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Sulle tracce di Traiano

  • Sulle tracce di Traiano

    Un percorso attraverso le preziose e uniche testimonianze del regno di Traiano presenti nelle collezioni delle Gallerie degli Uffizi

    Sulle tracce di Traiano
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    Busto di Traiano

    Gallerie degli Uffizi, Tesoro dei Granduchi, Inv. Gemme 1921 n. 452, arte romana, botteghe granducali, testa: inizi II secolo d.C.; busto: 1584-1586; panneggio: XVIII secolo; agata, alabastro orientale, semesanto, breccia, bronzo dorato.

     

    “Ma al nostro Principe, quale concordia e quale concerto di tutte

    le lodi e di ogni gloria toccò in sorte! Sicchè alla severità di lui

    nulla toglie la letizia, nulla alla gravità il semplice portamento,

    nulla alla maestà l’amabilità. La robustezza poi e quell’altezza

    della persona, la nobiltà della fronte e la dignità del sorriso, la

    non indebolita maturità degli anni, e quella chioma, non senza

    un certo volere degli dei, anticipatamente adorna dei contrassegni

    della vecchiaia, per crescergli riverenza, non lo fanno anche da

    lontano conoscere per un Principe?” (Plinio il Giovane,

    Panegirico a Traiano, 4, 6-7)

     

    Così appariva agli occhi dei contemporanei Marco Ulpio Traiano (53-117 d.C.). Ispanico, originario di Italica (attuale Santiponce, vicino a Siviglia), è il primo provinciale a salire al trono imperiale. Il suo regno (98-117 d.C.) è calcolato secondo le fonti in 19 anni, 6 mesi, 15 giorni, indicando come dies imperii la data del 28 gennaio del 98 d.C. Dopo gli eccessi di Domiziano, si afferma con lui una nuova concezione del potere imperiale, fondata sulla scelta del migliore, l’optimus princeps, designato in vita e adottato come figlio. Gli autori antichi concordano nel riconoscere in lui il modello di ogni virtù. Uomo austero ed equilibrato, preoccupato del benessere comune e della giustizia, Traiano mette ogni cura nel costruire, secondo canoni inconsueti per l’epoca, un’immagine pubblica il più perfetta possibile, dando così origine alla propria leggenda. Leale verso gli amici, rispettoso verso le donne della famiglia; in tempo di guerra, ama condividere la durezza della vita militare al fianco dei suoi soldati, in tempo di pace, lo si può vedere camminare a piedi, cittadino fra i cittadini, in mezzo alla folla. E la potenza e il fascino di questo personaggio, così alimentati, si radicano a tal punto nelle coscienze da superare indenni il passare dei secoli ed essere consegnati di generazione in generazione in eredità ai contemporanei.

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    Foro di Traiano

    Traiano è ricordato come un grande costruttore e il suo Foro, l’ultimo ma il più grandioso dei fori imperiali, rimane la principale testimonianza di un intenso programma urbanistico, destinato a modificare in modo significativo il volto di Roma. L’immenso bottino conquistato con le due campagne militari in Dacia (101-102 d.C., 105-107 d.C.) e soprattutto lo sfruttamento delle miniere d’oro contribuirono a finanziare la febbrile attività edilizia dell’imperatore. Ideato da Apollodoro di Damasco, ingegnere militare e architetto di fiducia di Traiano, e preceduto da grandi opere di sbancamento tra il Quirinale e il Campidoglio, il Foro venne realizzato fra il 107 e il 113 d.C. L’imponente complesso si estendeva per circa 30.000 mq, comprendendo un’enorme piazza di m. 110 x 86, che risultava delimitata, a est e a ovest, da una galleria porticata, al cui centro si aprivano due grandi esedre, a sud, da un ambiente con colonnato di forma allungata segmentata, di incerta funzione (forse la Porticus Porphyretica nota dalle fonti letterarie?), e collegata mediante un’area porticata al contiguo Foro di Augusto. Il lato settentrionale era dominato dalla grandiosa Basilica Ulpia, un edificio a pianta rettangolare di circa m. 170 x 56, in cinque navate e absidi sui lati corti. Dietro la Basilica Ulpia, due biblioteche gemelle, al cui centro venne realizzata la Colonna Traiana, entro un ristretto cortile porticato, chiuso a nord dal tempio ai divi Traiano e Plotina realizzato da Adriano. Fuoco visivo dell’intero complesso era la statua equestre in bronzo dorato di Traiano, situata lungo l’asse maggiore della piazza, un po’ decentrata verso sud, ancora in piedi nel 357 d.C., ai tempi dell’imperatore Costanzo II. Rivolto probabilmente verso la Basilica, Traiano era rappresentato in una sorta di eterna adlocutio agli uomini, che lo avevano sostenuto nella conquista della Dacia, le cui legioni di appartenenza sono ricordate in frammentarie iscrizioni in bronzo provenienti dalla facciata. Il programma decorativo del Foro risultava molto articolato. Gli spazi esterni, che si affacciavano sulla piazza, dovevano commemorare, nei clipei dei coronamenti e forse in cicli statuari, dinastie imperiali e personaggi illustri, mentre i pannelli con le cataste di armi e le statue dei Daci richiamavano alla mente gli episodi della storia più recente. Negli spazi interni, in una diversa atmosfera, venivano evocate l’idea astratta del potere imperiale e della vittoria della Roma eterna, con un repertorio di fregi istoriati con amorini desinenti in foglie di acanto, grifoni a testa di aquila e di leone, Vittorie taurotoctone e sfingi, che si alternavano a tripodi apollinei, crateri dionisiaci, candelabri e ghirlande. Il Foro venne inaugurato nel gennaio del 112 d.C. Nel maggio del 113 d.C., a completamento dell’intero complesso, venne inaugurata la Colonna Traiana. Utilizzato come sede di tribunali e rimasto in uso fino almeno alla metà del V secolo d. C., ancora nel secolo successivo le fonti ricordano che si tenevano qui letture pubbliche di Virgilio e di altri poeti.

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    Colonna traiana

    Considerata uno dei monumenti più suggestivi sopravvissuti all’antichità, la colonna traiana, inaugurata il 12 maggio del 113 d.C., si erge nell’area a nord del Foro, fra le due Biblioteche, al centro del cortile retrostante la Basilica Ulpia. Ideata come monumento celebrativo della vittoria sui Daci e come sepolcro destinato ad accogliere le ceneri di Traiano e della moglie, Pompea Plotina, costituisce uno delle opere più innovative nel panorama dell’arte antica.

    Su un fusto in marmo bianco di Carrara, alto 100 piedi romani (circa 30 metri), si avvolgono a spirale, fino alla sommità, quasi 200 metri di fregio istoriato a bassorilievo, che narra minuziosamente, come in un volumen dispiegato, con ritmo incalzante e fluido, episodi tratti dalle campagne militari condotte da Traiano nel 101-102 d.C. e nel 105-107 d.C. per la conquista della Dacia (attuale Romania). La narrazione, che si svolge come in una sequenza fotografica, è divisa in due spezzoni da una figura di Vittoria alata, intenta a scrivere su uno scudo il resoconto dei fatti, forse integrando un’opera scritta dallo stesso Traiano, e andata perduta, i Commentarii de bello dacico. I rilievi, che segnano la nascita di un nuovo linguaggio figurativo, sono considerati opera di un unico grande artista, una personalità di spicco, a noi ignota, identificata come il “Maestro delle imprese di Traiano”, nella quale è stato proposto di riconoscere Apollodoro di Damasco, l’architetto del Foro.

    Sul lato meridionale dell’alto basamento in marmo istoriato, una piccola porta, un tempo chiusa da battenti di bronzo, dava accesso alla camera sepolcrale, dove nel 118 d.C. vennero deposte da Adriano le ceneri di Traiano, racchiuse in un’urna d’oro. Dall’interno si accede a una scala a chioccola, che sale con 185 gradini fino alla sommità, dove risulta rischiarata da 43 feritoie. Sopra la porta è un pannello con l’iscrizione dedicatoria.

    In alto, al centro del terrazzino transennato, che sovrasta il capitello dorico decorato a ovoli, era un tempo una gigantesca statua di Traiano in bronzo dorato. Scomparsa nell’Alto Medioevo, forse caduta o abbattuta al tempo dell’imperatore bizantino Costante II, nel 663 d.C., la statua fu sostituita, nel 1587, per volere di papa Sisto V, con un’altra in bronzo raffigurante San Pietro.

    Con i suoi quasi 40 metri di altezza, possiamo dire che la colonna sia stata da sempre un punto fondamentale di riferimento nel panorama topografico, e non solo, per la città antica e il mondo occidentale.

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    Busto con ritratto di Nerva

    Gallerie degli Uffizi, Galleria delle Statue e delle Pitture, Primo Corridoio, inv. 1914 n. 132 marmo greco, h. 75

    Predecessore di Traiano, Marco Cocceio Nerva (26-98 d.C.), senatore proveniente da una nobile famiglia italica, vicino alla gens Flavia, diviene imperatore alla morte di Domiziano (51-96 d.C.), assassinato in una congiura il 18 settembre del 96 d.C. Il suo principato sarà molto breve (96-98 d.C.), a causa dell’età avanzata e per la mancanza di una solida base di potere. Per ottenere l’appoggio dell’esercito, Nerva, con una brillante soluzione, adotta Traiano, che diventa suo successore alla morte, avvenuta il 27 gennaio del 98 d.C.

    Il busto, attestato in Galleria a partire dagli inventari del 1704, si trova esposto nel corridoio di levante. Il ritratto, di dimensioni superiori al vero, conserva l’immagine di un uomo maturo in età avanzata; il volto aristocratico scarno, scavato dalle rughe, con le guance incavate, il naso aquilino pronunciato e il mento prominente; le sopracciglia marcate, la bocca piccola con labbra sottili e serrate, che sottolineano l’espressione solenne e austera dell’uomo di potere. I capelli sono resi a corte ciocche, rigonfie e arricciate, disposte sulla fronte in modo apparentemente disordinato. La testa, uno dei rari ritratti antichi di questo imperatore giunti fino a noi, è inserita in un busto moderno in marmo bianco, coperto da una corazza (lorica) e avvolto nel mantello militare (paludamentum) trattenuto sulla spalla destra.

    Data la brevità del regno è stato elaborato un unico tipo ritrattistico.

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    Busto con ritratto di Traiano

    Gallerie degli Uffizi, Galleria delle Statue e delle Pitture, Secondo Corridoio, inv. 1914 n. 142, marmo greco (testa);  marmo lunense (?) (busto), h. 104

    Dalla resa fortemente espressiva dei tratti fisionomici è il ritratto, di dimensioni superiori al vero, che vediamo nel corridoio di mezzogiorno. Traiano è rappresentato nella piena maturità, il volto segnato impietosamente dalle tracce del tempo ma ancora carico di energia; l’espressione intensa e maestosa, accentuata anche dall’impostazione rigidamente frontale della testa, lo sguardo concentrato e distante; le labbra sottili e serrate, che sembrano accennare a un lieve ed enigmatico sorriso; il collo corto e massiccio. I capelli aderiscono alla testa come una calotta compatta, con lunghe ciocche lunate, che formano sulla fronte una frangia regolare. La testa, antica, riferibile ad uno dei tipi più tardi, è inserita in un busto moderno coperto da una corazza (lorica), avvolta in un mantello militare (paludamentum) in marmi policromi, fermato sulla spalla destra.

    I ritratti di Traiano conservati nelle statue e nei busti a oggi noti superano per numero - ben 125 esemplari - quelli di tutti gli altri imperatori, a eccezione di Augusto. I sette tipi ritrattistici attualmente individuati segnano le tappe della vita pubblica del principe; dagli esordi, dove è ancora dominante l’immagine del principe-soldato nella sua apparente modestia e semplicità, in contrasto con i modelli elaborati dai predecessori, agli anni centrali e finali del principato, dove viene creato un ritratto che, pur non allontanandosi troppo dalle immagini delle origini, idealizza in senso eroico il volto del principe. I tratti fisionomici peculiari sono sempre riconoscibili. La resa naturalistica dei capelli divisi in lunghe ciocche lunate che, a partire da un vortice nella parte posteriore, vengono portate in avanti sulla fronte, secondo una formula iconografica ampiamente collaudata, è in realtà frutto di una studiata elaborazione, che tradisce, specialmente nei ritratti del periodo maturo, una maggiore adesione al modello classico di ispirazione ellenica.

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    Statua loricata con ritratto di Traiano

    Gallerie degli Uffizi, Galleria delle Statue e delle Pitture, Ricetto Lorenese, inv. 1914 n. 56, marmo greco (testa), marmo lunense (corpo), h. 226

    La statua, collocata in una nicchia del ricetto lorenese, all’ingresso della Galleria, è ricordata nel Cinquecento a Roma, nel cortile del palazzo Della Valle-Capranica. Passata presto nelle collezioni di Villa Medici, viene trasferita a Firenze nel 1788. Dapprima pensata per una collocazione nella Loggia dei Lanzi, si trova menzionata in Galleria a partire dall’inventario del 1825.

    La testa, antica, ma non pertinente, raffigura Traiano nella piena maturità, lo sguardo obliquo e lontano, l’espressione severa e accigliata, di chi esercita il potere. Il volto è asciutto, con le guance segnate da rughe marcate, le labbra sottili e serrate. La capigliatura, resa come una calotta compatta che, lasciando scoperte le orecchie, si dispone in ciocche lunate a ventaglio sulla fronte, richiama il quarto tipo ritrattistico detto “del Decennale”, elaborato nel 108 in occasione dei primi dieci anni di regno e messo in relazione col trionfo definitivo sui Daci, conseguito l’anno precedente.

    Di dimensioni superiori al vero, la statua veste abiti militari: una corazza anatomica, con stretti spallacci decorati da fulmini e file di rigide linguette frangiate (pteryges) sulle spalle, sulle gambe e sul bacino, dove sono decorate con protomi animali; sul petto, compaiono una piccola gorgone e due grifi affrontati, sul bacino, un’aquila ad ali spiegate. Alla vita è allacciato un nastro (cingulum) annodato, con le estremità rimboccate. Il mantello (paludamentum), appoggiato in forma di rotolo sulla spalla sinistra, scende lungo il fianco; ai piedi, sono alti calzari a gambaletto con protomi leonine. Nella mano destra è presente una spada, nella sinistra sollevata, un rotolo.

    La statua, databile genericamente al II secolo d.C., rappresenta una elaborazione semplificata del modello loricato repubblicano, destinato a rappresentare le virtù militari del principe. La tipologia della corazza, con caratteri anatomici e doppio tipo di linguette, che rientra nel tipo misto concepito dopo il 107-108 d.C., trova ampia diffusione nei monumenti traianei, nel Foro e nell’arco di Benevento. La decorazione trae ispirazione dalla statua di culto di Marte Ultore del tempio nel Foro di Augusto e sembra conoscere un vero e proprio revival proprio sotto Traiano, dove viene riproposta con un evidente richiamo all’ideologia politica augustea. Il modello della statua loricata, concepito come strumento di propaganda imperiale, conoscerà una notevole fortuna fino almeno al IV secolo d.C.

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    Ritratto pseudo-antico di Traiano

    Gallerie degli Uffizi, Galleria delle Statue e delle Pitture, Scalone Vasariano, inv. 1914 n. 144, marmo, h. 33

    La Galleria conserva anche un ritratto pseudo-antico di Traiano, esposto al piano terreno, alla base dello scalone vasariano.

    La testa, realizzata nel Cinquecento e documentata nella Tribuna due secoli più tardi, richiama il tipo ritrattistico elaborato per il “Decennale”, data la peculiare capigliatura a massa compatta, con lunghe ciocche a ventaglio sulla fronte, con la punta rivolta verso la tempia sinistra, dove si collocano ciocche più piccole, orientate in senso opposto.

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    Busto con ritratto di Adriano

    Gallerie degli Uffizi, Galleria delle Statue e delle Pitture, Primo Corridoio, inv. 1914 n. 146, marmo asiatico docimeno, h. 68

    Successore di Traiano, Publio Elio Adriano (76-138 d.C.) discende da una famiglia originaria della Hispania Ulterior Betica (attuale Spagna meridionale), legata da vincoli di parentela al principe: il nonno paterno, senatore a Roma, aveva sposato Ulpia, zia di Traiano e il padre, Elio Adriano Afro, proveniva da Italica (attuale Santiponce, vicino a Siviglia), città natale di Traiano. Favorito dalla  consorte dell’imperatore, Pompea Plotina, nel 100 d.C., all’età di 24 anni, Adriano sposa Vibia Sabina, figlia della nipote di Traiano, Salonia Matidia, venendo così designato quale possibile successore al trono. Una fonte biografica tardo-antica (Historia Augusta, Adriano, 3, 7) narra che nel ricevere in dono da Traiano un anello di diamanti, un tempo appartenuto a Nerva, Adriano riconobbe in questo gesto la conferma che sarebbe stato lui il prescelto dell’imperatore.

    Il busto, attestato in Galleria a partire dall’inventario del 1825, è collocato nel corridoio di levante. Di dimensioni superiori al vero, il ritratto è quello di uomo dai tratti ancora giovanili; il volto, che si volge verso sinistra, ha lineamenti distesi, lo sguardo concentrato e severo, la bocca leggermente dischiusa, con il labbro superiore coperto dai baffi mentre la barba, corta e curata, copre le guance ancora piene. La capigliatura, che lascia scoperte le orecchie, è resa a ciocche ondulate e corpose che si dispongono in modo apparentemente disordinato sulla fronte, con le punte arricciate su stesse. Il busto, pertinente, indossa una corazza (lorica) decorata al centro da una gorgone e coperta sulla spalla sinistra dal mantello militare (paludamentum), trattenuto da una fibula a disco.

    Primo dei setti tipi ritrattistici noti e conosciuto col termine convenzionale di “Stazione Termini”, è questa l’immagine ufficiale, creata quando Adriano ha 41 anni ed è da poco asceso al trono, in seguito alla morte improvvisa di Traiano nell’agosto del 117 d.C. L’adozione della barba, così come di un tipo di acconciatura estremamente elaborata, segna un punto di rottura con l’immagine del predecessore, rottura che sembra sottolineare una svolta anche nell’indirizzo politico-amministrativo del suo regno. Il valore della continuità dinastica e della conseguente legittimità del potere resta unicamente affidato alla linea femminile della famiglia Ulpia-Elia, come mostrano i ritratti ancora conformi alla moda traianea di Marciana, Matidia e, almeno nella fase iniziale, della stessa consorte Sabina.

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    Statua femminile con ritratto di Marcia (?)

    Loggia dei Lanzi, inv. 1914 n. 1995, marmo greco-insulare (Thasos), h 263 (senza plinto)

    In questo ritratto capite velato le ipotesi più accreditate riconoscono la madre di Traiano. Forse appartenente alla gens Marcia, di lei non si ha alcuna notizia dalle fonti né si conosce il suo vero nome. La sua identità rimane relegata all’anonimato, destino comune alle donne della società romana, anche se di rango elevato, il cui ruolo è spesso solo quello di custode e di trasmettitrice di valori civici ai figli adolescenti e adulti.

    Il ritratto presenta forti caratteri fisionomici. Il volto è ampio e rotondo, con una robusta struttura ossea, gli occhi grandi con sopracciglia ampie e sottili. La fronte è incorniciata da ciocche di capelli spartiti al centro e disposti a tenaglia, terminanti in fitti riccioli a chioccola, ordinati in tre file parallele sulle tempie, da cui fuoriescono quattro boccoli allungati all’altezza degli zigomi. A lungo identificata in Agrippina Minore, moglie di Claudio e madre di Nerone, di cui ripete, tranne piccole varianti, la particolare acconciatura dei capelli, sembra molto probabile l’identificazione con la madre di Traiano, resa possibile anche dal confronto con una testa-ritratto di dimensioni colossali proveniente da scavi nell’emiciclo orientale del Foro. Marcia viene probabilmente raffigurata con l’acconciatura in voga ai tempi della sua giovinezza, ispirata ai modelli dell’allora casa imperiale ma ormai superata in età traianea, come dimostrano le pettinature più moderne esibite delle donne più giovani della famiglia.

     

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    Statua femminile con ritratto di Ulpia Marciana

    Loggia dei Lanzi, inv. 1914 n. 1994, marmo greco-insulare (Thasos), h 267 (senza plinto)

    La donna ritratta è Ulpia Marciana, unica e amatissima sorella maggiore di Traiano. Nata intorno al 48 d.C., vivrà con lui dal momento della sua precoce vedovanza fino alla morte avvenuta il 29 agosto del 112 d.C., data a partire dalla quale sarà divinizzata. Il marito, Caio Salonio Matidio Patruino, proviene dall’aristocrazia della città di Vicetia (attuale Vicenza). Di lei le fonti contemporanee (Plinio il Giovane, Panegirico a Traiano, 83, 4-7) ricordano il carattere aperto e spontaneo, che ha in comune col fratello, e sottolineano la concordia con la cognata, Pompea Plotina, con cui condivide il titolo di Augusta a partire dal 105 d.C.

    Il ritratto è quello di una donna in età matura, dal volto ovale, gli occhi grandi con sopracciglia allungate e rilevate, le labbra piccole e sottili. Sulla fronte è un’acconciatura elaborata del tipo “a valva di conchiglia”, pettinata su due registri sovrapposti e fermati da una fascia di corte ciocche, divise al centro da un elemento a forma di conchiglia; dietro, i capelli sono riuniti in trecce e raccolti in una crocchia, da cui fuoriescono alcuni riccioli, lasciati liberi sul collo.

    Il ritratto richiama l’immagine adottata quando Marciana era già Augusta, forse elaborata in concomitanza con i decennali di Traiano (108 d.C.) quando poteva avere attorno ai 60 anni.

     

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    Statua femminile con ritratto di Salonina Matidia

    Loggia dei Lanzi, inv. 1914 n. 1993, marmo greco-insulare (Thasos),  h 260 (senza plinto); testa h 45

    Il ritratto è quello di Salonina Matidia, adorata nipote di Traiano. Figlia dell’unica sorella Ulpia Marciana e madre di Vibia Sabina, consorte di Adriano, è nominata Augusta alla scomparsa della madre nel 112 d.C. e divinizzata dopo la morte avvenuta nel 119 d.C.

    Il volto è quello di una donna giovane, dall’ovale allungato, gli occhi grandi e profondi con arcate sopracciliari ben delineate, la bocca piccola con le labbra carnose; le fa da cornice un doppio diadema di trecce, trattenuto sulla fronte da una fascia; dietro, i capelli, pettinati anch’essi in piccole trecce, sono raccolti nella parte occipitale in una sorta di crocchia, di restauro, mentre alcuni riccioli, solo sul lato sinistro, fuoriescono liberamente sul collo.

    Il ritratto richiama un tipo elaborato probabilmente poco dopo la morte.

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    Sabine

    Loggia dei Lanzi

    Con questo nome l’umanista bolognese Ulisse Aldovrandi ricordava a Roma, fin dalla prima metà del Cinquecento, la serie delle sei monumentali statue femminili, con le teste già integrate, nell’allestimento curato dall’architetto Lorenzetto per il cortile del palazzo Della Valle-Capranica. Acquistate in blocco, nel 1584, da Ferdinando de’ Medici e destinate ad arredare la loggia della sua villa sul Pincio, condividono la sorte del patrimonio di antichità della famiglia, trasferito poi a Firenze nel 1787, per volontà di Pietro Leopoldo d’Asburgo. Sottoposte da Francesco Carradori a interventi di restauro, che si protraggono per circa due anni, trovano in seguito una loro definitiva collocazione, a partire dall’agosto del 1789, nella Loggia dei Lanzi, a ridosso della parete di fondo, dove sono ancor oggi visibili.

    Giunte a noi unite fin dal Cinquecento, quattro almeno di queste statue costituiscono un complesso omogeneo, che sembra trarre ispirazione dalla rappresentazione delle Vestali in posizione orante. Anche le analisi spettografiche sembrerebbero confermare l’affinità della serie, realizzata nella stessa qualità di marmo greco-insulare, fatta eccezione per quella che presenta una testa con tratti ideali. La stessa espressione severa e distante dei volti, la stessa ponderazione del corpo, gravitante sulla gamba sinistra, la stessa impostazione frontale, in parte attenuata dalle lievi torsioni delle teste, la stessa posizione delle braccia, aderenti al busto fino all’altezza dei gomiti, con l’avambraccio sinistro piegato in avanti e il destro sollevato di lato. Identico è l’abbigliamento, solenne e austero: una veste con ampie maniche fino al gomito che, cinta sui fianchi, crea uno sbuffo di pieghe appena visibile sul fianco destro e che, aderendo alla gamba piegata, ricade in fitte pieghe sui piedi; un lungo mantello (himation), che copre il dorso, le spalle e la testa, come nel caso della statua con ritratto di Marcia (?), ma in origine almeno anche in quella di Salonina Matidia, arrivando fin sotto il ginocchio. Il manto attraversa il seno con un risvolto di pieghe attorte e a forte rilievo, scendendo fin quasi alla caviglia sinistra, con larghe pieghe a ventaglio. Sul fianco il tessuto appare trattenuto sul braccio sollevato, come nella statua con ritratto di Ulpia Marciana e in quella con tratti ideali, oppure avvolto attorno al polso e tenuto dalla mano, come invece in quelle con ritratto di Marcia (?) e di Salonina Matidia.

    Ancora oggi resta irrisolto il problema della pertinenza delle teste, che non appaiono mai solidali con i corpi, ma inserite talvolta adottando tasselli, e sempre comunque con evidenti interventi di rilavorazione della parte superiore del torso, quando anche della testa stessa, interventi avvenuti in momenti non ben documentabili.

    La presenza nella serie delle Sabine di teste-ritratto di donne appartenenti alla linea femminile della famiglia di Traiano fa ipotizzare che esse in origine fossero destinate a gallerie di personaggi illustri all’interno del Foro, dove potevano essere collocate in esedre della piazza o della Basilica Ulpia. Il retro, che appare generalmente appiattito, sembrerebbe infatti confermare l’inserimento delle statue a ridosso di una parete.

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    Statua di Dace pileatus

    Gallerie degli Uffizi, Giardino di Boboli, viale di accesso all’anfiteatro, inv. Boboli n. 8, porfido rosso (corpo); marmo (testa, avambraccia e mani), h con plinto moderno 255 , piedistallo s. n. inv., marmo, h 185, largh. 95, prof. 96

    Provenienti dall’allestimento del giardino pensile del palazzo romano Della Valle-Capranica, frutto forse di recuperi da scavi ordinati dal cardinale Andrea Della Valle, le statue dei Daci sono acquistate nel 1584 da Ferdinando de’ Medici, per la sua villa sul Pincio, e destinate al decoro della facciata del palazzo. Alla fine del Settecento, per volontà di Pietro Leopoldo d’Asburgo, l’allestimento viene smantellato e attuato il trasferimento a Firenze. Le statue, sottoposte da Francesco Carradori a interventi di restauro conclusi nel 1792, vengono dapprima destinate, secondo un progetto mai però realizzato, a essere esposte nella Loggia dei Lanzi, luogo da sempre con forte valenza politica, per rappresentare il trionfo della monarchia asburgica come erede del Sacro Romano Impero e braccio armato della cristianità. Trasferite in seguito all’avvento di Napoleone nella reggia di Palazzo Pitti, divengono protagoniste di progetti di allestimento pensati per celebrare l’ideologia del trionfo imperiale, ma in realtà realizzati solo al tempo della Restaurazione, sotto Ferdinando III d’Asburgo. Dal 1810, la monumentale coppia dei Daci, in porfido, su basamenti antichi non pertinenti, in marmo, invertiti rispetto alla posizione che avevano a Villa Medici, occupa quella che è la loro attuale posizione, all’ingresso del giardino di Boboli. Dal 1819-1820, l’altra monumentale figura di Dace, in marmo bianco, si trova invece all’interno della Sala Castagnoli, nella Galleria Palatina, in Palazzo Pitti, in un allestimento che la contrappone, in un muto e continuo dialogo, a una imponente statua loricata di Imperatore romano.

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    Statua di Dace capillatus

    Gallerie degli Uffizi, Giardino di Boboli, viale di accesso all’anfiteatro, inv. Boboli n. 13, porfido rosso (corpo); marmo (testa, avambraccia e mani), h con plinto moderno 243, piedistallo s. n. inv., marmo bianco, h 185, largh. 95, prof. 96

    I Daci sono rappresentati in piedi, con differenti ponderazioni del corpo, la testa leggermente reclinata e piegata in basso, il volto dai lineamenti contratti, che esprime dolore composto e insieme indomabile fierezza e dignità; uno soltanto ha la testa coperta da un copricapo, il pileus, riservato alle alte gerarchie aristocratiche, aderente alla testa e segnato da pieghe, la punta afflosciata alla sommità, piegata in avanti; gli altri, a capo scoperto, hanno chiome fluenti, che coprono la fronte e scendono sul collo; portano lunghi baffi e il mento coperto da una folta barba; le braccia sono distese e aderenti al torso, le mani incrociate, davanti, all’altezza del bacino, con quella più esterna in corrispondenza della gamba avanzata. I gesti esprimono, nel linguaggio del dolore, la condizione del vinto, condannato all’impotenza e alla sottomissione, e la compostezza del loro atteggiamento contrasta con le immagini concitate dei Daci evocate nei rilievi della Colonna Traiana.

    Avvolgono le figure ampi mantelli drappeggiati in larghe pieghe distese, fermati sulla spalla destra, che, lasciando scoperto il braccio destro, si avvolgono attorno a quello sinistro; ricadono, davanti, a coprire quasi interamente il torso mentre, dietro, scendono fino ai piedi. I mantelli coprono tuniche manicate, trattenute in vita da una cintura, che scendono fin sotto le ginocchia a coprire le lunghe brache, strette alle caviglie dai lacci dei calzari.

    Ad eccezione del Dace in marmo bianco, che presenta il retro appiattito, l’elevato grado di finitezza delle statue in porfido fa pensare che la posizione originaria fosse tale da consentirne una piena visibilità. Data la rarità degli esemplari in porfido conosciuti, è stata ipotizzata la provenienza da un unico contesto decorativo (forse una Porticus porphyretica citata dalle fonti).

    La coppia dei Daci di Boboli risulta montata su basamenti antichi, non pertinenti, in marmo, decorati a rilievo, con i Dioscuri e le Vittorie portatrici di trofei di armi.

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    Statua di Dace capillatus

    Gallerie degli Uffizi, Palazzo Pitti, Galleria Palatina, Sala Castagnoli, inv. OdA 1911 n. 440, marmo, h 244

    L’iconografia del Dace vinto, forse già comparsa ai tempi di Domiziano, in conseguenza del grande sforzo da lui sostenuto nelle campagne militari contro la Dacia (84-86 d.C.), viene elaborata e codificata definitivamente in età traianea. Centrale nella propaganda imperiale e trasposta nel programma decorativo del Foro, la figura del barbaro vinto viene ripetuta ossessivamente come mai più nella storia di Roma, diventando un tema dominante e distintivo del principato di Traiano. Nel Cinquecento, al momento della loro riscoperta, le figure acquistano una forte valenza simbolica. I collezionisti di antichità esibiscono statue di barbari, spesso a coppie, all’esterno, contro le facciate dei loro palazzi o in cortili loggiati e parchi, in funzione architettonica o decorativa. Filtrata e rivissuta alla luce delle vicende storiche del tempo, l’iconografia del barbaro vinto diventa un richiamo alla supremazia della civiltà cristiana occidentale, quale erede della Roma di età classica. L’interesse per l’aspetto paradigmatico delle sculture sembra però perdersi sul finire del Cinquecento, sostituito da una crescente attenzione per l’aspetto esotico e più meramente decorativo di questi soggetti. A Firenze, nel Seicento, la fortuna dell’iconografia del barbaro vinto è testimoniata, ad esempio, dagli affreschi di Pietro da Cortona, eseguiti in Palazzo Pitti fra il 1637 e il 1647: nella Sala della Stufa, dove nella rappresentazione dell’età del Bronzo, il barbaro vinto con le mani incrociate davanti al petto e incatenate, è seduto nell’angolo a sinistra accanto ad una figura femminile, che porta la mano sinistra al mento, in segno di dolore; nella Sala di Marte, dove negli affreschi del soffitto è rappresentata una coppia di barbari prigionieri, avvolti in ampi mantelli, dall’espressione dolente e insieme feroce dei volti, coperti da folte barbe, inchinati loro malgrado a domandare clemenza.

Sulle tracce di Traiano

Un percorso attraverso le preziose e uniche testimonianze del regno di Traiano presenti nelle collezioni delle Gallerie degli Uffizi

L’itinerario, ispirato dalle celebrazioni per i 1900 anni dalla morte di Traiano, trova adesso piena attualità in concomitanza dell’apertura della mostra “Costruire un capolavoro: la Colonna Traiana”, allestita all’interno della Limonaia di Boboli dal 21/06/2019 al 06/10/2019.

Traiano e Firenze. Può sembrare un accostamento inconsueto, ma c’è un legame profondo che unisce Traiano alla città. E questo dura da secoli. Nel Duecento Dante accoglie nella Divina Commedia l’elaborazione in senso cristiano della parabola di Traiano, come si era costruita in età post-classica (Dante, Purgatorio X, 73-96; Paradiso XX, 43-48 e 106-117). Negli affreschi trecenteschi della Cappella dei Bardi, all’interno della chiesa domenicana di Santa Maria Novella, si conserva un ciclo pittorico dedicato a San Gregorio Magno, che rievoca leggende legate alla figura di Traiano. Alcuni secoli più tardi, pregiati marmi salvatisi dalla rovina di antichi monumenti romani entrano nelle collezioni di antichità della famiglia Medici, confluendovi soprattutto con le acquisizioni di Ferdinando I, col quale entrano a far parte dell’arredo scultoreo della villa romana sul Pincio, per poi essere trasferiti, sul finire del Settecento, nelle proprietà granducali fiorentine.

La selezione delle opere presenti in questa Ipervisione vuole essere una naturale prosecuzione della mostra, offrendo la possibilità al visitatore di riconoscere, sparse in tutti i musei delle Gallerie degli Uffizi, preziose reliquie e testimonianze uniche del regno di Traiano. Dalla Loggia dei Lanzi, alla Galleria delle Statue e delle Pitture, per finire a Boboli e alla Galleria Palatina, le spoglie del Foro Ulpio presenti nelle collezioni statali fiorentine offrono una selezione di capolavori scultorei di eccezionale qualità sia per numero che per qualità, con rari confronti nella stessa Roma.

 

Bibliografia

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Credits:

Testi a cura di Manola Giachi e Fabrizio Paolucci

Traduzioni in inglese a cura di Eurotrad snc.

Editing a cura di Lorenzo Cosentino, Patrizia Naldini, Maria Anna Petricelli, del Dipartimento di Informatica e Strategie Digitali

Crediti fotografici Francesco del Vecchio e Roberto Palermo (Dipartimento Fotografico)

 

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