Niobe con la figlia minore
Arte romana
Nei primi mesi del 1583 nella vigna appartenuta a Gabriele e Tomaso Tommasini, posta a breve distanza da San Giovanni in Laterano, a Roma, furono rinvenute tredici sculture, in massima parte ancora in un invidiabile stato di conservazione (Nicolai 2020). La scoperta, di per sé già sensazionale considerato il numero dei marmi rinvenuti, apparve a tutti ancora più singolare dal momento che la quasi totalità delle statue componeva un grandioso gruppo che illustrava una delle storie più tragiche del mito antico: l’uccisione dei figli di Niobe. Questa donna, moglie di Amphione re di Tebe, aveva, infatti, insultato Latona, dichiarando di essere una madre migliore di lei. Questo atto di tracotanza (hybris in greco) fu duramente punito dalla dea che inviò i figli Apollo e Artemide a uccidere i sette figli maschi e le sette figlie femmine dell’insolente donna. Niobe, straziata dal dolore, anche se trasformata in pietra, non cessò di piangere e le sue lacrime si mutarono in una fonte perenne. Questo collegamento fra la figura della madre e l’acqua fu, probabilmente, la ragione che consacrò la fortuna di questo gruppo come decorazione ideale di ninfei monumentali. Anche per i Niobidi fiorentini, come per il gruppo che ornava il Ninfeo-Stadio di Villa Adriana o quello degli Horti Sallustiani, è molto probabile l’originaria sistemazione in una fontana ad emiciclo eretta nell’area degli antichi Horti Lamiani, i cui resti vennero in luce negli sterri ottocenteschi dell’Esquilino in prossimità dell’attuale Piazza Vittorio Emanuele. Il gruppo fiorentino avrebbe, quindi, fatto parte della decorazione di un ninfeo inserito in uno dei vasti parchi di proprietà imperiale che cingevano ad occidente il centro di Roma e nel quale le statue sarebbero state disposte seguendo il profilo della struttura, con il gruppo di Niobe e la figlia minore posto al centro (Diacciati 2009).
I Niobidi, sin dalla fine del XVI secolo, furono sistemati nei giardini di Villa Medici sul Pincio per poi essere trasferiti a Firenze nel 1770 per volere del granduca Pietro Leopoldo (Cecchi-Gasparri 2009 pp. 316-318). Agli Uffizi furono avviati i lavori per allestire nel Terzo Corrdoio una sala appositamente destinata all'esposizione del gruppo.
Il gruppo monumentale di Niobe che cerca di proteggere la figlia più piccola ha sempre seguito le vicende collezionistiche delle altre sculture del gruppo e già in antico doveva costituire il fulcro di questa serie di statue. La scultura, del peso di quasi 1500 chili, costituisce la replica meglio conservata di questa potente creazione del tardo ellenismo. Ad oggi, infatti, mentre si conoscono numerose repliche della testa della madre (si veda, da ultimo, “Il mito di Niobe” 2018 p. 222, n. 21), il resto delle due figure ci è noto soltanto da una copia, in gran parte mutila, rinvenuta nella Villa dei Quintili sulla via Appia (Paris-Pettinau 2007) e da una riproduzione minore del vero trovata a Creta (Geominy 1984 pp. 134-135). Proprio grazie a queste repliche, comunque, è possibile ricostruire con maggiore esattezza la posizione delle braccia di Niobe, entrambe di restauro nell’esemplare fiorentino. Il braccio sinistro della madre, infatti, doveva essere abbassato, ma leggermente discosto dal corpo, mentre al destro si appoggiava quello della bambina.
W. Geominy, Die Florentiner Niobiden, Bonn 1984; M. Maugeri, L’allestimento della Sala della Niobe agli Uffizi e un ritrovato ritratto dello Zoffany, Studi di Storia dell’Arte 9 (1998), pp. 277-297; E. Diacciati, L’ambientazione originaria del gruppo dei Niobidi, in A.Natali, A. Romualdi (eds.), Il Teatro di Niobe. La rinascita agli Uffizi d’una sala regia, Firenze 2005, pp.195-205; R. Paris – B. Pettinau, Dalla scenografia alla decorazione. La statua di Niobe nella Villa dei Quintili sulla Via Appia, Mitteilungen des Deutschen Archäologischen Instituts, 113, 2007, pp. 471-483; Il mito di Niobe, catalogo della mostra a cura di A. Bruciati – M. Angles, Verona 2018; F. Nicolai, The 1584 purchase contract for the Medici group of Niobe sculptures, in The Burlington Magazine, 162, January 2020, pp. 26-31;