Fritz Koenig a Firenze
Gli Uffizi e il Giardino di Boboli ospitano la più grande mostra monografica dedicata all'artista
È un’occasione particolarmente fortunata che la prima retrospettiva di Fritz Koenig abbia luogo proprio a Firenze. Non soltanto è la prima iniziativa del genere che gli viene dedicata dopo quella del 1974 svoltasi per celebrare i suoi cinquanta anni alla Haus der Kunst Monaco, ma è anche la più grande mostra personale mai dedicata a uno scultore a Firenze, addirittura ancora più completa rispetto a quella dedicata nel 1972 ad Henry Moore, ormai entrata nella storia della museologia e delle mostre. Per la prima volta vengono presentate tutte le fasi creative di Koenig, inclusa quella particolarmente interessante: quarant’anni di opere create nella seconda metà della vita di Koenig, in cui l’artista si era completamente ritirato dal mercato e dal business dell’arte. La sinossi tra i primi lavori e quelli della fase più matura, caratterizzati da un potere creativo continuo e anzi crescente, dimostra tanto l’unità artistica della sua opera quanto la forza innovativa e la precisione di ogni singolo lavoro, in tutti i suoi aspetti. Il rango di Koenig, che si deve considerare il più importante scultore tedesco della seconda metà del XX secolo e uno dei massimi artisti del secolo scorso, è stato precocemente riconosciuto soprattutto negli Stati Uniti, con acquisti già alla fine degli anni Cinquanta e all’inizio degli anni Sessanta da parte di Peggy Guggenheim, del MoMA e anche del Minnesota Museum of Art, fino alla commissione epocale della Kugelkaryatide (la Sfera) per la piazza del World Trade Center a New York (1968-1972).
Ispirato da Kenneth Armitage, nel 1956 l’artista si imbatte nel tema della “Mengenskulptur”, ovvero la scultura di gruppo, con cui inizia a cimentarsi l’anno seguente, durante un soggiorno di sei mesi a Roma grazie a una borsa di studio presso l’Accademia Tedesca a Villa Massimo, in cui affronta il motivo antico della Biga e della Quadriga. Il soggiorno a Venezia nel 1958 lo porta nuovamente in contatto con Armitage, premiato come miglior giovane scultore alla Biennale, dove sei anni prima, nel padiglione britannico, l’inglese di Leeds era stato uno degli esponenti della “geometria della paura” (Herbert Read). Koenig tuttavia, trova soprattutto nel motivo formale dei gruppi a gondola l’occasione per approfondire la questione della “Mengenskulptur”: fusione seriale di vari motivi in un insieme più grande, ovverosia la trasformazione di un “accumulo” di parti in un sistema di forme.
Ma l’arte di Fritz Koenig è molto più radicata nella tradizione italiana e in particolare fiorentina di quanto suggerirebbe qualsiasi ragione esterna. In quanto studente di Anton Hiller – a sua volta formatosi con Hermann Hahn, seguace di Adolf von Hildebrand – egli va considerato come l’ultimo significativo anello di una catena di apprendistati all’Accademia di Monaco, spesso riduttivamente classificata come “classicista” ma basata invece, nella resa della figura umana, sul confronto con le antiche culture del Mediterraneo e con il rigore formale del Rinascimento toscano. Rispetto al superficiale entusiasmo ottocentesco per Michelangelo, l’approccio di Hildebrand, che nel 1874 si era stabilito nell’ex convento di San Francesco di Paola sulla collina di Bellosguardo a Firenze, è fondamentalmente diverso. Per lo scultore si trattava di derivare dallo studio dettagliato della tecnica del Buonarroti – e non dalla sua poetica o dai suoi scritti critici – una teoria artistica che cominciò a scrivere a partire dalla metà degli anni Ottanta e che venne pubblicata nel 1893 sotto il titolo Il problema della Forma nell’arte figurativa. Tradotto in francese nel 1903, in poco tempo questo testo – la cui importanza per le arti dell’Avanguardia può essere difficilmente sopravvalutato – venne ristampato diverse volte in entrambe le lingue. Mentre è ben noto il modo in cui il Modernismo classico ha letto il criterio principalmente non mimetico, ma anzi costruttivo di valutazione degli artisti antichi e fiorentini
riguardo al concetto radicale, “vasariano” che riconduceva la forma scultorea al principio del disegno (“La scultura ha indubbiamente avuto origine dal disegno, poiché per via di scavare conduce al rilievo”) nella tradizione artistica della Scuola di Monaco la teoria originale di Hildebrand continuò ad essere implementata. È ovvio che l’innovazione di Koenig dalla forma quantitativa alla scrittura pittografica, ovvero alla visione della scultura come un ideogramma tridimensionale – suo essenziale contributo all’arte plastica in generale – deriva dall’idea sul disegno di Vasari tramandata internamente nella pratica degli allievi di Hildebrand. Non si tratta certo di un’interpretazione tridimensionale legata ai criteri del passato, ma della creazione spontanea nello spazio di una scrittura completamente nuova, unica. Nel bilanciamento delle forme stereometriche di cui si compongono questi segni, che spesso sembrano disintegrarsi fra di loro, scultura e architettura confluiscono con facilità, esattamente come avviene nell’opera di Michelangelo, di cui l’artista bavarese condivide il rigore toscano, scabro e senza fronzoli. Come nella prosa di Musil, le precise costruzioni architettonico- scultoree di Koenig raggiungono livelli emotivi di particolare profondità, calore o pesantezza. C’è dunque un rapporto immediato e intimo con Marino Marini, amico di Koenig, nella cui tenuta di Ganslberg lo scultore italiano si reca in visita ben due volte. Entrambi gli artisti erano affascinati dal tema dell’equitazione, della connessione e della fusione tra cavallo e cavaliere in tutto il loro simbolismo atavico-sessuale, e proprio a Firenze si trova il Museo Marino Marini,a poche centinaia di metri dalla Galleria degli Uffizi. Per giunta, quest’estate la mostra archeologica A cavallo del tempo nella Limonaia del Giardino di Boboli permette di approfondire il tema del legame cavallo-cavaliere e della sua storia culturale dall’antichità all’alto Medioevo.
In linea con la tradizione fiorentina delle biografie d’artista – è proprio a Firenze che Giorgio Vasari pubblicò nel 1550 per la prima volta le Vite, con resoconti dettagliati poi rivisti e arricchiti da notizie soprattutto sui contemporanei nel 1568, e preceduto a metà Quattrocento dai più brevi profili stilati da Ghiberti nei suoi Commentarii – nel catalogo della prima retrospettiva dopo la morte di Koenig, sarebbe autorizzato a scriverne solamente chi lo ha conosciuto personalmente, o ne è stato amico per decenni. Ma non sarebbe giusto oggigiorno voler cogliere l’artista e il suo lavoro unicamente attraverso la parola scritta: pertanto, i saggi sono stati consciamente costruiti in otto album, completi di immagini concepite
non tanto per fornire memorie surrogate e bidimensionali delle singole opere – fatica destinata necessariamente al fallimento – ma al contrario per usare l’unica proprietà data alla fotografia, di riprodurre le opere nel loro ambiente, in definitiva sempre momentaneo. E abbracciando lo spirito della fotografia architettonica di Julius Shulman, si è scelto di non bandire le persone dall’immagine, ma soprattutto di mostrare l’artista che interagisce con il proprio lavoro: non solo nell’elaborazione creativa delle idee e nella lavorazione dei materiali, ma anche nell’atto di vedere, toccare, impegnare nella comprensione dialogica, fino alla valutazione critica e commento di ciò che si sta formando o di ciò che è già stato portato a termine.