Taglio della tuta
Thayaht (Ernesto Michahelles) (Firenze 1893 – Marina di Pietrasanta, Lucca 1959)
Tra il giugno e il luglio del 1920 le colonne del quotidiano “La Nazione” ospitano il lancio della Tuta, indumento ideato da Ernesto Michahelles, in arte Thayaht, poliedrico e cosmopolita artista con base a Firenze, che in quella invenzione riesce perfettamente a cogliere e a tradurre il portato storico e i mutamenti estetici del suo tempo. «Un giorno passando in via Orsanmichele, vidi in una vetrina [del negozio Castagnoli n.d.r.] tessuti di cotone e di canapa a colori vivaci e a poco prezzo. Presi alcuni campioni e mi misi al lavoro»: così Thayaht ricorda la scintilla prima dell’idea, corroborata dalle conoscenze acquisite nei mesi di collaborazione a fianco della stilista francese Madelaine Vionnet, nota per i tagli “in sbieco”, per la quale disegna abiti, decorazioni d’interni, gioielli, ex libris. Con l’aiuto del fratello Ruggero e di qualche amica sarta, Thayaht confeziona così il primo modello di Tuta che si impone non tanto per l’originalità della proposta, in fondo anticipata nell’Ottocento da altri prototipi, quanto per la modernità della progettazione, nonché per la vasta operazione di marketing con cui viene pubblicizzata a partire appunto dalle pagine de “La Nazione”. Qui vengono infatti pubblicati gli schemi di realizzazione “fai da te” della tuta maschile (17 giugno) e di quella femminile (2 luglio), con l’aggiunta, al costo di 50 centesimi, del cartamodello stampato in 1000 esemplari. La Tuta riscuote subito un vasto successo presso una clientela selezionata di borghesi e aristocratici, in coerenza con l’interpretazione anticonformista e dandy fornita dallo stesso Ernesto che ama sfoggiarla, abbinata ai Sandali di Firenze (con gli occhi) o di Forte di Marmi (a fasce semplici), portati rigorosamente senza calze. Un contesto elitario opposto all’idea di omologazione che la tuta richiama nell’immaginario collettivo ma in fondo non estranea neppure a Thayaht che non manca occasione per sottolinearne il carattere “universale”. Giocando con l’etimo della parola da lui stesso coniato, profetizza infatti che presto «tuta la gente sarà in tuta» e per questo estende la proposta ai bambini e alle persone più anziane per le quali crea la BITUTA in due pezzi. Numerosi sono d’altro canto i vantaggi che l’adozione di massa di questo indumento comporterebbe: risparmio sul tessuto così da contrastare il caro vita post bellico – «tuta la stoffa (metri 4,50, alto 0,70) viene utilizzata e non rimane nemmeno uno sciavero» –, risparmio sulla fattura – «è una combinazione tuta d’un pezzo col minimo di cuciture» –, risparmio sul tempo necessario per indossarla – «veste tuta la persona e con soli sette bottoni ed una semplice cintura si è già a posto» – e infine risparmio di energia grazie al senso di benessere e alla completa libertà di movimento che garantisce a chi la indossa (Avvertenze, “La Nazione”, 17 giugno 1920). Dove sia finita la consonante «perduta» del calembour di Thayaht lo comprova questo bozzetto, facente parte di un nucleo di fogli tutti dedicati al progetto della Tuta acquistati nel 2001 per il Museo della Moda e del Costume. Il modello ha infatti un’evidente forma a T e un taglio “a linee rette”, che fonde estetica e funzionalità, oscillando tra gusto Déco e proposte Bauhaus, tra artigianalità e produzione industriale.
Per la riproduzione della pagina de La Nazione del 2 luglio 2020 si ringrazia la Biblioteca Marucelliana di Firenze.