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#BotticelliSpringMarathon

  • #BotticelliSpringMarathon

    Una mostra virtuale sulla costruzione del mito contemporaneo di Botticelli attraverso i social media

    #BotticelliSpringMarathon
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    1. Running the world 1/2

    Come nasce il mito mondiale di Botticelli ai giorni nostri?

     

    Oggi i più grandi musei del mondo conservano opere di Sandro Botticelli che spesso costituiscono le icone più rappresentative delle loro collezioni, veri e propri imperdibili highlights che attraggono migliaia e migliaia di visitatori ogni anno. Un rapido sguardo alla galleria di immagini twittate dalle più importanti istituzioni museali internazionali rendono bene l’idea di quanto sia diffusa, su scala mondiale e in ogni latitudine, la circolazione delle opere del Maestro fiorentino. Eppure la consacrazione di Botticelli a genio dell’arte di ogni tempo è un fatto relativamente recente, certamente moderno, che merita un breve approfondimento se non altro perché consente di comprendere appieno come sia nata, ai nostri giorni, la “Botticelli-mania” che segna ormai la nascita di una vera e propria icona trasversale ai più diversi ambiti, dall’accademico al popolare, dal pop al trash al commerciale, fino anche all’utilizzo massificato e decontestualizzato dei capolavori botticelliani caratteristico dell’età postmoderna.  

    Nel 1877 il poeta e critico letterario John Addington Symonds scriveva: “Nel secolo scorso e agli inizi di questo il nostro interesse per Botticelli sarebbe sembrato una bizzarra pazzia, perché non possiede nessuna delle qualità allora in voga e studiate con particolare attenzione, e perché il momento nella storia della cultura che egli rappresenta in modo tanto fedele, all’epoca era poco compreso”. Ed aveva ragione se ancora nel 1774 il pittore Henry Fuseli scriveva di Botticelli come di un artista dotato di “barbaro gusto e scarna minuzia” capace di “puerile ostentazione”.

    La “scoperta” di Botticelli e le radici della creazione del mito contemporaneo sono infatti una storia tutta ottocentesca, che nasce proprio in Inghilterra soprattutto grazie alla Confraternita dei Preraffaelliti. Basti pensare a quale affare fece nel 1867 Dante Gabriel Rossetti quando acquistò da Christie’s un ritratto femminile di Botticelli per sole 20 sterline! E l’ammirazione per il Maestro che Rossetti studiava, esaltava e quasi imitava - come è evidente in una cospicua parte della sua produzione pittorica nonché letteraria di cui è un chiaro esempio il sonetto del 1880 “Alla Primavera” di Botticelli – contribuì a diffondere all’interno della cerchia degli altri pittori preraffaelliti la fama dell’artista fiorentino come un modello di “purezza”, ovvero interprete di quella pittura sublime e “primitiva” purtroppo oscurata dall’avvento del Rinascimento e dagli stilemi accademici che, a loro dire, decretarono la fine del rapporto più autentico e immediato fra pittura e natura, bellezza e realtà.

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    1. Running the world 2/2

    La fama di Botticelli crebbe così in misura esponenziale allargandosi a macchia d’olio via via anche al di fuori della ristretta cerchia dei preraffaelliti per poi sconfinare in Francia, Italia e Germania, ed essere consacrata finalmente anche a livello accademico dal critico Aby Warburg nel suo celebre e fondamentale saggio “Botticelli” del 1893. Di qui si travalicano rapidamente anche i confini temporali e si arriva al Novecento, ad un'altra pietra miliare della critica che “riabilitò” Botticelli tra i più importanti maestri del Rinascimento, Bernard Berenson, che nei suoi “Pittori fiorentini del Rinascimento” del 1900 lo definisce un artista “senza tempo, irresistibile, la cui pittura comunica direttamente la vita e la esalta”.

    Tuttavia Botticelli è destinato a diventare icona della contemporaneità fin dagli albori del secolo. Ben presto viene strappato al solo ambito accademico per diventare addirittura icona “rivoluzionaria” nel tentativo di contestare ogni sorta di regola, convenzione e accademismo da parte del movimento dei Dadaisti a cavallo fra le due guerre. Emblema dell’anti-arte, Botticelli segna il ritorno a una “bellezza di forma e bellezza di coscienza”, come ebbe a scrivere nel 1927 Francis Picabia, uno dei fondatori del movimento. Una posizione che segna un cambiamento interessante nella percezione del Maestro fiorentino, che dunque non viene più percepito solo come un grande autore apprezzato soltanto all’interno di cerchie di esperti e cultori dell’arte, segno che i tempi erano già maturi per consegnarlo alla cultura del secondo Novecento, alla fruizione popolare, e specificamente pop, e persino all’anti-accademismo. Una storia che da qui in avanti attraverserà anche l’Oceano e verrà scritta soprattutto in America, una storia su cui torneremo in dettaglio più avanti, nella sezione (7) dedicata alla nascita del “fenomeno Botticelli” come icona pop del XXI secolo.

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    2. Primavera dentro casa 1/2

    Che cosa implica scattare una fotografia, soprattutto se i soggetti ritratti sono persone?

     

    Roland Barthes: “Osservai che una foto può essere l’oggetto di tre pratiche (o tre emozioni, o tre intenzioni): fare, subire, guardare. L’Operator è il Fotografo. Lo Spectator, siamo tutti noi che compulsiamo, nei giornali, nei libri, negli album, negli archivi, delle collezioni di fotografie. E colui o ciò che è fotografato è il bersaglio, il referente, sorta di piccolo simulacro, di eidòlon emesso dall’oggetto, che io chiamerei volentieri Spectrum della fotografia, dato che attraverso la sua radice questa parola mantiene un rapporto con lo «spettacolo» […]. La Foto-ritratto poi è un campo chiuso di forze. Quattro immaginari vi si incontrano, vi si affrontano, vi si deformano. Davanti all’obbiettivo, io sono contemporaneamente: quello che io credo di essere, quello che vorrei si creda io sia, quello che il fotografo crede io sia, e quello di cui egli si serve per far mostra della sua arte. In altre parole, azione bizzarra: io non smetto di imitarmi, ed è per questo che ogniqualvolta mi faccio (mi lascio) fotografare, io sono immancabilmente sfiorato da una sensazione di inautenticità, talora di impostura (quale certi incubi possono dare). Immaginariamente, la Fotografia (quella che io assumo) rappresenta quel particolarissimo momento in cui, a dire il vero, non sono né un oggetto né un soggetto, ma piuttosto un soggetto che si sente diventare oggetto: in quel momento io vivo una micro-esperienza della morte (della parentesi): io divento veramente spettro. Il Fotografo lo sa bene, ed egli stesso ha paura…di questa morte nella quale il suo gesto sta per imbalsamarmi. […]. Decisi allora di assumere come guida della mia nuova analisi l’attrattiva che provavo per certe fotografie: di quella seduzione, almeno, potevo dirmi sicuro. Come chiamarla? Fascinazione? No. La tale fotografia che io distinguo dalle altre e che amo non ha nulla del punto lucente che oscilla davanti agli occhi che fa dondolare la testa; ciò che essa produce in me è… un’agitazione interiore, una festa, un lavorio se vogliamo, la pressione dell’indicibile che vuole esprimersi. E allora? Chiamarla interesse? È poco…Mi pareva così che la parola più giusta per designare (provvisoriamente) l’attrattiva che certe foto esercitano su di me fosse la parola avventura. La tale foto mi avviene, la talatra no. Il principio di avventura mi permette di fare esistere la fotografia. Viceversa, senza avventura, niente foto. Cito Sartre: «Le fotografie del giornale possono benissimo “non dirmi niente”, vale a dire posso guardarle senza fare posizioni di esistenza….fluttuano fra la riva della percezione, quella del segno e quella dell’immagine, senza mai approdare ad alcuna». In questo deprimente deserto, tutt’a un tratto la tale foto mi avviene; essa mi anima e io la animo. Ecco dunque come devo chiamare l’attrattiva che la fa esistere: una animazione. In sé la foto non è animata (io non credo alle foto «vive»), però essa mi anima: e questo è appunto ciò che fa ogni avventura.” (Roland Barthes, La camera chiara, 1980, pp. 11 ss.).

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    2. Primavera dentro casa 2/2

    Remo Ceserani: “L’individuo, rappresentato e riprodotto dalla tecnologia delle immagini, si trasforma in icona e in simulacro di sé, diviene un personaggio fittizio, entra in un romanzo o in un film, può da quel romanzo e quel film trasmigrare in altro romanzo o film o rientrare nel mondo della realtà vissuta” (Remo Ceserani, Raccontare il postmoderno [1997], p. 142).

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    3. Botticelli Digitale 1/2

    Perché «digitalizzare» un’opera d’arte attraverso una fotografia?

     

    Walter Benjamin: “Rendere le cose, spazialmente e umanamente, più vicine è per le masse attuali un’esigenza vivissima, quanto la tendenza al superamento dell’unicità di qualunque dato mediante la ricezione della sua riproduzione. E inequivocabilmente la riproduzione…si differenzia dall’immagine diretta, dal quadro. L’unicità e la durata s’intrecciano strettissimamente in quest’ultimo, quanto la labilità e la ripetibilità nella prima. […]. «Nella nostra epoca non esiste nessuna opera d’arte che venga osservata con tanta attenzione quanto la propria fotografia dei parenti prossimi e degli amici, dell’amata», ha scritto Lichtwark già nel 1907, spostando l’analisi dall’ambito delle distinzioni estetiche a quello delle funzioni sociali. […]. Tutti gli accenti si spostano [infatti] se, invece di considerare la fotografia in quanto arte, si considera l’arte in quanto fotografia. Chiunque avrà avuto modo di osservare quanto più facile sia cogliere un quadro, e più ancora una scultura o addirittura un’architettura, mediate la fotografia che non nella realtà. La tentazione di attribuire la ragione di questo fenomeno semplicemente a una decadenza della sensibilità artistica, a una decadenza dei nostri contemporanei, è troppo ovvia. Una simile interpretazione è contestata dalla constatazione di quanto, pressappoco contemporaneamente all’elaborazione delle tecniche riproduttive, si sia trasformata l’appercezione delle grandi opere. Esse non possono venir considerate realizzazioni di singoli; sono diventate formazioni collettive, e ciò in una misura tale che la possibilità di assimilarle è addirittura legata alla possibilità di ridurne le dimensioni. In ultima analisi, i metodi di riproduzione meccanica costituiscono una tecnica della riduzione e sono d’aiuto all’uomo nel suo tentativo di dominare opere di cui, senza di essa, non sarebbe più possibile fruire”. (Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica [1955], pp. 25ss. e 73ss.).

     

    Cosa ci può spingere a scattare, e successivamente condividere, una fotografia alla Primavera di Botticelli?

    Roland Barthes: “Io immagino…che il gesto essenziale dell’Operator [chi scatta la foto] sia quello di sorprendere qualcosa o qualcuno (attraverso il piccolo foro della camera)…Da tale gesto derivano chiaramente tutte le fotografie il cui principio (meglio sarebbe dire l’alibi) è lo «shock»; infatti lo «shock»  fotografico…consiste non tanto nel traumatizzare quanto piuttosto nel rivelare ciò che era ben nascosto, ciò che l’attore stesso ignorava o di cui non era consapevole. Ne consegue tutta una gamma di «sorprese» (tali almeno per me Spectator; ma per il fotografo esse costituiscono altrettante «performances»). La prima sorpresa è quella del «raro» (rarità del referente, s’intende) […]. La seconda sorpresa, invece, è ben nota alla Pittura, la quale ha spesso riprodotto un gesto colto nel punto preciso della sua corsa in cui l’occhio normale non può fissarlo… La terza sorpresa è quella della prodezza [del fotografo]… Una quarta sorpresa è quella che il fotografo si aspetta dalle contorsioni della tecnica: sovrimpressioni, anamorfosi, utilizzazione volontaria di certi difetti (inquadratura scentrata, sfocamento, falsamento delle prospettive)… Quinto tipo di sorpresa: la trovata… In un primo momento, per sorprendere, la fotografia fotografa il notevole; ben presto però, attraverso un ben noto capovolgimento, essa decreta notevole ciò che fotografa. [...]. Se si eccettua il campo della Pubblicità, in cui il senso deve essere chiaro e distinto solo in ragione della sua natura commerciale, la semiologia della Fotografia è dunque limitata agli splendidi risultati di pochi ritrattisti. Per il resto…tutto ciò che di meglio si può dire [di una buona fotografia] è che l’oggetto parla, che, vagamente, esso induce a pensare. E ancora: anche questo corre il rischio di essere pericoloso. […]. In fondo, la Fotografia è sovversiva non quando spaventa, sconvolge o anche solo stigmatizza, ma quando è pensosa”. (Roland Barthes, La camera chiara, 1980, pp. 33ss.).

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    3. Botticelli Digitale 2/2

    In che senso fotografare chi fotografa un’opera d’arte o se stessi di fronte all’opera è un tipico esempio di linguaggio contemporaneo o «metalinguaggio»?

     

    Roland Barthes: “L’intertesto è un campo generale di formule anonime la cui origine è sempre difficile da localizzare; di citazioni inconsce e automatiche, date senza virgolette. Epistemologicamente, il concetto di ipertesto porta alla teoria del testo la dimensione della socialità […]. Ma mentre la critica…ha sinora posto unanimamente l’accento sul «tessuto» finito (il testo essendo un «velo» dietro il quale la verità, il messaggio reale, in una parola il «significato», doveva essere cercato), la teoria corrente del testo si allontana dal testo come velo e cerca di percepire il tessuto nella sua tessitura, nell’intreccio di codici, formule e significanti, in mezzo a cui il soggetto si colloca e viene dissolto, come un ragno che giunge a dissolversi dentro la propria stessa rete”. (Roland Barthes, Encyclopaedia Universalis, 1975, p. 1015).

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    4. Botticelli Reloaded 1/2

    Perché «citare» con ironia l’originale della Primavera di Botticelli ri-creando nuove immagini attraverso programmi di grafica digitale può essere considerato un tipico esempio di estetica contemporanea?

     

    Umberto Eco: “La risposta post-moderna al moderno consiste nel riconoscere che il passato, visto che non può essere distrutto, perché la sua distruzione porta al silenzio, deve essere rivisitato: con ironia, in modo non innocente. Penso all'atteggiamento post-moderno come a quello di chi ami una donna, molto colta, e che sappia che non può dirle «ti amo disperatamente», perché lui sa che lei sa (e che lei sa che lui sa) che queste frasi le ha già scritte Liala. Tuttavia c'è una soluzione. Potrà dire: «Come direbbe Liala, ti amo disperatamente». A questo punto, avendo evitato la falsa innocenza, avendo detto chiaramente che non si può più parlare in modo innocente, costui avrà però detto alla donna ciò che voleva dirle: che la ama, ma che la ama in un'epoca di innocenza perduta. Se la donna sta al gioco, avrà ricevuto una dichiarazione d'amore, ugualmente. Nessuno dei due interlocutori si sentirà innocente, entrambi avranno accettato la sfida del passato, del già detto che non si può eliminare, entrambi giocheranno coscientemente e con piacere al gioco dell'ironia... Ma entrambi saranno riusciti ancora una volta a parlare d'amore. (U. Eco, "Postille" a Il nome della rosa, 1984, pp. 528 ss.).

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    4. Botticelli Reloaded 2/2

    Ernst Gombrich: “Questa duplice partecipazione, questo intercorrere di sensazioni, fra l’artista e lo spettatore, è un elemento che è spesso trascurato…L’apparire di un atteggiamento verso la pittura che potremmo chiamare estetico – da non confondersi, cioè, con l’atteggiamento ritualistico – comporta un nuovo tipo di reazione, o…di scarica. L’intenditore desidera identificarsi con l’artista; bisogna che varchi il cerchio magico e sia addentro alle segrete cose. Guidato dall’artista deve diventare creativo anche lui” (Ernst H. Gombrich, Freud e la psicologia dell’arte [1965], 1992, p. 53).

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    5. Botticelli Attack 1/2

    Che cosa trasforma un’opera come la Primavera di Botticelli in un «feticcio» contemporaneo - in senso antropologico - oggetto di “venerazione”, di uso e di consumo, a volte di emulazione e spesso fonte di ispirazione?

     

    Pierre Bourdieu: “Il produttore del valore dell’opera d’arte non è l’artista ma il campo di produzione in quanto universo di credenza che produce il valore dell’opera d’arte come feticcio producendo la credenza nel potere creatore dell’artista. […]. L’opera d’arte esiste in quanto oggetto simbolico dotato di valore solo se è conosciuta e riconosciuta, ovvero socialmente istituita come opera d’arte da spettatori dotati della disposizione e della competenza estetica necessarie per conoscerla e riconoscerla in quanto tale. Ecco perché una scienza delle opere […] deve prendere in considerazione non solo i produttori diretti dell’opera d’arte nella sua materialità (artista, scrittore, ecc.), ma anche l’insieme degli agenti e delle istituzioni che partecipano alla produzione del valore dell’opera mediante la produzione della credenza nel valore dell’arte in generale e nel valore distintivo di questa o quell’opera d’arte”.  (Pierre Bourdieu, Le regole dell’arte, 1992, pp. 304ss.).

     

     

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    5. Botticelli Attack 2/2

    Luciano Fabro: “L’arte spettacolo ha la capacità di esorcizzare, di svolgere un’azione catartica nei confronti dell’atto artistico che in tal modo si pone come fatto estraneo, le permette di liberarsi da quella responsabilità che ognuno ha per rigenerarsi attraverso gli atti artistici suoi personali (Luciano Fabro, Arte torna arte, 1999, p.199).

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    6. Springspired 1/2

    In che senso citare, frammentare, dissezionare per ricomporre, associare liberamente suggestioni riconducibili alla Primavera di Botticelli per «raccontarla» da un punto di vista personale, possono essere considerati tratti caratteristici della cultura postmoderna?

     

    Jean-François Lyotard: “Il sapere postmoderno non è esclusivamente uno strumento di potere. Raffina la nostra sensibilità per le differenze e rafforza la nostra capacità di tollerare l’incommensurabile. [..]. Il racconto è la forma per eccellenza di questo sapere […]. Da un’analisi sommaria…emerge come il narratore si dichiari competente a raccontare la storia solo per averla egli stesso ascoltata. Il destinatario attuale del racconto, ascoltandolo, acquista potenzialmente la stessa autorità. [...]. Così come non ha bisogno di ricordare il proprio passato, una cultura che attribuisce il primato alla forma narrativa non ha indubbiamente nemmeno bisogno di procedure particolari per autorizzare le sue narrazioni […]. È con tale prospettiva che ha a che fare il mondo postmoderno. La nostalgia della narrazione perduta è anch’essa perduta per la maggior parte della gente. Ciò non significa in alcun modo che essa sia votata alla barbarie. Ne è tenuta lontana dal fatto che sa che la legittimazione può avvenire esclusivamente attraverso la pratica linguistica e l’interazione comunicativa. Interessandosi dell’indivisibile, dei limiti della precisione del controllo, dei quanti, dei fracta, delle catastrofi, dei paradossi pragmatici, la scienza postmoderna costruisce la teoria della propria evoluzione come discontinua, catastrofica, non rettificabile, paradossale. Cambia il senso della parola sapere, e dice come tale cambiamento può avere luogo. Non produce il noto, ma l’ignoto. E suggerisce un modello di legittimazione che non è affatto quello della miglior prestazione, ma quello della differenza”. (Jean-François Lyotard, La condizione postmoderna [1979], pp. 7, 41, 45, 76, 109).

    Remo Ceserani: Il soggetto nella cultura postmoderna è il prodotto del linguaggio, di un “racconto”, e dunque di una costruzione, un artificio sottoposto alle stesse convenzioni che rinuncia all’idea di autorità, unitarietà, verità, assoluto. È piuttosto un soggetto decentrato, moltiplicato e frammentato come frammentata è la sua stessa esistenza ed esperienza del quotidiano, del tempo e della storia. La citazione, il pastiche, la mescolanza di codici e segni, il collage, sono tutti esempi di una pratica quotidiana che caratterizza sempre di più il gusto e l’estetica dell’uomo contemporaneo, il quale tuttavia, come rileva anche David Harvey nella Crisi della modernità del 1993, accetta il segno della discontinuità e del caos senza cercare di superarlo o contrastarlo, come del resto rinuncia alla definizione degli “eterni e immutabili” galleggiando, sguazzando addirittura, nelle correnti frammentarie del cambiamento come se oltre non ci fosse nient’altro. In questa crisi della temporalità e della storicità, uno “storicismo onnipresente, onnivoro e quasi libidico, lavora a ridurre il passato a museo di fotografie e raccolta di ritagli di immagini e simulacri, figurine Liebig o figurine Panini, a manipolarlo o «manopolarlo». Il passato e la storia vengono quindi anch’essi trasformati in mercato, scambiati e consumati. Il presente, che assume caratteri totalizzanti, viene, come dice Jameson, colonizzato dalla maniera «nostalgica»” (Remo Ceserani, Raccontare il postmoderno, 1997, p. 142).

  • 12/17
    6. Springspired 2/2

    Umberto Eco: “Chiediamoci quali e quante siano le ragioni per cui si desidera vedere un quadro originale: (1) il soggetto, (2) le dimensioni…(3) i colori. Infine (4) il modo in cui la materia si dispone sulla tela o sulla tavola. […]. Infine (5) ci sono poi quadri…che richiedono anche una vista “di sguincio”… Ora le tecniche attuali di riproduzione permettono di riprodurre un’opera di pittura…con risultati di assoluta fedeltà quanto al soggetto e alle dimensioni, e risultati di approssimazione quasi totale quanto a effetto cromatico. La riproduzione dunque permette di godere delle caratteristiche (1), (2) e (3), soggetto, dimensioni reali e colore del quadro. Quello che essa non può darci sono le caratteristiche (4) e (5), vale a dire la tridimensionalità dei grumi di colore, e la visione di sguincio…Ma in un museo noi di solito siamo obbligati a vedere il quadro a debita distanza e non possiamo toccarlo. Quindi le caratteristiche (4) e (5) non sono realmente godute dal visitatore (e parlo di quello accurato, trascurando chi passa di corsa e si accontenta di aver ricevuto un’impressione generica). Se poi pensiamo a un quadro esposto in una chiesa, sopra l’altare maggiore o in una cappella laterale, di solito il visitatore, nella penombra del tempio, dell’opera vede poco e, se vuole apprezzarla appieno, dopo torna a esaminarla su una buona riproduzione”. (Umberto Eco, Il museo nel terzo millennio, 2007, pp. 10-11).

  • 13/17
    7. Krash 1/2

    Quando e come nasce il mito contemporaneo di Botticelli come «brand»?

     

    Roland Barthes“Il mito è una parola. Naturalmente, non è qualsiasi parola…ma va stabilito energicamente sin dal principio che il mito è un sistema di comunicazione, è un messaggio. Dal che si vede che il mito non può essere un oggetto, un concetto o un’idea, bensì un modo di significare, una forma. Più avanti sarà necessario porre a questa forma limiti storici, condizioni d’uso, reinvestire in essa la società: ciò non impedisce che in primo luogo la si debba descrivere come forma…Dato che il mito è una parola, può essere mito tutto ciò che subisce le leggi di un discorso. Il mito non si definisce dall’oggetto del suo messaggio, ma dal modo in cui lo proferisce: ci sono limiti formali al mito, non ce ne sono di sostanziali. Tutto dunque può essere mito? Sì, a mio avviso, perché l’universo è infinitamente suggestivo. Ogni oggetto del mondo può passare da un’esistenza chiusa, muta, a uno stato orale, aperto all’approvazione della società, perché non c’è alcuna legge, naturale o no, a impedire che si parli delle cose” (Roland Barthes, Miti d’oggi [1957], 1974, p. 19).

    Partendo dalla definizione di mito contemporaneo fornita dal celebre saggio di Barthes si potrà comprendere meglio il portato linguistico e di significato che si attribuisce a Botticelli quando lo si definisce mito o icona o feticcio dei nostri tempi. Ha a che fare con la società dei consumi - secondo Barthes anche con l’ideologia – e ne rappresenta innanzitutto un sistema di comunicazione, è portatore di un messaggio. Non a caso i “miti d’oggi” sono consacrati in larga parte, e fin dagli anni Cinquanta, proprio dal campo della pubblicità commerciale che ha fatto la storia di celebri “brand” o anche più semplicemente di “oggetti” di consumo, veri e propri simboli di un periodo storico o specchio di un’epoca.

    Agli stessi meccanismi di creazione del mito contemporaneo come brand non si è sottratto neanche il nome (e quindi propriamente “la parola”, come direbbe Barthes, prima ancora dell’opera stessa) di Botticelli. Varrà la pena, come suggerisce il semiologo francese, circoscrivere i limiti storici di questo fenomeno per potergli dare forma e collocazione. A quando risale la nascita della “Botticelli-mania” - intesa come vero e proprio brand – quel fenomeno che ha fatto sì che le immagini della Primavera o della Venere diventassero gadget o finissero per influenzare addirittura la moda, il costume fino anche a diventare allegoria dell’attualità o di fatti di cronaca? Come accennato nell’introduzione, è una storia scritta in gran parte, almeno inizialmente, negli Stati Uniti.

    All’Expo di New York del 1939 Salvador Dalì appese all’entrata del suo padiglione intitolato “Il sogno di Venere” una riproduzione del celebre capolavoro degli Uffizi a cui dedicò un’intera sala vuota in cui campeggiava soltanto quella copia. I visitatori furono immediatamente attratti da quell’immagine iconica, e rapidamente la fortuna che fino a quel momento aveva accompagnato la “riscoperta” di Botticelli in Europa contagia adesso anche il continente americano: si crearono ben presto file interminabili solo per vedere la Venere botticelliana; il MoMa dovette estendere l’orario di apertura e in 74 giorni la mostra accolse 290.000 visitatori spinti dai media che iniziarono ad occuparsi quasi esclusivamente della Venere, mentre la città fu presto tappezzata di poster e manifesti. Gli anni Quaranta segnano senza dubbio l’inizio della fortuna “massmediatica” di Botticelli su scala mondiale.

    Innanzitutto, una spinta considerevole verso questo traguardo la fornirono gli stessi artisti contemporanei americani, fortemente influenzati dai riferimenti alla poetica e all’arte del Maestro fiorentino, chi in maniera più sotterranea - soprattutto da un punto di vista stilistico - chi in modo più marcato - da un punto di vista generalmente tematico: da sottotesto nell’Espressionismo astratto di Jackson Pollock e Marc Rothko, quindi, a ipotesto esibito e celebrato in artisti più recenti come Andy Warhol, Bill Viola, la fotografa Cindy Sherman, Brice Marden, David LaChapelle. Tutti autori di celeberrime rivisitazioni dei capolavori botticelliani che hanno traghettato la fama di Botticelli come icona della contemporaneità anche al di fuori dei confini americani per farne davvero, ormai, “patrimonio dell’umanità” come testimoniano interpretazioni più problematiche e engagé di artisti come il cinese Yin Xin con la sua Venere asiatica e la questione dell’egemonia culturale occidentale (2008) o Nguyen Xuan Huy che vede in Botticelli un medium per rappresentare le esperienze post-traumatiche prodotte dalla guerra in Vietnam (2009) fino alla giapponese Tomoko Nagao che, cultrice della cultura pop, fa della Venere un’icona da videogame in un mondo consumistico al pari di altre celebri marche e loghi di cibi e ditte di trasporto mondiali (2012).

    E in questo passaggio dal riferimento all’opera di Botticelli come sottotesto più o meno occulto ad un ipotesto dichiarato fino al limite della mise en abyme (come André Gide definì il gioco infinito di specchi e rimandi fra metatesti, “testi che si autocitano”), in questo arco temporale che copre circa 70 anni, si consuma anche il passaggio dall’idolatria di Botticelli come “autore” e veicolatore di un messaggio attualizzante alla celebrazione delle sue opere più iconiche - come la Venere e la Primavera – intese come modello di una femminilità tipizzata che ben presto spopola soprattutto nel campo della moda. Nello stesso arco di tempo si passa quindi dalle fotografie delle Botticelli Girls di Maggie Diaz, che nel 1954 ritrasse ragazzine socialmente emarginate della periferia urbana di Chicago, alle più effimere decorazioni floreali ispirate alla Primavera che rivestono gli abiti di Alexander McQueen (2007); si passa dai modelli di fine anni Trenta della stilista Elsa Schiaparelli, che guardavano da vicino gli abiti dei dipinti botticelliani persino nella foggia e nei loro significati allegorici, fino all’artista pop Alain Jacquet che invece, nel suo Camouflage Botticelli del 1963/64, era assai meno interessato all’arte del Maestro come pittore quanto piuttosto alla spendibilità delle sue opere come veri e propri «loghi», con la conchiglia della Venere che diventa “La Conchiglia” di una nota compagnia petrolifera. E così via, dagli omaggi all’«autore Botticelli» di Magritte, Tamara De Limpicka, Dalì e tanti altri autori del Novecento fino alle citazioni del «brand Botticelli» come icona di stile nelle recenti sfilate di moda a Londra nel 2013 (dove una nota maison italiana ripropose, sugli abiti, patchwork del dipinto della Venere) oppure nell’immagine copertina disegnata da Jeff Koons per il lancio, sempre nel 2013, del CD di una famosa cantante pop che richiama esplicitamente dettagli del capolavoro botticelliano.

    In questo scarto metonimico autore/opera - ma anche contenuto/contenitore - si consuma quindi, nel giro di 70 anni, anche l’affermazione di quella cultura postmoderna, di quella nuova “sensibilità” che fu presto colta da raffinati critici e studiosi della contemporaneità sin dalla fine degli anni Sessanta: da Leslie Fiedler a Susan Sontag, è subito chiaro che il tratto distintivo della “postcultura” è l’abbattimento delle barriere fra “arte elevata” e “arte di massa”, fra alto e basso, tra elitismo e fenomeno pop, una tendenza che consegna definitivamente anche Botticelli al novero delle icone universali e trasversali ai più diversi campi dell’arte, del sapere, dell’economia, della critica…fino anche della vita quotidiana, in quella caratteristica fluidità dei confini che segna in larga parte la cultura dei nostri giorni.

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    7. Krash 2/2

    Susan Sontag: “Questa nuova sensibilità è radicata, come deve essere, nella nostra esperienza, in esperienze radicalmente nuove rispetto alla storia dell’umanità – in una straordinaria mobilità sociale e fisica; nell’affollamento della scena umana (con sia la gente che le merci materiali che si moltiplicano a ritmo vertiginoso); nella disponibilità di nuove sensazioni come la velocità (velocità fisica, come nei viaggi aerei; velocità delle immagini, come nel film); e nella prospettiva panculturale sulle arti resa possibile dalla riproduzione di massa degli oggetti artistici” (Susan Sontag, Una cultura e la nuova sensibilità, 1969, pp. 296-7).

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    8. Un Botticelli non fa Primavera 1/2

    Primavera o Venere? Autoironiche conclusioni di una mostra o nuove possibilità di fruizione dell’arte? Quali sono i vantaggi di una mostra virtuale e digitale dedicata a singole opere?

     

    Umberto Eco: “Il mio ideale è quello di un museo che serva a capire e godere un solo quadro (o una sola statua, o anche una sola saliera del Cellini). Prendiamo a esempio la Primavera di Botticelli. L’intera sequenza delle sale degli Uffizi dovrebbe essere trasformata in un unico percorso attraverso il quale si arrivi, alla fine, a capire tutto della Primavera. […]. Aveva ragione Valery. Troppe opere, l’una diversa dall’altra, tutte fatalmente fuori contesto, mi affaticano l’occhio e la mente. Ma un tragitto che mi conduca (come accade a me quando ad Amsterdam vado a vedere un solo quadro di Saenredam, conoscendone già la storia e l’ambiente in cui è nato) a entrare veramente “dentro” a una sola opera, farebbe di quella visita al museo un’esperienza memorabile. E se poi il turista feticista si lamenterà che ha compiuto tanta fatica per vedere una sola opera, peggio per lui. Ma anche il peggior feticista non resisterebbe all’esperienza della contemplazione di un solo feticcio di cui gli viene rivelata la storia remota, l’essenza, il destino. […].

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    8. Un Botticelli non fa Primavera 2/2

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    Immediatamente dopo la partenza della Primavera per il suo viaggio, la galleria degli Uffizi potrebbe ristrutturarsi intorno a un’altra delle sue meraviglie. Oltretutto, con una galleria che cambia di stagione in stagione, Firenze diventerebbe degna di essere rivisitata molte volte, come si va più volte a Salisburgo o a Bayreuth, per ascoltare opere di Mozart e di Wagner sempre diverse, e in diverse esecuzioni. […]. Il mio museo del terzo millennio sarebbe sempre inedito, sempre capace di offrirmi nuove sorprese. […]. Se l’Utopia che ho delineato vi pare irrealizzabile, state calmi. Ho intitolato il mio intervento al museo del terzo millennio, e prima che questo millennio termini ci vogliono ancora 999 anni. Un tempo sufficiente per vedere – e spero di esserci - un’utopia realizzata”. (Umberto Eco, Il museo nel terzo millennio, 2007, pp. 13-14).

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    Bibliografia selezionata

    Roland Barthes, Miti d’oggi [1957], Torino, Einaudi, 1974

    Roland Barthes, Il piacere del testo [1973], tr. L. Lonzi, Torino, Einaudi, 1999.

    Roland Barthes, La camera chiara [1979], Torino, Einaudi, 2003

    Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica [1955], Torino, Einaudi, 2000

    Pierre Bourdieu, Le regole dell’arte, Milano, Il Saggiatore, 1992

    Remo Ceserani, Raccontare il postmoderno, Torino, Bollati Boringhieri, 1997.

    Umberto Eco, "Postille" a Il nome della rosa, 1984

    Umberto Eco, Il museo nel terzo millennio, conferenza al Peggy Guggenheim di Bilbao del 25/06/2001 (fonte web: www.umbertoeco.it)

    Luciano Fabro, Arte torna arte, Torino, Einaudi, 1999

    Ernst H. Gombrich, Freud e la psicologia dell’arte [1960], Torino, Einaudi, 1992

    Jean-François Lyotard, La condizione postmoderna [1979], Milano, Feltrinelli, 2014

    Susan Sontag, Una cultura e la nuova sensibilità [1965], Milano, Mondadori, 1969

     

#BotticelliSpringMarathon

Una mostra virtuale sulla costruzione del mito contemporaneo di Botticelli attraverso i social media

Il 21 marzo 2018 il Dipartimento di Comunicazione Digitale delle Gallerie degli Uffizi ha lanciato una campagna internazionale su Twitter intitolata #BotticelliSpringMarathon in cui ha invitato i follower e i più grandi musei del mondo che conservano opere di Botticelli a condividere sul profilo degli Uffizi un saluto all’arrivo della primavera nel segno dell’arte del grande Maestro fiorentino. All’iniziativa è stato associato un vero e proprio contest fotografico, una maratona digitale di una settimana dove è stato chiesto ai visitatori degli Uffizi e agli utenti online da ogni parte del mondo di inviare sull’account @UffiziGalleries la “propria” visione di una delle opere più iconiche della collezione del museo, oggetto di una vera e propria forma di venerazione: La Primavera di Botticelli. In poche ore la campagna è diventata virale, ne hanno parlato i social e la stampa, è rimbalzata in tutto il mondo fregiandosi anche della partecipazione di grandissimi musei che hanno deciso di omaggiare l’iniziativa degli Uffizi pubblicando dettagli a tema primaverile tratti dai loro capolavori di Botticelli esposti: il Louvre, il Prado, la National Gallery di Londra, il Museo Puškin, l’Hermitage, la National Gallery di Edimburgo, il Museo Isabella Stewart-Gardner, il Museo di Houston, il Museo di Strasburgo e gli italiani Museo Poldi Pezzoli e Fondazione Giorgio Cini sono stati i musei che hanno risposto con entusiasmo e simpatia alla “festa di Primavera digitale” degli Uffizi.


1. Running the world

Tutti i contributi twittati dai musei, italiani e internazionali, che hanno aderito alla campagna social sono visibili nella prima sezione di questa Ipervisione intitolata “Running the world”, mentre gli scatti più interessanti selezionati dal contest degli utenti sono raggruppati su base tematica nelle successive sette sezioni. Per essere indirizzati direttamente ad una sezione e vederne i contenuti basta cliccare sul titolo di ciascun paragrafo.

2. Primavera dentro casa

È il primo capitolo dedicato alle foto scattate dal vivo dai visitatori direttamente davanti all’opera, dentro il museo. Da un punto di vista semiotico e di teoria della comunicazione, come verrà illustrato in maniera più estesa, questi scatti sono accomunati dalla loro funzione di “spectrum”, secondo la definizione che ne dette Roland Barthes ne La camera chiara, immagini in cui cioè il focus, con tutte le implicazioni segniche e di significato che ne conseguono, si concentra sull’atto stesso del farsi immortalare come soggetto vero e proprio della foto per poi analizzarne, in seconda battuta, gli effetti emotivi prodotti sullo “spectator”, ovvero il fruitore ultimo della fotografia, l’osservatore.

3. Botticelli digitale

Sempre collegata al tema della fotografia, spostata stavolta sulle intenzioni e motivazioni dell’“operator” barthesiano – cioè chi scatta la foto, il suo autore – è la terza sezione dal titolo “Botticelli digitale”, l’occasione per una riflessione più ampia, che già Walter Benjamin aveva individuato come connaturata alla trasformazione dell’opera d’arte in oggetto di consumo tipico dell’era tecnologica: l’uso della fotografia di un capolavoro come metalinguaggio o, per dirla ancora con Roland Barthes, “intertesto” (“scatto una foto a chi sta scattando una foto alla Primavera di Botticelli o a me stesso attraverso un selfie”) reso possibile dal diffuso e ormai massificato utilizzo di strumenti tecnologici digitali - spesso dispositivi mobili e cellulari più che macchine fotografiche - diventati di largo uso quotidiano nella loro funzione di bacheche virtuali pronte alla condivisione sui canali social o veri e propri album dei ricordi istantanei ed editabili in tempo reale.

4. Botticelli Reloaded

Dalla tecnologia digitale all’arte digitale, la quarta sezione lascia campo aperto agli utenti e alle loro libere riletture del capolavoro botticelliano, in chiave ironica e tipicamente postmoderna, attraverso l’utilizzo di software per l’elaborazione di immagini in digitale.

5. Botticelli Attack

E sempre in tema di libera creatività nel lasciarsi ispirare dall’arte come possibile forma di “gioco”, la quinta sezione raccoglie gli scatti di chi, per via imitativa o ri-creativa, ha omaggiato la Primavera confermando, semmai ce ne fosse ancora bisogno, quanto Botticelli sia davvero penetrato - e sia ancora fortemente presente - nella cultura popolare contemporanea tanto da indurre molti critici a parlare di vero e proprio “feticcio”, in senso antropologico, dei nostri tempi. Un’intrigante storia, questa della creazione del mito contemporaneo di Botticelli, iniziata in Inghilterra ormai a metà Ottocento, sul finire dell’età georgiana, e alimentata, qualche decennio più tardi - già in epoca vittoriana - soprattutto dalla Confraternita dei Preraffaelliti, che di questa storia segnano il punto di svolta, il cui finale, con un effetto domino che coinvolge tutta l’Europa fra Otto e Novecento, approda negli Stati Uniti. Qui avrà infatti luogo forse la prima svolta davvero “pop” del genio fiorentino già a partire dagli anni Quaranta del XX secolo, per poi dilagare nella cultura contemporanea attraverso i media più tipicamente novecenteschi, la fotografia, la moda (intesa come fenomeno di massa) e il video in primis.

6. Springspired

Citare, destrutturare, frammentare, smembrare e ricostruire, perfino cannibalizzare il circostante - così come il pensiero - sono tutti tratti distintivi della cultura contemporanea come già aveva perfettamente intuito un pioniere della riflessione sulla “condizione postmoderna” come Jean-François Lyotard e come, in ambito italiano, ha perfettamente sintetizzato, fra gli altri, anche Umberto Eco. Non sembrano sottrarsi a queste stesse dinamiche neanche la Primavera di Botticelli né il desiderio dei follower di costruirvi attorno reti semantiche ipertestuali secondo codici di comunicazione propri – non a caso - del linguaggio «web». E ad indagare questo nesso sulla scorta delle suggestioni del filosofo e del semiologo, il sesto capitolo di questa Ipervisione: “Springspired”.

7. Krash

La settima sezione getta uno sguardo sulla definitiva elezione della Primavera a vera e propria icona massmediatica dei nostri giorni, un’immagine talmente radicata nella Weltanshauung contemporanea da diventare non solo feticcio antropologico ma persino vero e proprio oggetto di consumo quotidiano a riprova dell’affermazione, nella cultura pop del XXI secolo, del processo di trasformazione dell’arte in bene di consumo: la trasformazione di Botticelli in vero e proprio “brand”. 

8. Un Botticelli non fa Primavera

È talmente “brandizzato” il nome di Botticelli nel mondo che non pochi follower hanno finito persino per rendere interscambiabili, secondo una libera e inarrestabile associazione di idee (o flusso di coscienza?), le due icone assolute del Maestro fiorentino sovrapponendo all’idea di Primavera quella della nascita di Venere. Forse perché ad entrambe è sottesa l’idea della generazione di forze nuove e positive legate alla natura, forse perché in entrambe è presente e forte lo stesso elemento “Natura” così come in entrambe è presente lo stesso principio estetico ed erotico che è in Venere o che comunque risiede in una visione idealizzata della femminilità… o forse perché ormai anche solo il nome di Botticelli è diventato un’“umbrella brand” che riunisce e rappresenta sotto di sé i singoli “brand”?  Ad ogni modo, nessun errore è mai casuale, nessun lapsus è privo di significato: e a questi più o meno consapevoli e ironici “errori” di follower che hanno “pensato” Primavera ma “detto” Venere, abbiamo voluto dedicare l’ultima sezione di questa Ipervisione che, con altrettanta ironia, abbiamo intitolato “Un Botticelli non fa Primavera”.

Credits:

Progetto e testi a cura di Simone Rovida del Dipartimento di Informatica e Strategie Digitali delle Gallerie degli Uffizi.
Pubblicazione 20 marzo 2018

Grafica ed elaborazione immagini di Claudio Di Giuseppe

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