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Ara posta da Genicia Grapte al marito

Arte romana

Data
Metà I secolo d.C. - prima metà II secolo d.C.
Collezione
Scultura
Collocazione
Sala 36-37
Tecnica
Marmo lunense
Dimensioni
100 cm (altezza); 59 cm (larghezza); 30 cm (spessore); 2,5-4 cm (altezza lettere)
Inventario
1914 n. 959

L’ara è caratterizzata da una decorazione molto semplice: sui lati corti i classici urceus e patera, la brocca e la scodella utilizzati per i rituali funerari, mentre il punto focale è rappresentato dal frontone triangolare all’interno del quale, in un incavo, si trova il busto ritratto del defunto, Lucio Genicio Epafrodito, ricordato dalla moglie, Genicia Grapte (CIL VI 19022).

La parte più interessante del monumento funebre risiede però nel testo, che mostra il particolare rapporto esistente tra gli sposi, dato che Genicio Epafrodito era stato schiavo di Genicia prima di divenirne prima liberto e poi marito. La circostanza è così anomala da essere sottolineata anche dal punto di vista grafico, con una soluzione volta a escludere una possibile errata interpretazione, la più comune condizione in cui la sposa era liberta del marito. Per tale motivo la normale abbreviazione epigrafica – LIB – presente in fondo alla linea 3 è completata a formare il dativo maschile – LIBERTO – grazie all’aggiunta di lettere nane su due linee, nello spazio rimanente fino alla cornice della tabella, in quello che sembra, data la particolare soluzione adottata, un ripensamento avvenuto a dedica già incisa. In questa scelta epigrafica sembra di poter cogliere l’orgoglio della dedicante, Genicia Grapte, a sua volta probabilmente una liberta dato il cognomen di ascendenza greca, la quale, dopo aver migliorato la propria condizione al punto da essere diventata a sua volta patrona di schiavi e liberti, avrebbe deciso di rivendicare fino in fondo le sue scelte, compresa quella del matrimonio con il proprio liberto. Una decisione coraggiosa che la poneva in contrasto con l’ideale matronale, modello attraverso il quale le donne di tutti gli strati sociali tendevano a rappresentarsi.

È ignoto il preciso luogo di ritrovamento dell’ara; attestata per la prima volta nella collezione di papa Giulio III, ospitata nella sua villa situata lungo la via Flaminia, passò poi al cardinal Giovanni dei Medici e dopo la sua morte, nel 1562, nella collezione del fratello, il cardinal Ferdinando.

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