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Fanciullo togato

Arte romana

Data
Metà I sec. d.C.
Collezione
Scultura
Collocazione
A16. Tribuna
Tecnica
Basanite del Wadi Hammamat
Dimensioni
90 cm (altezza)
Inventario
1914 n. 400

La scultura fu rinvenuta nel 1651 sul colle Celio a Roma. La testa perduta fu integrata da Leonardo Agostini sul modello del ritratto di Britannico, figlio dell’imperatore Claudio (41-54 d.C.). Era prassi comune all’epoca restituire leggibilità e completezza alle sculture rinvenute in forma frammentaria. Nel risarcire le lacune o nel restaurare gli elementi superstiti, i restauratori si affidavano a modelli avvicinabili alle opere mutile. Tali accostamenti risultavano talvolta corretti; erano tuttavia frequenti gli equivoci e le errate interpretazioni. Agli storici e agli archeologi spetta il delicato compito di distinguere filologicamente le parti originali dalle integrazioni. Il fanciullo fu oggetto di un diffuso restauro che interessò la testa, la mano sinistra con il rotolo, forse parte del braccio destro. La scultura raffigura un giovinetto in abiti cerimoniali indossati usualmente da uomini adulti. L’insolita “moda” fu introdotta in epoca augustea e nei rilievi dell’Ara Pacis si possono scorgere fanciulli in veste “togata”. La toga indossata dal fanciullo rimanda, in effetti, a modelli della metà del I secolo d.C. 

Una recente ipotesi ha confermato l’intuizione di Leonardo Agostini. Il Fanciullo togato rappresenterebbe effettivamente Britannico, figlio di Claudio e Messalina.

La scultura, esposta inizialmente nella Sala delle Iscrizioni, è attestata in Tribuna a partire dalla metà del Settecento. Alcuni studiosi ritengono l’opera parte di un gruppo comprendente una statua di Agrippina Minore, quarta moglie di Claudio e madre adottiva di Britannico, oggi ai Musei Capitolini.

Bibliografia

E. Talamo in I giorni di Roma, I ritratti. Le tante facce del potere, Catalogo della mostra (Roma, Musei Capitolini, 10 marzo – 23 ottobre 2011) a cura di Eugenio La Rocca, Claudio Parisi Presicce con Annalisa Lo Monaco, Roma 2011, p. 232, n. 3.8

Testo di
Cristiana Barandoni
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