o di passaggio, dove verrebbe impedita la libera circolazione del flusso dei visitatori.
Tuttavia anche la scelta di sale ampie e di grandi dimensioni a volte non tiene in giusto conto che lo spazio in questione non è comunque uno spazio teatrale che – come suggerisce l’etimo greco della parola stessa teatro – assicuri una visione uniforme da qualsiasi punto si guardi. Anzi, qui l’artista si trova spesso ad interagire sullo stesso piano visivo delle opere (dunque non su un palco rialzato visibile a distanza) oppure anche al di sotto o al di sopra delle stesse opere. E se non si è abili nel convertire questi minus in punti di forza delle proprie performance, si rischia proprio l’"effetto acquario", con lo spettatore che assiste da una distanza anche emotiva, come dietro ad un vetro, ad un’esperienza priva di empatia, senza capire, senza vedere, guardando solo "affogare" gli artisti nello spazio e limitandosi a vederli muovere ed agire da lontano senza comprenderne il significato.
La Sala della Niobe, tanto per citare un esempio, attrae comprensibilmente molti artisti che desiderano esibirsi in ampi margini di spazio. Ma è pur vero che si tratta di una sala dove è sempre difficile individuare un'area di rispetto della performance perché nonostante le dimensioni, non esistendo nessuna pedana rialzata, il pubblico - che spesso assiste in piedi - finisce per assieparsi in gran numero addosso agli artisti limitando la visione alle prime due o tre file di fortunati. E dunque il fatto di avere una quantità enorme di spazio a disposizione in realtà rischia di essere addirittura penalizzante, soprattutto se la performance è di tipo stanziale, se cioè si svolge in un unico punto con un unico focus prospettico. È vero che la sala può accogliere un gran numero di spettatori, ma è pur vero che se la performance non è ben congegnata la maggior parte di loro rischia di non vedere granché. E i disturbi alla visione nell’osservatore creano sempre disaffezione, lo irritano e lo spingono ad abbandonare l’atmosfera, a rompere il silenzio, il "patto narrativo" che lega performer e pubblico in ogni spettacolo. Considerando infine che non esistono sedute, non c’è una platea e non c’è uno spazio scenico delimitato né punti di vista privilegiati o allestiti ad hoc, l’area di rispetto può solo essere creata in fieri dalla performance stessa senza nessun altro ausilio.
4. Il richiamo della sirena
Il riferimento è al mito omerico della sirena e descrive le insidie nascoste nella scelta, da parte dell'artista, di farsi ammaliare, tentare e attrarre dal potente e seducente richiamo dei capolavori più famosi degli Uffizi. Senza considerare che deve essere la performance ad illuminare di una luce nuova e inedita le opere d’arte e non viceversa.
Quando ad esempio sceglie La nascita di Venere di Botticelli come fulcro della propria performance, è necessario che l'artista sia ben consapevole che non deve essere il capolavoro del Maestro fiorentino a valorizzare la sua esibizione, ma esattamente il contrario. E per raggiungere questo risultato bisogna che il progetto sia veramente originale, calibrato e studiato a lungo: cosa si può dire e proporre di nuovo a proposito della Venere di Botticelli per non rischiare l’effetto contrario ovvero che la potenza visiva e comunicativa di quel capolavoro assoluto, che per di più è diventato un vero e proprio feticcio culturale dei giorni nostri, finisca per prevalere e fagocitare gli artisti e le loro perfomance – proprio come accade nell’Odissea ai marinai più sprovveduti sull’isola delle Sirene - schiacciandoli, polverizzandoli, facendoli diventare piccoli e tradendo di fatto quella che sembrava una promessa di successo? Il rischio che l’opera d’arte “consumata” e “iper-celebrata” prevalga e rubi la scena al performer è sempre in agguato. E il grande capolavoro non accetta quasi mai un ruolo da comprimario, non sta su uno sfondo, non fa da scenografia. Vive una vita propria. Si tratta di opere che parlano, che hanno una voce forte, riconoscibile e potente, dotate di un magnetismo seducente che rischia di prevalere su qualsiasi altra cosa o persona gli stia attorno. È la forza dei capolavori assoluti. “Nessuno è mai passato di qui senza ascoltare con la nostra bocca il suono di miele - sembrano dire queste opere ai visitatori che le osservano rapiti - ma va dopo averne goduto e sapendo più cose”. E intanto però "intorno è un mucchio d'ossa di uomini putridi con la pelle che raggrinza" (Odissea, libro XII).
L’«insettofono» di Botticelli
C’è da dire però che l’humus creativo del panorama artistico dei performer è davvero fertile e sorprendente, e i progetti finali selezionati per la stagione di Uffizi Live sono sempre estremamente densi e calzanti, oltre che di grande qualità estetica, anche quando si misurano con i grandi capolavori della Galleria, compresi i cosiddetti "feticci" contemporanei.
Un esempio su tutti: l’anno passato una performance che ha avuto un bel successo di pubblico è stata quella di un collettivo di musica sperimentale contemporanea che ha costruito una rete di relazioni ossimoriche con la Primavera di Botticelli.
Gli artisti hanno dapprima creato una teca di vetro trasparente in cui hanno fatto vivere e muovere davvero gli insetti del prato della Primavera (grilli, cavallette, blatte). Dopo aver iperamplificato la teca - collocata di fronte al celebre dipinto alla vista di tutti i visitatori come una sorta di installazione - hanno stimolato gli insetti a muoversi. Quando saltavano, striscivano, mangiavano, frinivano, il loro movimento produceva dei suoni (ecco perché il nome “insettofono”); suoni che, una volta amplificati, i musicisti hanno campionato in tempo reale creando delle melodie, sonorizzando e vivificando in questo modo il tappeto erboso della Primavera. Un’operazione che non solo ha raggiunto una qualità estetica ragguardevole dal punto di vista musicale, ma che è anche densa di significato, perché oppone alla visione neoplatonica del capolavoro di Botticelli in cui trionfa l’idea di Bellezza e di Forma perfetta e idealizzata - con quel suo prato fiorito pieno di simbologie e allegorie - una visione antiplatonica, materica, empirica, il punto di partenza dell’osservazione del naturalista, ovvero quel "brutto" che nondimeno costituisce la vita pulsante, l’inevitabile spunto e principio vitalistico, l’invisibile e informe che anticipa letteralmente l’idea, che "viene prima" perché è la materia di partenza da cui trae ispirazione, per poi distaccarsene successivamente, la visione perfetta e idealizzata della Primavera neoplatonica. È ciò che nel prato più famoso del mondo non si vede ma che doveva necessariamente esistere. E che forse dal basso lo insidia e lo minaccia. Ciò che non si vede ma si sente: il suono di quel misterioso prato.
Un’operazione affascinante, che ha conquistato il pubblico a più livelli, rifrangendo molteplici vettori di senso in opposizione binomica: alto-basso, forma-informe, vista-udito, bello-brutto, ideale-necessario, spirito-materia, flora-fauna e così via. Le performance costruite su relazioni ossimoriche con l'opera d'arte, fra tutti i progetti presentati ad Uffizi Live, sono quelle che hanno sempre riscosso maggiore successo di pubblico. Sono fra quelle che funzionano di più, si direbbe. La “rottura” dunque paga: il segno di discontinuità, la frizione, la polarità e la coincidenza degli opposti, se condotti con intelligenza e sensibilità, alla fine sembrano sempre premiare l’audacia degli artisti che li propongono.
Dimensione on-site + Dimensione online: il paradigma della comunicazione di Uffizi Live
Fin qui la percezione e l'esperienza di Uffizi Live vista dalla parte del pubblico e degli artisti per come l'abbiamo raccolta e identificata nelle passate edizioni fino ad oggi. Dal punto di vista interno, invece, sul fronte Staff e Direzione degli Uffizi, qual è l'obbiettivo e il risultato atteso da una rassegna di spettacoli di questo genere, progettati appositamente secondo una formula e un modello come quelli appena descritti?
Lo scopo è duplice ma correlato. Innanzitutto c'è l'indubbia volontà di promuovere e arricchire una dimensione on-site dell'esperienza museale, valorizzando adeguatamente e in maniera originale e circostanziata il patrimonio delle collezioni degli Uffizi per migliorarne la qualità dell’offerta culturale. Al contempo c’è anche l’intenzione di attrarre un maggior numero di visitatori, o meglio, intercettare segmenti di pubblico diversi, compresi – perché no? - anche coloro che frequentano meno assiduamente i musei ma che magari sono attratti dal più eterogeneo ventaglio di linguaggi delle arti performative, oppure coloro che apprezzano l'idea di un'esperienza museale più personale, veicolata anche attraverso il coinvolgimento della sfera emotiva stimolata dalle performance. Un'esperienza che per giunta viene offerta in orari insoliti per un museo, la sera, quando l'atmosfera cambia, quando il dialogo con l'opera d'arte è differente, si fa più intimo, e le luci dei tramonti estivi di Firenze aggiungono agli Uffizi spettacolo nello spettacolo. Un'opportunità in più, in definitiva, anche per coloro che sono semplicemente - si fa per dire - alla ricerca di offerte alternative, inedite e trasversali da parte dei luoghi e delle istituzioni della cultura.
D'altro canto c'è anche la volontà di promuovere una dimensione online dell'esperienza museale, comunicare gli eventi della rassegna di spettacoli attraverso canali digitali e dirette streaming. Lo scopo è quello di attrarre pubblico e followers geograficamente lontani verso i social delle Gallerie degli Uffizi, che servono a promuovere sia il patrimonio artistico in sé che il desiderio delle persone di "essere lì", in un tempio dell'arte per condividere a 360 gradi, anche da remoto, quello che avviene in un grande museo, perché tutti si possano sentire partecipi ed essere coinvolti anche su un piano più strettamente emozionale. In questo modo si alimenta di conseguenza nel visitatore virtuale anche il desiderio di poter vivere un giorno l'esperienza in loco, incentivandolo ad organizzare un viaggio "destinazione Uffizi" da qualunque parte del mondo si trovi a connettersi, magari invogliato proprio dai contenuti trasmessi attraverso i social o il sito web delle Gallerie. Ecco perché, come anticipato in apertura, le due dimensioni on-site e online della promozione dell'esperienza museale debbono sempre essere considerate in modo correlato e mai disgiunto. Se questo è vero, in linea generale, nell'ambito di una costruttiva e sana valorizzazione del patrimonio artistico dei musei tout court, lo è a maggior ragione nella comunicazione di una rassegna di spettacoli dal vivo all'interno degli stessi musei dove il tam tam e il passaparola innescati dai social media sono un vettore di promozione, attrazione e "comunicazione del nuovo" ormai imprescindibili.
Il "cerchio delle Muse". La vocazione storica degli Uffizi come "luogo di incontro"
In conclusione di questa analisi del fin qui fortunato "caso Uffizi Live" vale la pena ricordare che attraverso un'operazione di questo tipo gli Uffizi in realtà riscoprono "semplicemente" una vocazione che è già inscritta nel proprio codice genetico fin dalla loro costruzione nel XVI secolo e oltre, almeno fino al XVIII.
Gli Uffizi nascono storicamente come un punto d'incontro e un luogo di convergenze e di scambi culturali, sociali, economici, politici, amministrativi, giuridici. Da un punto di vista architettonico questa vocazione - tutta umanistica - alla contaminazione viene restituita nella creazione di spazi dedicati alle più disparate attività, che convivono tra loro, che sono adiacenti e in qualche caso compenetrati. È il caso degli spazi adibiti all’esposizione dei capolavori dell’arte o delle scienze che si trovano adiacenti agli "uffizi" per gli affari economici e giuridici o agli spazi dedicati alle arti dello spettacolo. Un universo autonomo e completo che si ricomprende in sé.
Al secondo piano dell'edificio progettato da Vasari l'architetto Buontalenti realizza la Tribuna per ospitare le opere d'arte della collezione privata del Granduca, mentre la collezione dei suoi strumenti scientifici trova alloggio nell'adiacente Stanzino delle Matematiche. Al primo piano fa costruire anche il cosiddetto Teatro Mediceo, un teatro che sorgeva a pochissimi metri di distanza da un altro preesistente, di frequentazione più popolare, il Teatrino di Baldracca, oggi ricompreso nell’attuale Biblioteca degli Uffizi. La stessa sala della Niobe al secondo piano della Galleria è stata a lungo chiamata Teatro della Niobe.
Tutti questi esempi ci dimostrano in sostanza che stiamo parlando di un luogo dove nel più pieno spirito umanistico del Rinascimento, molto prima dell’avvento della specializzazione dei saperi di epoca moderna, le arti e le scienze dialogavano e si influenzavano reciprocamente. Il senso dell’esperienza e la novità del progetto Uffizi Live risiedono dunque paradossalmente, se vogliamo, nella riscoperta del valore più antico, quasi filologico, del termine museo che – come suggerisce l’etimologia della parola – è “il luogo delle Muse”, di tutte le Muse, non solo di alcune: arte, letteratura, scienza, canto, teatro, danza e non solo. Dunque un luogo non soltanto di conservazione della memoria (non a caso infatti le Muse nel mito sono figlie della Memoria e i musei nascono principalmente come luoghi di memoria): "museo" può essere anche un luogo di incontro, di scambio, di aggregazione, un centro di ricerca, di contaminazione fra saperi e idee, nella riscoperta di un rito collettivo laico che può essere – fra gli altri - anche l’esperienza stessa all’interno di un museo. Proprio perché le Muse hanno fra le loro prerogative quella di “danzare”, cioè di muoversi, mescolarsi, toccarsi, creare movimenti del pensiero e proprio per questo - non sarà un caso - hanno spesso anche l’attitudine a scambiarsi posizione nel cerchio della danza.
Scambi di contenuti, quindi; connessioni globali, interconnessioni, iperconnessioni, sistemi crossmediali... Anche a questo sembra rimandare la figura del cerchio della danza delle Muse. Esempi e modelli che mutatis mutandis rimbalzano dall'antico (quasi dall'archetipo del mito) fino all'età contemporanea per offrire spunti nuovi per la costruzione di nuovi modi di vedere e vivere il museo nel XXI secolo.
Quando la riscoperta di certi archetipi ha il valore e il sapore dell'avanguardia: il fortunato caso di Uffizi Live.