Interno del chiostro di Santa Croce
Abbati Giuseppe (Napoli 1836 – Firenze 1868)
L’occasione che generò questo piccolo dipinto, un vero e proprio incunabolo della tecnica della pittura di macchia, furono i lavori che riguardarono nell’Ottocento il chiostro e la facciata della chiesa fiorentina di Santa Croce. Come ricorda il mentore e teorico della macchia Diego Martelli, Abbati nel 1861 “si dette a studiare serissimamente nei chiostri di Santa Croce dove allora, lavorandosi al restauro del monumento, si facevano ammassi di marmo di vario colore che offrivano allo studiatore il vantaggio di avere davanti a sé delle masse ben definite e dei contrasti decisi e quasi dirò elementari di colore e di chiaro scuro”. I blocchi di marmo divennero infatti occasione per indagare con gli strumenti della sintesi e della geometria, i rapporti tra volumi e luce del sole. La pennellata densa scolpisce le forme senza l’ausilio del segno di contorno, collocandole in uno spazio reale e ben definito derivato dalla prospettiva impiegata dai maestri del Quattrocento, tanto amati e studiati dai pittori macchiaioli.
Il termine “macchia” in origine usato in modo dispregiativo, comparve per la prima volta nel 1862 in un articolo della «Gazzetta del Popolo» in riferimento alla tecnica usata dagli artisti che, intorno al 1855, avevano avviato un rinnovamento antiaccademico della pittura italiana basato sull’osservazione diretta della realtà, sulla trattazione di temi contemporanei e sull’uso di una pittura sintetica per cui le immagini venivano rappresentate come se fossero viste da lontano, per masse e luci, senza dettagli.