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Approfondimenti | 11/08/2020

Conversazione su Carlo Del Bravo

Conversazione su Carlo Del Bravo

A tre anni dalla sua scomparsa ricordiamo il raffinato studioso la cui importante collezione è entrata per donazione alle Gallerie degli Uffizi

Conversazione su Carlo Del Bravo

“La scheda, la sistemazione, son nelle abitudini degli ultimi decenni, doverose per noi, e invece ridicole o incomprensibili per artisti di quel tempo [gli anni Trenta del novecento]: le loro antiche dichiarazioni scritte, se ci ostiniamo a trattarle scientificamente come fonti, non ci rispondono quasi mai; dal loro silenzio, possiamo allora schedarle, se vogliamo, come neo-idealiste: ma da questo termine colto rimangon fuori i tempi lunghi dell'assimilazione, la trasmissione verbale, l'ascendente personale: anzi, per dirla meno astrattamente, il maestro, il manuale scolastico, l'amico, la conversazione, la passeggiata, il libro consigliato e quello scovato” (Carlo Del Bravo, Per Bruno 1984).

Simili considerazioni da parte di uno storico dell'arte sono sempre state fuori dal coro, anche quando affiancate da attento studio delle fonti e rigore analitico, quali quelli adoperati dall'autore di quelle note nell'affrontare l'arte dal Quattrocento al Duemila.

Per analogia, allo studio matto e disperatissimo di artisti che valicavano secoli e stili (490 per il primo esame, 70 volte 7: il numero biblico della pazienza!), gli studenti di Carlo Del Bravo dovevano aggiungere la disponibilità a tenere aperta e permeabile la mente verso una prospettiva di studi che da principio disorientava per la sua vastità, ma con il procedere costruiva percorsi di senso e affinava strumenti critici speciali, grazie al contatto diretto con le fonti principali: le opere.

La collezione Carlo Del Bravo riflette quest'attitudine all'apertura nei confronti di epoche e stili diversi, così come di espressioni di animi e ingegni non sempre consacrati dalla storia dell'arte. “Anzi - ci dice il professor Lorenzo Gnocchi che ha donato la collezione del maestro agli Uffizi, onorandone la memoria e la volontà - Del Bravo era un curioso che cercava in cataloghi d'asta, mercati e fiere antiquarie, e riusciva a portare a casa pezzi splendidi che il mercato rifiutava e la critica pure: ecco che negli anni Settanta acquistava capolavori dell'ottocento italiano considerati noiosamente accademici e oggi invece pienamente compresi e valutati: da Ciseri, a Cassioli, a Bezzuoli a Ingres. Così come sul versante degli studi era del tutto inconsueto negli anni settanta parlare dell'arte tedesca del secondo ottocento come espressione altra di attenzione al reale, rispetto all'imperante arte francese”. 

Partendo poi da uno studio delle categorie dell'arte dell'ottocento, procedette verso l'indagine di personalità di artisti italiani di cui intuiva la disposizione alla bellezza attraverso l'attitudine appassionata al vero, quali Giuseppe Abbati e Raffaello Sernesi. Lo stesso dicasi per l'attenzione alla scultura tra le due guerre: cercare il valore di artisti che avevano avuto la sventura di operare nel ventennio, appariva quasi un'onta alla storia tragica di quegli anni; ma quando il valore di quegli artisti superava ed eludeva i vincoli ideologici imposti dal regime, si scopriva l'umanità dell'artista ed era quella a cui il collezionista e lo studioso miravano.

“Del Bravo cercava la bellezza, in ogni sua forma, a partire proprio dalla figura umana e dalla natura: l'artista rappresenta un corpo, un paesaggio, una natura morta perché ne è affascinato e li sente risuonare con le corde profonde del suo animo; naturalmente è anche figlio del suo tempo, vede e vive i suoi giorni, ma questo non gli impedisce di guardare a modelli diversi e di generare nuova e inedita bellezza”.

Nello studiare l'arte di Lorenzo Bartolini, Del Bravo ne trovò ad esempio consonanze con il pensiero di Rousseau, collegando le due personalità per analogia formale e per probabili occasioni di incontro del pensiero dello scultore con quello del filosofo:

“Un uomo dunque con questa natura e con i chiarimenti ricevuti, doveva, anche nello studio dei Greci, essere indotto non già ad imitar le loro forme, ma ad ammirare e studiare analogamente l'uomo che si poteva incontrare, e perciò praticava e raccomandava sempre l'esercizio del ritratto che educa l'occhio e la mano; però egli sapeva bene che l'arte si fonda sul corpo ma anche sull'anima, e che essa deve rispettare il carattere esterno ma anche quello interno dell'uomo, così da esprimere la bellezza specifica, con una filantropia, ancora una volta rousseauiana, che rappresentava un grado di coltivazione di sé aperto a tutti” (Carlo Del Bravo, Bartolini interpretato con Jean-Jacques 1993).

Quella coltivazione di sé che genera “artisti che sono innanzitutto uomini di pensiero e poi uomini d'azione” dice ancora Lorenzo Gnocchi, e che non hanno bisogno che i critici prestino loro parole perché per loro parlano le opere: da quelle opere con operazione di maieutica si risale al loro pensiero e alla loro individualità.

L'eredità di Carlo Del Bravo, coltivata nell'ateneo fiorentino da Lorenzo Gnocchi, “pare consistere proprio in uno studio profondo, lenticolare, condotto attraverso le personalità degli artisti, le loro opere, i loro spostamenti, i loro contatti, e non attraverso la lente delle comode e riduttive definizioni da manuale. Esercitare l'occhio, guardare e vedere diventano gli strumenti primi dello storico dell'arte in formazione. Saper riconoscere un artista non diventa quindi sterile gioco attributivo, ma conduce lo studente ad appropriarsi della materia e lo porta a scoprire percorsi di senso inediti, spesso oscurati per semplicità di catalogazione”. Cosa ne ricaviamo? L'artista con la sua autonomia di pensiero e, se siamo fortunati, nella concreta quotidianità dei suoi giorni:

 

“Disegno ingenuo dei ragazzi, quello di Bruno: talmente appoggiato e calmo, da esser privo di verbi, e soltanto una salda armonia di sostantivi; lui disegnava e poi datava monumentalmente (gravità di quei giorni), il salotto vuoto, l'angolo di cucina ravversata, i piselli, l'insalata o la schiumaiola sul marmo del tavolo, il babbo e la mamma che dormivano, il giglio o il giaggiolo nel bicchiere...” (Carlo Del Bravo, Per Bruno 1984).

 

 

 

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