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Vaso Medici

Arte romana

Data
Fine del I secolo a.C.
Collezione
Scultura
Collocazione
D27 Verone
Tecnica
Marmo pentelico
Dimensioni
Alt. 173 cm; diam. max. 135 cm.
Inventario
1914 n.307
Restauri
2014

Al momento della scoperta di questo monumentale vaso marmoreo, avvenuta forse in seguito a un fortunato ritrovamento occorso sull’Esquilino negli anni ‘70 del XVI sec. (Di Cosmo – Fatticcioni 2010, 77 nota 1), agli occhi degli scopritori il vaso dovette apparire rotto in decine di pezzi, ma, nel complesso, pressoché completo di ogni sua parte. L’opera, attentamente e faticosamente ricomposta già negli anni immediatamente successivi alla sua scoperta, fu acquistata da Ferdinando che la destinò alla sua villa sul Pincio dove rimase sino al momento del suo trasferimento a Firenze, nel 1780 (Cecchi-Gasparri 2009 p. 308).

Nell’ambito dei circa quaranta vasi marmorei, fra integri e frammentari, a noi giunti, il Vaso Medici è l’unico a presentare una scena figurata di tema non dionisiaco. L’interpretazione del fregio, tuttavia, è di estrema complessità. Fulcro del fregio è una donna a torso scoperto accasciata ai piedi di una statua restaurata nel XVI secolo come un’Artemide, ma, in realtà, in origine raffigurante Apollo Liricine. Verso di lei sono rivolti, in atteggiamento pensoso e triste, sette personaggi. Alcuni di loro, in completa nudità ad eccezione dell’elmo sulla testa, sono senz’altro eroi dell’epos omerico, anche se non vi è alcuna certezza sulla loro puntuale identificazione. Solo Ulisse, il secondo uomo posto a sinistra della donna recumbente, è l’unico ad essere riconoscibile con certezza grazie all’adozione di uno schema iconografico inconfondibile ed esclusivo. Il fregio figurato è definito in alto da un’esuberante decorazione a tralci di vite e pampini, mentre la parte inferiore del vaso è interamente occupata da una complessa decorazione fitomorfa popolata da fiori e frutti. Le analisi archeometriche condotte in concomitanza con i recenti restauri hanno dimostrato che la superficie del vaso era completata da una vivace policromia, di cui restano tracce di verde sulle foglie, di oro sulle armi e le vesti e di azzurro sullo sfondo (Paolucci 2018).

L’ipotesi di riconoscere nella donna distesa ai piedi della statua Elena prigioniera in Attica liberata dai Dioscuri, così come era stato ipotizzato da E. Paribeni (Paribeni 1985), fu da Vincenzo Saladino (Saladino 1983 p. 120) considerata “più suggestiva” rispetto a quella, riproposta con nuovi argomenti anche di recente (Bochicchio 2010, 43-52), della lettura della scena come un oracolo della Pizia ai principi achei (Hauser 1913, 41-48). Dagli anni in cui Saladino scrisse, il vaso è stato oggetto più volte dell’interesse degli studiosi, anche se i risultati più originali sembrano essere stati conseguiti soprattutto nell’ambito della ricostruzione della fortuna dell’opera e delle sue vicende collezionistiche (Di Cosmo – Fatticcioni 2010). A livello esegetico, ci si è, invece, venuti sempre più orientando verso la presa di coscienza di trovarsi dinanzi a un soggetto che avrebbe suscitato difficoltà a “molti (se non moltissimi) osservatori antichi” (Bochicchio 2010, 52), un’iconografia verosimilmente da riferire, secondo la lucida e puntuale ricostruzione delle vicende esegetiche realizzata da L. Bochicchio, a un episodio tratto da un poema perduto dell’epos omerico di cui ignoriamo autore, titolo, epoca e trama, ma che verosimilmente doveva descrivere l’interrogazione dell’oracolo di Delfi da parte dei futuri protagonisti dell’impresa troiana.

Per quanto riguarda la cronologia dell’opera va osservato che nell’ambito della classe dei crateri marmorei, confronti diretti per il kymation (decorazione modanata visibile sull’orlo e sulla base) del vaso fiorentino sono offerti dal cratere Torlonia (Grassinger 1991, 201 s. n. 41 figg. 63-66), datato agli anni 30 a.C., e da un secondo esemplare a Malibu, riferibile, invece, alla fine del I sec. a.C. (Grassinger 1991, 174 n. 17 figg. 136. 137) Altrettanto frequente nella decorazione dei grandi vasi in marmo di produzione neoattica è il tralcio di vite posto subito sotto il labbro. Questo motivo, allusivo alla natura del vaso e alla sua originaria funzione, presenta, sul vaso mediceo, un trattamento discontinuo, che denuncia almeno due rese differenti delle foglie e del loro contorno.

E’ significativo, inoltre, che queste girali del marmo degli Uffizi appartengano al genere dei fregi ad acanto “policarpofori” attestati in area pergamenea sin dal II sec. a.C. e frequentemente adottati in monumenti pubblici e privati di età augustea (Paolucci 2018). Il vaso Medici sembra, quindi, condividere il destino critico dell’Ara Pacis, il cui fregio figurato è stato, per quasi due secoli, l’esclusivo oggetto di interesse degli esegeti, mentre solo negli ultimi decenni si è recuperato il ruolo focale del fregio vegetale nella comprensione del messaggio generale dell’altare, dove diviene metafora di una nuova era di pace e prosperità. In modo analogo, sembra necessario, ai fini dell’esegesi del fregio figurato del vaso Medici, prendere in considerazione anche la decorazione ad acanto, non solo per il suo plateale ritmo compositivo speculare a quello dei personaggi del rilievo, ma anche per la sua indiscussa natura apollinea che, non a caso, proprio in asse con la statua di Apollo e grazie al contatto con il ramo della pianta sacra al dio, entra letteralmente a far parte della scena superiore. L’ipotesi di integrare il fregio ad acanto nell’esegesi dell’iconografia principale, pur non offrendo un’immediata ed univoca chiave per decrittare l’opera, appare, però, perfettamente compatibile con il linguaggio figurativo e allusivo proprio della prima età augustea. L’uso di motivi enigmatici e la tendenza ad un “esclusivismo” intellettuale furono caratteristici, almeno in un primo momento, anche della propaganda di Ottaviano. Col consolidarsi del potere augusteo, questo linguaggio per immagini simboliche fu abbandonato nell’arte ufficiale per sopravvivere nell’ambito della committenza privata vicina al sovrano, dove acquisì i contorni di un’ “arte per il Principe”. Questa produzione artistica, strettamente legata alle indicazioni del committente, partecipa del linguaggio ufficiale della propaganda augustea, declinandolo, però, in forme per noi quasi sempre incomprensibili, ma senz’altro accessibili a un ristretto conventus di personaggi dell’élite urbana. Non sembra avventato, dunque, ricondurre a questo gusto iconografico allusivo anche il Vaso Medici, nel quale si potrebbe forse ipotizzare di riconoscere un messaggio che, nasconda sotto una veste iconografica apparentemente mitologica, riferimenti a un’opera letteraria ben nota in epoca augustea, come la Cassandra di Licofrone, e stretti collegamenti con l’attualità politica e culturale degli ultimi decenni del I secolo a.C. (Paolucci 2018)

Bibliografia

F. Hauser, Ein neues Fragment des Medicäischen Kraters, ÖJb 16 (1913), 33-57; G. Mansuelli, Galleria degli Uffizi. Le sculture, vol. I, Roma 1958; V. Saladino, Musei e Gallerie. Firenze – Gli Uffizi. Sculture antiche, Firenze 1983; E. Paribeni, Della liberazione di Elena e di altre storie, in Capecchi G., Esposito A.M., Marzi M.G., Saladino V., (edd.), Scritti di Enrico Paribeni, Roma, 1985, pp. 137-139; D. Grassinger, Römische Marmorkratere, Mainz a. Rhein 1991; A. Cecchi - C. Gasparri, La Villa Médicis. Le collezioni del Cardinal Ferdinando, vol. 4, Roma 2009; L. Bochicchio, Sull’esegesi della scena raffigurata, in Maffei S., Romualdi A., (edd.), “Lavorato all’ultima perfezione”. Indagini sul Vaso Medici tra interpretazioni, allestimenti storici e fortuna visiva, Napoli 2010, 35-52; L. Di Cosmo L. – L. Fatticcioni, Interpretare restaurando, restaurare conservando: gli interventi sul Vaso Medici tra Cinquecento e Settecento, in Maffei S., Romualdi A., (edd.), “Lavorato all’ultima perfezione”. Indagini sul Vaso Medici tra interpretazioni, allestimenti storici e fortuna visiva, Napoli, 2010, pp. 77-88; F. Paolucci, Alcune osservazioni sul Vaso Medici restaurato, in Vasimania. Dalle Explicationes di Filippo Buonarroti al Vaso Medici, catalogo della mostra a cura di M. G. Marzi – C. Gambaro, Firenze 2018, pp. 59-72.

Testo di
Fabrizio Paolucci
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