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Ermafrodito

Arte romana

Data
II secolo d.C.
Collezione
Scultura
Collocazione
A40. Ermafrodito
Tecnica
Marmo pario
Dimensioni
Lungh. cm. 152; largh. cm. 68
Inventario
1914 n.343

Centro fisico ed emozionale della sala è la statua di Ermafrodito, un marmo antico entrato nel patrimonio della famiglia Medici al tempo del cardinale Leopoldo (1617-1675) che lo aveva acquistato per il fratello Ferdinando II (1610-1670) nel 1669 dalla collezione Ludovisi a Roma, dove si conservava nella villa presso Porta Pinciana (Anguissola 2010). Per la sua eccezionalità il marmo si guadagnò subito un posto nella Galleria di famiglia all’ultimo piano del complesso vasariano. Una curiosità: insieme arrivarono il basamento in legno lavorato creato appositamente per l’opera nel seicento ed una copertina di damasco azzurro che la corredava.

Quanto peso avesse questo mito nella vita degli antichi lo confermano le testimonianze archeologiche attraverso cui è nota l’immagine e le fonti scritte (Bernardini Mazzolla 1979). Il poeta latino Ovidio (43 a.C-18 d.C.) fra il 3 e l’8 d. C alla vigilia dell’esilio che lo porterà lontano da Roma per volere di Augusto (63 a.C.-14 d.C.), nel libro IV delle Metamorfosi, ai versi 285-388 racconta del fanciullo divino nato da Ermes e Afrodite che all’età di quindici anni fugge dall’antro cretese del monte Ida, dove era stato amorevolmente curato, per rifugiarsi in Caria (l’attuale Turchia). Qui, mentre si bagna in una fonte, il giovanetto viene sorpreso da una naiade (ninfa) di nome Salmacide che nel tentativo di sedurlo, in un complesso gioco di inversioni di ruoli, si avvinghia a lui pregando gli dei che i loro corpi non siano mai più separati. Gli dei ne esaudiscono la richiesta ed Ermafrodito così trasformato, suo malgrado, chiede ed ottiene dai divini genitori che la fonte in cui è avvenuta questa trasformazione debiliti la virilità agli uomini che vi si fossero immersi.

Eseguito in un blocco di marmo pregiato proveniente dall’isola greca di Paros, il giovane Ermafrodito è rappresentato mentre dorme, nudo, disteso sul ventre, su una pelle ferina gettata su un suolo roccioso, come un giaciglio improvvisato; il corpo dalle forme morbide e flessuose come quello femminile, è raffigurato con una leggera rotazione del bacino che ne rivela la duplice natura di uomo e di donna. La figura disegna una sorta di chiasmo, la testa ruotata a destra e appoggiata sul palmo della mano, la gamba sinistra piegata al ginocchio e ancorata alla destra. Il volto che ci appare è quello di un adolescente alle soglie della giovinezza con tratti minuti e ingentiliti, la piccola bocca leggermente dischiusa, il mento affilato; gli fa da cornice un’elaborata acconciatura con lunghe e morbide chiome trattenute da una fascia e divise sulla fronte in due boccoli fermati in alto da un gioiello e raccolti sulla nuca in un nodo, da cui fuoriescono piccoli riccioli scomposti, stilisticamente affine alle acconciature destinate ai bambini.

La tonalità dorata quasi alabastrina del marmo sembra imitare il colore naturale della carnagione così come l’accurata levigatezza della superficie. Forse ad un forte sfregamento è dovuta la perdita quasi totale dell’epidermide in corrispondenza dei talloni.

Il momento che l’artista vuole rappresentare non compare nella narrazione del mito e forse l’abbandono al sonno può spiegarsi con la presenza della pelle ferina che collega la figura di Ermafrodito al tiaso di Dioniso e quindi si può pensare che il fanciullo sia ritratto vinto dall’ebbrezza. Lo collega al mondo dionisaco anche un piccolo gruppo scultoreo anch’esso di epoca romana esposto in questo stesso museo, dove Ermafrodito appare insieme a Pan, o il gruppo più noto e più replicato, il cosiddetto Symplegma di Dresda, dove Ermafrodito è raffigurato in una sorta di gioco erotico mentre tenta di fuggire ad un Satiro che cerca di trattenerlo.

La creazione di questo modello statuario che si inserisce nel più ampio filone delle figure dormienti ebbe grande fortuna nel mondo romano di età adrianea-antonina; se ne conoscono ben sette repliche, fra cui la più famosa è quella del Louvre restaurata dal Bernini. Il prototipo forse creato in Italia deve però risalire a qualche secolo addietro ad età tardo-ellenistica, ad un’epoca cioè che rinnova in campo artistico il linguaggio figurativo, qui evidente nella scelta di un tipo iconografico che unisce accanto all’interesse per l’insolito e l’eccezionale anche lo studio per la psicologia del personaggio, che appare esposto in tutta la sua vulnerabilità in un momento di languido abbandono.

L’Ermafrodito degli Uffizi è l’unica opera di cui non si conosce il contesto originario. Le altre repliche di cui si può ricostruire la provenienza sono collegate a quartieri residenziali destinati all’otium, a edifici termali, a ginnasi e anche a teatri, dove più forte che altrove è il richiamo alla sfera delle acque e al culto e ostentazione del corpo (Anguissola 2010).

Bibliografia

Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi,  a cura di P. Bernardini Marzolla, Torino 1979; G. Mansuelli, Galleria degli Uffizi. Le sculture, vol. I, Roma 1958;A.Anguissola, Nec utrumque e utrumque videtur: osservazioni sull’Ermafrodito addormentato degli Uffizi, in Studi e restauri. I marmi antichi della Galleria degli Uffizi, v. III, a cura di Antonella Romualdi, Firenze 2010, pp. 21-75; A.Romualdi, Introduzione, in Studi e restauri. I marmi antichi della Galleria degli Uffizi, v. III, a cura di Antonella Romualdi, Firenze 2010, pp. 11-17; A.Natali, La virtù dei mecenati. La nuova Sala dell’Ermafrodito, in La Virtù del Principe. L’Allegoria di Jacopo Ligozzi, Gli Uffizi. Studi e ricerche 30, a cura di Francesca de Luca e Marta Onali, Firenze 2015, pp. 11-18.

Testo di
Manola Giachi
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