Visita di Sant'Elisabetta, con San Giovanni Battista e San Zaccaria, alla Madonna col Bambino e San Giuseppe, detta "Madonna della gatta"
Federico Barocci (Urbino 1528/1535 – 30 settembre 1612)
La scena è inquadrata da un portone di legno sulla cui sinistra si trova San Giuseppe, impegnato a scostare la tenda per lasciar entrare Santa Elisabetta con il piccolo Giovanni, seguita dal vecchio Zaccaria che si intravvede sulla destra. Maria, intenta a cullare Gesù e a leggere un libro di preghiere, si volge compiaciuta verso la parente giunta ad omaggiarla. Gli strumenti di lavoro di Giuseppe e il cesto da cucito, in primo piano, sono il segno tangibile della vita modesta ma dignitosa dei genitori di Cristo, e concorrono a costruire un’atmosfera domestica e quotidiana, resa ancor più tenera dal particolare della gatta, accoccolata tra le pieghe dell’abito della Madonna e quasi risvegliata dall’arrivo degli ospiti: dettaglio, quest’ultimo, dal quale trae origine la tradizionale denominazione del dipinto. La grande finestra sul fondo si apre su una veduta spettacolare e cara al pittore, quella di Urbino con le inconfondibili torri cuspidate di Palazzo Ducale. Da qui proviene la tela, commissionata con tutta probabilità da Francesco Maria II della Rovere e legata, stando ai documenti, alla visita nelle Marche di papa Clemente VIII, nel 1598. La ‘Madonna della gatta’ doveva infatti trovar posto in una cappella allestita per l’arrivo del pontefice a Urbino, ma sussistono anche altre ipotesi che legano la commissione alla nascita del primogenito del duca, Federico Ubaldo, avvenuta nel 1605 circa. Nonostante i danni subiti per effetto dei restauri di primo Settecento, la tela conserva ancora intatto il fascino delle migliori invenzioni di Barocci, che seppe ispirarsi ai maestri di primo Cinquecento, da Raffaello a Correggio, elaborando una formula pittorica del tutto originale, fatta di morbidi trapassi di colore e di luci delicatamente contrastate. Lodatissima dai contemporanei, la Madonna della gatta giunse a Firenze nel 1631, parte della cospicua eredità portata in dote da Vittoria della Rovere al marito Ferdinando II. Fu verosimilmente la stessa granduchessa a ordinarne la traduzione in arazzo, realizzata dal francese Pietro Fevère capo della manifattura medicea, tra il 1663 e il 1664 (oggi conservato a Palazzo Pitti, Appartamenti Reali, Inv. MPP 1911/13637).