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San Sebastiano

Giovanni Colacicchi (Anagni 1900 – Firenze 1992)

Data
1943
Collocazione
Depositi
Tecnica
olio su tela
Dimensioni
120 x 71 cm
Inventario
Giorn. 5563

È il 1943 quando Giovanni Colacicchi, sfollato con la famiglia a Vallombrosa dove è ospite presso la Casa al Dono dello storico dell’arte Bernard Berenson, dipinge il San Sebastiano. A rendere ancora oggi vivo il ricordo di quelle sessioni di posa sono una fotografia del set allestito nello studio di Berenson e la testimonianza della moglie dell’artista, Flavia Arlotta. Quest’ultima ricorderà di come il modello, Guido Fabiani, legato a un tronco con sotto i piedi un ceppo tagliato, a dispetto dell’apparente scomodità della posizione, tendesse spesso ad assopirsi e di come invece un giorno, un’amica, trovando la casa vuota, si fosse davvero intimorita credendolo sotto tortura. I tempi d’altro canto sono cupi, dalla Casa al Dono transitano soldati ed ebrei in fuga, e Colacicchi, pittore raffinato e professore all’Accademia di Belle Arti di Firenze, non può sottrarsi a una riflessione, peraltro condivisa con Berenson, sul ruolo della bellezza e della cultura a fronte del dramma della guerra. La scelta del soggetto ricade su San Sebastiano, santo delle guarigioni per antonomasia, sopravvissuto prodigiosamente alle frecce del martirio grazie alle cure di Irene ed elevato a sua volta a martire di culto per la protezione contro la peste. Una facoltà taumaturgica di origini incerte, consolidatasi soprattutto a seguito delle epidemie scoppiate a Roma e Pavia nel VII secolo, miracolosamente cessate proprio grazie all’invocazione del Santo. Ad orientare la scelta di Colacicchi, più che una richiesta di prodigio, dovette tuttavia essere la possibilità di cimentarsi con quel canone di bellezza ideale che dal Rinascimento caratterizzava l’iconografia di San Sebastiano e sul quale aveva forse avuto modo di meditare durante gli studi, dati alle stampe in quello stesso 1943, su Antonio del Pollaiolo, autore con il fratello Piero di una famosa versione del martirio, oggi alla National Gallery di Londra. L’artista rinuncia tuttavia all’elemento tipizzante delle frecce, invece fortemente radicato nel racconto agiografico del V secolo che descriveva il martire trafitto da così tanti dardi da «farlo sembrare simile a un riccio». Niente vìola qui la bellezza del corpo che Colacicchi mette in scena, esaltato dalla luce radente che arriva da sinistra, languido e sensuale come vuole la rilettura moderna attivata nel 1911 da Le martyre de Saint Sébastien di Gabriele D’Annunzio dove il corpo efebico del Santo, portato in scena da Ida Rubinstein, incarna la perfezione umana, insieme estetica e morale. Anche Colacicchi sentirà l’esigenza a posteriori di spogliare il dipinto della sua valenza religiosa. Lo chiamerà infatti L’uomo legato, ripensando, come scriverà Flavia Arlotta, «a quello che succedeva intorno a noi mentre lo dipingeva, e ai partigiani». Tempi cupi, appunto, adombrati anche nella fitta abetaia vallombrosana dello sfondo (così diversa dai suoi consueti tributi al “Dio Sole”), ai quali tuttavia l’artista oppone l’intangibilità dello spirito e della bellezza.

Testo di
Francesca Sborgi
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