I Nipoti del Re di Spagna: Anton Raphael Mengs e Firenze
La Sala delle Nicchie di Palazzo Pitti ospita una mostra dedicata a Anton Raphael Mengs e i suoi rapporti con Firenze. I tre ritratti dei figli di Pietro Leopoldo di Lorena e di Maria Luisa di Borbone, dipinti da Mengs a Firenze e oggi al Museo del Prado, si affiancano al ritratto di Ferdinando e Maria Anna acquistato recentemente dalle Gallerie degli Uffizi. Attorno a questo gruppo centrale si raggruppano altri ritratti della famiglia lorenese di altri pittori, tra i quali eccelle Johan Zoffany. Di entrambi gli artisti sono anche presenti gli Autoritratti dalla collezione degli Uffizi. L’esposizione viene integrata da due lettere di Mengs e da un manoscritto dedicato a Correggio e alle sue opere, elaborato dal pittore durante la sua permanenza fiorentina.
Inserita nel percorso museale della Galleria Palatina e allestita nella Sala delle Nicchie che con la sua decorazione neoclassica le offre la cornice perfetta, la mostra I Nipoti del Re di Spagna. Anton Raphael Mengs a Palazzo Pitti è focalizzata sui ritratti dinastici dei Granduchi del casato Asburgo Lorena riunendo un gruppo di opere che non solo illustrano un importante aspetto del contesto culturale e sociale dell’epoca di Pietro Leopoldo, ma sono anche una testimonianza vivace del clima cosmopolita che fece di Firenze un focolare efficace dell’illuminismo di matrice assolutistica, e non solo per l’Italia. Anton Raphael Mengs, l’artista al centro del discorso espositivo è, infatti, uno dei protagonisti intellettuali delle riforme artistiche che si effettuavano in questi anni sia a Roma che a Madrid sotto gli auspici dell’Illuminismo promovendo una nuova visione dell’arte antica e rinascimentale e inoltre rinnovando i principi dell’educazione artistica in senso sistematico. Anche se il motivo per il suo soggiorno fiorentino era piuttosto convenzionale, avendo come pittore di corte il dovere di realizzare per il suo patrono – il Re di Spagna e nonno materno ‒ i ritratti della famiglia granducale, la mostra si dedica anche al contributo essenziale di Mengs ai cambiamenti artistici nell’ambito fiorentino fino oggi piuttosto negletto dalla critica.
Fulcro della mostra è il Doppio ritratto di Ferdinando e di Maria Anna di Lorena in età infantile il di cui acquisto recente ha messo in moto l’iniziativa per questa mostra (Fig. 1). Scoperto e riconosciuto come opera di Mengs da Stefano Grandesso della romana Galleria Carlo Virgilio [1] che da decenni si dedica alla rivalorizzazione di epoche e contesti fuori del solito repertorio degli antiquari, il dipinto ha trovato la sua degna e giusta dimora nella Galleria Palatina dove fino ad ora mancavano ritratti dei figli di Pietro Leopoldo e di Maria Luisa di Borbone, entrambi presenti nella mostra con ritratti singoli, che si accomunano al tenore del contrasto di concetti che fa quasi da guida per le opere esposte. Al ritratto di Pietro Leopoldo ‒ sobrio, elegante, ma anche conscio del proprio ruolo di sovrano ‒ dipinto da Mengs durante sua permanenza a Firenze si oppone l’immagine vivace e gioiosa della futura sposa da ragazza, dipinto da Lorenzo Tiepolo a Madrid nel contesto di una serie degli infanti borbonici.
Ci voleva lo straordinario impegno e la lungimirante previdenza dei responsabili delle Gallerie degli Uffizi per realizzare un acquisto che non solo arricchisce la già ponderosa collezione iconografica dell’Istituto fiorentino ma segna anche una svolta nella percezione dei ritratti dinastici che per decenni sono stati guardati con poca simpatia, il che ha accelerato l’ulteriore scioglimento delle poche gallerie dinastiche ancora tenute dai casati aristocratici, spesso alienate senza che si sapesse né da dove provenivano né chi raffigurano. Il grande numero dei ritratti sradicati che hanno girato nel mercato senza la prospettiva di poterli attribuire o identificare si spiega da questo fenomeno che equivale a una perdita di storia sociale e familiare e di contesti culturali. Al ritratto dei due arciduchi un tale destino è stato risparmiato perché è approdato in mano di antiquari esperti che si sono accorti del suo pedigree eccellente. Così si è messo in moto il meccanismo che ha dato un futuro sicuro a questo dipinto che però doveva essere prima liberato dalle tracce dei secoli che avevano oscurato la sua apparenza. Solo allora si è scoperto che non era stato portato a termine, circostanza che lo rende a giorno d’oggi più attraente di quanto sarebbe stata nel secolo scorso quando fu ritoccato (Fig. 2).
L’anno scorso a New York si è tenuta una mostra dedicata all’opera incompiuta che ha avuto una grande risonanza [2]. Tra i quadri ivi esposti era anche un ritratto di Mengs al quale mancava il volto mentre tutto il resto era elaborato. Ciò nonostante o forse proprio per tale anomalia il ritratto ha trovato un’ottima destinazione e se ci domandiamo perché la risposta è abbastanza banale – perché un dipinto eseguito con la virtuosità ed esuberanza tipica dei ritratti ufficiali di Mengs nel suo ruolo di pittore di corte, ma privo del volto – ragion d’essere di ogni ritratto – ha qualcosa di esotico che lo rende interessante e attraente. Nel caso del quadro palatino abbiamo la situazione opposta – i volti sono elaborati con grande cura e attenzione mentre i vestiti, le mani e l’ambiente sono rimasti in stato di abbozzo. I disegni preparatori per i volti, discussi nel catalogo, ma purtroppo non presenti in mostra, documentano la precisione e la virtuosità del ritrattista nel cogliere il carattere e l’espressione infantile. Oltre questi disegni, mancano fonti o notizie circa la provenienza e l’originale destinazione del dipinto che deve essere uscito dallo studio del pittore già prima della sua morte nel 1779 perché mancante nell’inventario di lascito. Una delle ipotesi circa la committenza del ritratto palatino che risale allo stesso periodo del ritratto madrileno deriva da un doppio ritratto dei due arciduchi maggiori, cioè Maria Teresa e Francesco, attribuibile ad Anton von Maron, da sempre nelle collezioni viennesi e perciò riferibile alla nonna paterna, l’imperatrice Maria Teresa, instancabile nel suo impegno di documentare la fortuna familiare della dinastia. I due dipinti si collegano tramite le loro dimensioni di poco differenti e il vistoso rapporto cromatico dei vestiti, rispettivamente di color verde rosa, dei bambini invertiti in modo tale da far supporre che dovevano formare una coppia. Quindi è verosimile ritenere che il ritratto di Mengs fosse originariamente destinato per Vienna ma che sia poi rimasto incompiuto a causa dei tanti impegni ai quali il pittore si dovette dedicare dopo il suo soggiorno fiorentino.
È un dato di fatto che l’eredità artistica del Settecento fiorentino ‒ e soprattutto di quello lorenese ‒ non gode oggi della stessa attenzione e ammirazione come quella delle epoche precedenti, un fatto che si spiega anche dalla scarsa visibilità di questo patrimonio nell’assetto attuale della città e delle sue collezioni. Così, forse, oggi pochi visitatori si rendono conto che la sistemazione degli Uffizi a museo pubblico risale proprio a Pietro Leopoldo il quale mirava ad adattare le collezioni alle esigenze del colto pubblico europeo di allora. Gli interventi del granduca lorenese posero inoltre le radici per la rivalorizzazione del Rinascimento fiorentino così incisiva per il periodo del Risorgimento che vedrà Firenze meta preferita dei cultori e studiosi della storia dell’arte prima di Giorgio Vasari. L’adattamento dell’assetto architettonico del centro urbano e dei suoi monumenti all’immagine che si associava con la valorizzazione della fioritura artistica dal Trecento alla metà del Cinquecento era uno degli effetti collaterali di questo revival che cancellava o almeno occultava buona parte dell’aspetto che la città aveva assunto durante il XVII e XVIII secolo. Ne consegue che Palazzo Pitti spicca ancor di più quale simbolo emblematico del poter monarchico assoluto e della sua pompa e magnificenza, che dietro una facciata rinascimentale nasconde una sontuosità e uno splendore che ‒ almeno in Toscana ‒ non ha pari, sia per la sua enormità che per i suoi complessi strati storici e artistici.
Il ritratto dei due arciduchi s’inserisce perfettamente in questo contesto essendo nato proprio in uno dei tanti interni del Palazzo che oltre alle collezioni storiche nell’ala di destra ospitava la numerosa famiglia di Pietro Leopoldo. I quartieri degli arciduchi e dei loro istruttori, delle balie, delle aje e della servitù erano situati al secondo piano, e dalla planimetria si evince che la maggior parte delle stanze dove abitavano i principi maschi si affacciava sulla facciata mentre i quartieri delle femmine si orientavano verso il cortile interno e il giardino [3]. La sedia dorata rivestita di velluto rosso alla quale si appoggia il piccolo Ferdinando apparteneva probabilmente al mobilio dei quartieri degli arciduchi, visto, che fino ad oggi si sono conservati parecchi esemplari simili nel guardaroba del palazzo.
Lavorando alle immagini granducali delle quali nella mostra sono esposti quattro dipinti, anche il pittore alloggiava nel palazzo e sappiamo che era lì mentre elaborava il ritratto dell’Arciduca Francesco [4], futuro Imperatore del Sacro Impero Romano, che nella mostra è affiancato al ritratto di Johan Zoffany che lo raffigura all’età di sei anni. L’accoppiamento rende visibile la differenza tra i diversi concetti del potere monarchico: il concetto di maestà sovrana idoneo alla convenzione spagnola è in forte contrasto con l’idea del potere sovrano assunto a Firenze in consonanza con l’educazione moderna dell’erede al trono imperiale.
Non meno esplicita è la differenza tra le due versioni del doppio ritratto di Ferdinando e Maria Anna. Alla versione del Prado, non solo più grande ma anche più cerimoniale, si contrappone il dipinto della Galleria Palatina con la sua grazia naturale e freschezza che fa dimenticare la posa dei due bimbi che ‒ già consapevoli del loro comportamento ‒ si presentano come una coppietta in procinto di uscire ma che ancora non conosce il ruolo che li aspetterà nel mondo. La naturalezza delle loro fisionomie infantili come anche l’atteggiamento di Ferdinando con il braccio teso fanno riferimento a un opera famosissima a Firenze, quali sono i putti in fasce di Luca della Robbia nei medaglioni della Loggia degli Innocenti (1487). Qui troviamo le braccia stese, i visi paffuti, i capelli fini e ondulanti, e quell’espressione fiduciosa ma nello stesso tempo un po’ incerta (fig. 3) che comunica anche il piccolo Ferdinando con la sua testina inclinata verso la sorellina tenendo in mano un cappello nero. La somiglianza con i putti in fasce suggerisce che il pittore abbia guardato con profitto queste opere che facevano parte del museo all’aperto che la capitale toscana offriva ad un attento osservatore quale era Mengs. A parte le sue doti da ritrattista e i suoi interessi per la statuaria antica nelle collezioni fiorentine egli si apriva anche ai nuovi orientamenti artistici partecipando attivamente alla riscoperta del Quattrocento fiorentino, un aspetto che viene approfondito nel catalogo della mostra [5].
La mostra propone inoltre un abbinamento molto illuminante del famoso e spesso copiato autoritratto di Mengs con la cartella del disegno (Fig. 4) accanto con l’autoritratto di Johan Zoffany con i limoni e il suo cagnolino (Fig. 5), entrambi nella collezione degli autoritratti degli Uffizi, ora in corso di riordinamento. Mentre il ritratto di Mengs, consegnato ai custodi della Galleria nel 1773 e sistemato da lui personalmente con intento programmatico sotto l’autoritratto di Raffaello esprime le sue ambizioni da rinnovatore della pittura, l’autoritratto di Zoffany (Fig. 4), soltanto dal 1909 nelle collezioni fiorentine, comunica un messaggio del tutto contrario. I limoni e il cane sono emblemi parlanti dell’amicizia finta che ritroviamo nella letteratura emblematica del Cinquecento ma inoltre e soprattutto nella pittura inglese del Settecento alla quale Zoffany fa certamente riferimento, il cagnolino significa qui la fedeltà alla natura. Il concetto di pittura al quale il pittore aderisce è dunque quello del naturalismo mentre Mengs si riferisce al disegno e alla tradizione accademica. Ma è anche degno di un commento il fatto che entrambi i pittori di origine tedesca, che probabilmente si erano già incontrati a Roma dopo il 1750, abbiano prese strade così differenti non soltanto in pittura ma anche nella vita. Quando nel 1761 Mengs va in Spagna, nello stesso momento Zoffany approda a Londra adattandosi man mano al gusto inglese piuttosto sterile nei confronti della tradizione accademica di stampo romano.
L’ultima opera in esposizione è un quadretto inedito che è il modello per una tavola con il Compianto di Cristo commissionato a Mengs da Carlo Rinuccini che rimase incompiuto a causa della morte del pittore. A Firenze si poteva vedere fino al Ottocento inoltrato nella quadreria Rinuccini il grande cartone in chiaroscuro, elaborato a perfezione in matita. Il modello invece documenta la cromia di questo dipinto che doveva essere il pendant di una Sacra Famiglia di Raffaello.
[1] Quadreria 2015. Documents d’art et d’histoire, a cura di G. Porzio, Galleria Carlo Virgilio & C, pubblicata in occasione di Paris Tableau, Paris, Palais Brongniart, 11-15 novembre 2015, pp. 57-59.
[2] Ritratto di Doňa Mariana de Silva y Sarmiento, Duquesa de Huescar, in: Unfinished: Thoughts Left Visible, a cura di K. Baum, A. Bayer, S. Wagstaff, New York, Metropolitan Museum of Art, 2016, n. 68.
[3] D. Toccafondi, I Lorena in Toscana: potere e rappresentazione. Scene da una dinastia, in I Nipoti del Re di Spagna. Anton Raphael Mengs a Palazzo Pitti, a cura di M. Ceriana e S. Roettgen, catalogo della mostra, Livorno, 2017, figg. 4-5, pp. 66-67.
[4] S. Roettgen, “Non mi scorderò mai delle belle cose di Firenze”. Anton Raphael Mengs e Firenze, in Op. cit., p. 22.
[5] Ivi, pp. 28-32.