Tra specchio e smartphone. Una partita da vedere
Nell’evoluzione della specie umana, per milioni di anni il volto è stato il “punto cieco” nella percezione delle proprie sembianze. Ancora poche migliaia d’anni fa, il rispecchiamento di sé su una superficie riflettente – il fenomeno che nella mitologia greca si traduce nel caso tragico ed emblematico di Narciso – è stata un’esperienza impressionante e fuori dal comune, paragonabile per rarità al fenomeno acustico dell’eco che si verifica solo in rare situazioni. Va considerato per giunta che fino ad epoche più recenti, e ancora nelle civiltà classiche, gli specchi non facevano parte degli oggetti d’uso quotidiano. Per millenni l’immagine della presenza fisica di ciascuno è stata invece legata alle parti che si potevano cogliere direttamente con lo sguardo e frontalmente: le mani, le braccia, il petto e lo stomaco, le gambe e i piedi. Il volto che si poteva vedere era sempre quello degli altri.
Pertanto sorprende la teoria di Charles Darwin, secondo cui il momento in cui un bambino riesce a identificare se stesso in un’immagine rispecchiata è addirittura coincidente con quello in cui nasce la coscienza, caratteristica spirituale che ci distingue dagli animali. Oggi sappiamo che altri primati e mammiferi sono perfettamente in grado di riconoscersi nello specchio, tuttavia il fenomeno ha per essi ben poca rilevanza, così come succedeva ai nostri antenati, ad eccezione di quelli degli ultimissimi secoli.
L’interesse per il proprio volto non poteva che nascere nel momento in cui lo specchio – specie quello piccolo e portatile – divenne ampiamente disponibile. Nell’età moderna uno dei casi più significativi di compenetrazione tra strumento e immagine è senz’altro quello dell’autoritratto del Parmigianino al Kunsthistorisches Museum di Vienna, dove il pittore ritrae se stesso offrendo nel contempo a chi contempla, attraverso gli effetti deformanti, una precisa descrizione del mezzo convesso e brunito utilizzato per compiere l’opera.
Forse non è un caso che l’autoritratto, ovvero il genere artistico scaturito dall’osservazione attenta delle proprie fattezze e, pertanto, dalla diffusione dello specchio come mass medium, inizi ad essere collezionato nel Seicento proprio a Firenze, nel periodo e nella città di Galileo Galilei, e che l’ideatore di questa raccolta fino a quel momento inusitata sia stato proprio il cardinal Leopoldo de’ Medici di cui sono noti i fortissimi interessi, oltre che per le arti visive, anche per le scienze naturali e gli strumenti scientifici. Mentre però Galilei utilizzava la lente per osservare gli astri remoti, gli artisti che si ritraevano utilizzavano lo specchio per analizzare quello che era loro più intimamente vicino, ovvero il proprio volto.
Dal momento del suo principio, negli oltre tre secoli e mezzo a seguire la raccolta del cardinale è stata accresciuta fino a diventare la collezione prosopografica di artisti più grande e importante al mondo. Le Gallerie degli Uffizi custodiscono pertanto un tesoro unico, che, a partire dallo smantellamento - dopo il primo conflitto mondiale - della sala del museo riservata agli autoritratti (l’odierna sala di Leonardo da Vinci) è rimasto visibile solo in piccola parte, in condizioni assai sfavorevoli, e in genere accessibile solo a pochi. Il prossimo ritorno della raccolta nell’edificio vasariano, dove era stata esposta sin dai tempi del granduca Cosimo III de’ Medici, non soltanto renderà giustizia alla sua importanza ma permetterà che essa sia finalmente visibile a tutti, oltretutto in condizioni climatiche che assicurino la migliore conservazione delle opere. Per valutare i vari aspetti del nuovo allestimento e prepararlo, abbiamo organizzato una giornata internazionale di studi svoltasi il 10 settembre 2018 nell’Auditorium Vasari agli Uffizi. In quell’occasione sono state analizzate molte opere che verranno esposte, ma soprattutto si è parlato dei principi del collezionismo e degli ambiti teorici riguardanti il genere dell’autoritratto. Dopo aver pubblicato i primi due saggi basati sugli interventi del convegno nello scorso numero di Imagines, ne offriamo ora altri quattro – di Gail Feigenbaum, Isabell Franconi, Annalena Döring e Anna Maria Procajlo – che investigano aspetti diversi legati a quella tematica.
L’autorappresentazione è un argomento di attualità scottante, nell’epoca in cui il selfie sembra essere diventato il genere di comunicazione visiva più diffuso al mondo, grazie allo smartphone dalla lente frontale integrata che ha rimpiazzato come medium l’ormai obsoleto specchio. Rendere accessibile la collezione degli autoritratti degli Uffizi diventa dunque particolarmente urgente, perché essa svelerà a tutti quella che in realtà potrebbe essere definita la preistoria del selfie, sia pure in un aspetto limitato e certamente elitario, perché circoscritto al mondo degli artisti. Infatti, emerge chiaramente il drammatico scarto concettuale tra gli interessi di questi personaggi – pittori, scultori, in epoca più recente anche fotografi - che con grande pazienza, quasi sempre davanti allo specchio, hanno studiato le proprie fisionomie e spesso le hanno riprodotte contestualizzandole in ambientazioni allegoriche, o rese attraverso costrutti spirituali, profondo scandaglio psicologico, sottili analisi di costume. A parte l’analogia superficiale del soggetto, non possiamo trovare un’equivalenza tra autoritratto e selfie: il primo non ha quasi nulla a che spartire con gli scatti veloci che oggigiorno abbinano gli individui e i loro volti a un luogo, un oggetto, un momento o una persona cara (nella migliore degli ipotesi) o semplicemente famosa (nella peggiore). Ci si chiede anche se il periodo del selfie non abbia invece iniziato un percorso di declino e se in retrospettiva la pratica di immortalarsi con il telefonino, ora così attuale, non verrà indissolubilmente legata al secondo decennio del XXI secolo, così come i capelli lunghi e i pantaloni a zampa d’elefante lo sono agli anni Settanta del Novecento. Non tanto perché la gente inevitabilmente si sarà stancata di questa forma espressiva convenzionale, di questo bombardamento di facce e momenti sui social, ma perché grazie alla tecnologia al giorno d’oggi è diventato facilissimo aggiungere alla propria immagine qualsiasi sfondo, a propria scelta, vero o inventato: con la conseguenza che il selfie perde il valore, acquisito ai suoi albori, di testimonianza e di presenza memorabile. Il fenomeno è tiranno ed evolve con gran rapidità seguendo gusti mobilissimi: negli ultimi tempi anche i social media sembrano privilegiare non tanto le immagini ferme quanto quelle in movimento e i video, meglio se brevissimi. È dunque assai probabile che in poco tempo, insieme alle condizioni tecnologiche di base, anche il genere del selfie sia destinato ad una trasformazione. E proprio in questa fase di cambiamento di gusti e costumi diventerà particolarmente interessante osservare dal vero gli autoritratti dei massimi artisti dell’ultimo mezzo millennio, e studiare i molti modi in cui essi hanno affrontato la sfida, ancora giovane e forse presto di nuovo attuale, dell’autorappresentazione per mezzo dello specchio.