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Dante Istoriato. Inferno

  • Dante Istoriato. Inferno

    La Divina Commedia illustrata da Federico Zuccari

    Dante Istoriato. Inferno
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    Introduzione

    Federico Zuccari, illustratore dantesco.

    La mostra virtuale espone lo straordinario “Dante Historiato” che Federico Zuccari (Sant’Angelo in Vado, 1540 - Ancona, 1609) completò tra il 1586 e il 1588 in Spagna. Insieme al fratello Taddeo, Federico è da annoverarsi tra i protagonisti dell’arte italiana del tardo Manierismo: autore degli affreschi della Cupola di Santa Maria del Fiore a Firenze, pittore amatissimo da Cosimo I de’ Medici, personaggio autorevole che rivendicava alla figura dell’artista un ruolo e uno status intellettuale fino a quel momento a stento riconosciuto, se non negato. In Spagna non era in esilio come Dante, ma si trovava pur lontano dalla patria e sofferente, perché gli affreschi che Filippo II gli aveva ordinato per l’Escurial non avevano incontrato il favore del regale committente. È possibile che l’immersione nei versi dell’Alighieri e le immagini che veniva creando a corredo siano stati per il pittore un rifugio e una forma di liberazione, un modo per sentirsi connesso alla patria.

    L’impresa dello Zuccari si distacca radicalmente dalle altre illustrazioni della Divina Commedia prodotte fino alla seconda metà dell’Ottocento: difatti, per i primi cinquecento anni dal componimento del Poema, la sua fortuna visiva è stata in genere limitata a singole opere ad esso ispirate. Il primo grande ciclo illustrativo è quello celeberrimo di Sandro Botticelli, i cui 92 disegni superstiti vennero pubblicati per la prima volta nel 1887. Quelli di Federico Zuccari vennero eseguiti quasi un secolo dopo, e con pari intento di completezza: gli 88 fogli sono infatti un vero e proprio ciclo istoriato che accompagna i versi danteschi. Si tratta di una delle più imponenti ed esaustive campagne illustrative della Commedia che siano mai state realizzate: senz’altro più ricca e completa – giacché su alcuni fogli sono raffigurati più episodi del Poema - anche rispetto alla serie di 136 illustrazioni che Gustave Doré dedicò all’opera tra il 1861 (Inferno) e il 1868 (Purgatorio e Paradiso), nella celebre edizione che diventò determinante per tutta la tradizione visiva successiva fino ai giorni nostri.

    Federico Zuccari tenne con sé per tutta la vita i suoi disegni danteschi, che infatti troviamo elencati nell’inventario post mortem dell’artista, del 1609. Successivamente pare che essi siano stati acquistati da uno dei figli del Duca di Bracciano, forse Vicinio II Orsini, che fu probabilmente il responsabile della loro rilegatura in volume. L'intera raccolta è entrata nella collezione degli Uffizi nell'agosto 1738, per donazione di Anna Maria Luisa de’ Medici, come si leggeva nel manoscritto: «Questo codice fu con altre cose donato alla Galleria da Anna Luisa di Toscana, moglie di Giov. Guglielmo Elettor Palatino». In effetti, questo singolo dono concreto si aggiunge all’immensa eredità dell’Elettrice - eredità materiale, giuridica e politica - che dieci mesi prima di regalare i disegni di Zuccari agli Uffizi aveva messo in atto il primo vincolo territoriale dei beni artistici e culturali dei Medici alla Toscana e alla sua capitale, Firenze: e lo sanciva con un fausto documento, il Patto di Famiglia, firmato insieme Francesco Stefano di Asburgo-Lorena il 31 ottobre 1737.

    Ancora rilegati in un volume, i disegni furono esposti nel maggio 1865 a Palazzo Medici Riccardi, nella grande mostra nazionale che univa i festeggiamenti per Dante, poeta che favoriva l’unità linguistica dell’Italia, con quella per l’unità politica appena ottenuta, in una Firenze proclamata capitale solo tre mesi prima. In seguito, la loro fortuna rimase altalenante. Solo un’altra volta, nel 1993, ne fu esposta una selezione nella casa di Dante al Castello Gizzi nel comune di Torre dei Passeri, in Abruzzo. E nonostante l’eccellente tesi di dottorato in tedesco di Michael Brunner (1999) e un facsimile in tiratura limitatissima (2004), i fogli rimasero noti soprattutto tra gli specialisti. Per celebrare l’inizio del Settecentenario della morte del Poeta, gli Uffizi oggi pubblicano questo documento unico, insieme al testo e ai commenti che il pittore stesso scrisse sul verso dei fogli. Ci auguriamo che diventino una fonte per le ricerche, un supporto ideale per gli studi, e che offrano uno stimolo visivo e intellettuale per tutti quelli che coglieranno l’anniversario come spunto per dedicarsi alla “virtute e canoscenza”.

    Eike D. Schmidt

    Audiodescrizione

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    Il ritratto di Dante

    Copia da Federico Zuccari

    Ritratto di Dante Aligheri

    1738/ 1753
    GDSU inv. 14287 F

    Questo disegno fu eseguito da un pittore anonimo nel Settecento per sostituire il foglio originale, che era stato sciolto e incorniciato. L’opera costituiva probabilmente il frontespizio del volume della Divina Commedia illustrata da Federico Zuccari, che come molti codici ed edizioni dantesche del Cinquecento si apriva con l’effigie del poeta.
    Il foglio autografo, andato poi perduto nell’Ottocento, riprendeva il Ritratto allegorico di Dante dipinto dal Bronzino nel 1532-1533 per la camera del banchiere fiorentino Bartolomeo Bettini. Il poeta vi è raffigurato in atto di mostrare il libro della Commedia; sulla sinistra, s’intravedono le fiamme dell’Inferno e uno scorcio della città di Firenze con la cupola del Brunelleschi, mentre sulla destra è riconoscibile la montagna del Purgatorio investita dalla luce celeste che allude al Paradiso.
    Nel disegno non sono leggibili i versi del libro che Dante spalanca verso l’osservatore. È però lecito immaginare che fossero gli stessi rappresentati nel dipinto di Bronzino, ovvero l’incipit del XXV canto del Paradiso, in cui Dante esprime l’accorato desiderio di poter un giorno rientrare a Firenze proprio grazie alla fama acquistata attraverso la Commedia:

    "Se mai continga che ’l poema sacro
    al quale ha posto mano e cielo e terra,
    sì che m’ha fatto per molti anni macro,

    vinca la crudeltà che fuor mi serra
    del bello ovile ov’ io dormi’ agnello,
    nimico ai lupi che li danno guerra;

    con altra voce omai, con altro vello
    ritornerò poeta, e in sul fonte
    del mio battesmo prenderò ’l cappello;

    però che ne la fede, che fa conte
    l’anime a Dio, quivi intra’ io, e poi
    Pietro per lei sì mi girò la fronte."

    Audiodescrizione

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    Inferno. I disegni

    I 28 disegni dedicati alla raffigurazione dell’Inferno dantesco sono perlopiù realizzati alternando l’uso della pietra rossa e della pietra nera. Questa tecnica grafica a due colori consente a Federico Zuccari da un lato di mettere in netto risalto le figure rispetto allo sfondo, dall'altro di tradurre in modo efficace i violenti contrasti di luce e ombra che dominano l'orrido paesaggio infernale. I fogli, tutti di dimensioni simili (mm 440 x 590 circa), erano rilegati all’interno di un volume seicentesco in modo che ogni illustrazione avesse, nella pagina alla propria sinistra, il corrispettivo dei versi e del commento raffigurati. Il complesso intreccio di parole e di immagini era inoltre arricchito dai cartigli apposti all’interno dei disegni, che chiarivano il senso di alcuni dettagli e di alcuni passaggi narrativi.

    La geografia dell’Inferno vi è presentata in modo accurato, sebbene in un numero di tavole complessivamente inferiore a quello del Purgatorio: sotto la montagna di Sion si apre fino al centro della terra un cono capovolto diviso in nove cerchi decrescenti; i primi cinque formano l’Alto Inferno, gli ultimi quattro il Basso Inferno. Al fondo del cono, al centro della terra, è Lucifero, “lo ‘mperador del doloroso regno”.

    Le illustrazioni riprendono la tradizione degli studi cosmografici e geografici iniziata da Filippo Brunelleschi, che aveva ricostruito la topografia dei luoghi danteschi con gli strumenti dell’astronomia tolemaica. È opera di un suo allievo, Antonio di Tuccio Manetti, il Dialogo circa al sito, forma e misure dello Inferno di Dante contenente la prima rappresentazione topografica dell’Inferno che verrà utilizzata nel più celebre commento alla Commedia del Quattrocento, quello a cura di Cristoforo Landino (1481), nonché nelle successive edizioni a stampa illustrate di Girolamo Benivieni (1506) e Alessandro Vellutello (1544); quest’ultimo, in disaccordo con i calcoli del Manetti rispetto agli elementi architettonici, ne propose una differente versione.

    Zuccari non inserisce fra i suoi disegni una mappa dei luoghi danteschi, limitandosi a darla quasi per scontata: la sua attenzione, come vedremo, è prevalentemente volta a sottolineare il significato morale degli episodi della Commedia.

    Indice dei contenuti
    1. 1. Introduzione
    2. 2. Il ritratto di Dante
    3. 3. Inferno. I disegni
    4. 4. La selva oscura
    5. 5. La porta dell’Inferno. Gli ignavi
    6. 6. Caronte. Terremoto e svenimento di Dante
    7. 7. Primo cerchio. La discesa al Limbo
    8. 8. Primo cerchio. Il castello degli spiriti magni
    9. 9. Primo cerchio. I Campi Elisi
    10. 10. Secondo cerchio. I lussuriosi. Minosse. Paolo e Francesca
    11. 11. Terzo cerchio. I golosi. Cerbero
    12. 12. Quarto cerchio. Avari e prodighi
    13. 13. Quinto cerchio. La palude Stigia. Iracondi e accidiosi
    14. 14. Quinto cerchio. Flegias e Filippo Argenti
    15. 15. La città di Dite
    16. 16. La città di Dite e il Messo celeste
    17. 17. Sesto cerchio. Eretici. Farinata degli Uberti e Cavalcante de’ Cavalcanti
    18. 18. Settimo cerchio, primo girone. Violenti contro il prossimo. I centauri
    19. 19. Settimo cerchio, secondo girone. La selva dei suicidi
    20. 20. Settimo cerchio, terzo girone. Violenti contro Dio e violenti contro natura. Brunetto Latini
    21. 21. Settimo cerchio, terzo girone. Violenti contro natura e violenti contro l’arte
    22. 22. Ottavo cerchio, Malebolge. Prima bolgia: ruffiani e seduttori
    23. 23. Ottavo cerchio, seconda bolgia: adulatori. Terza bolgia: simoniaci. Niccolò terzo
    24. 24. Ottavo cerchio, quarta bolgia: indovini. Quinta bolgia: barattieri
    25. 25. Ottavo cerchio, quinta bolgia: barattieri. La fiera compagnia
    26. 26. Ottavo cerchio, sesta bolgia: gli ipocriti. Caifa
    27. 27. Ottavo cerchio, settima bolgia: ladri. Vanni Fucci
    28. 28. Ottavo cerchio, ottava bolgia: i consiglieri fraudolenti. Ulisse e Diomede. Nona bolgia: i seminatori di discordie
    29. 29. Ottavo cerchio, decima bolgia: Falsatori di metalli, di persone, di monete e di parole
    30. 30. Nono cerchio: i giganti
    31. 31. Nono cerchio: Lucifero
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    La selva oscura

    Inferno, Canto I

    GDSU 3474 F

    "Nel mezzo del cammin di nostra vita
    mi ritrovai per una selva oscura,
    ché la diritta via era smarrita.

    Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
    esta selva selvaggia e aspra e forte
    che nel pensier rinova la paura!"

    La prima delle illustrazioni che Federico Zuccari dedica al poema dantesco condensa in un’unica immagine l’intera vicenda narrata nel primo canto della Commedia. Dante compare simultaneamente sulla scena ben cinque volte: all’estrema sinistra, smarrito nella selva oscura; quindi ai piedi di un albero, mentre a mani giunte scorge la cima di un colle illuminata dai raggi del sole, il Mons virtutis; poco più a destra, incamminato per il sentiero che porta verso la cima dell’altura, mentre si volge indietro atterrito a “rimirar lo passo”.

    Sulla destra del foglio, il poeta indietreggia colmo di terrore di fronte alle tre fiere, la lonza, la lupa e il leone, apparse sul suo cammino, finché, al centro della scena, incontra l’ombra del poeta Virgilio che si offre di guidarlo attraverso l’oltretomba, nell’Inferno e nel Purgatorio, per poi affidarlo a Beatrice, che gli farà da guida nel Paradiso.

    Nell’anno giubilare del 1300, quando inizia il suo immaginario viaggio poetico, Dante aveva 35 anni. È quindi curioso che Federico Zuccari scelga di rappresentarlo nelle sembianze di un giovane, come sottolinea anche il cartiglio in basso a sinistra: «Gioventù male incaminata». Questa licenza introdotta nell’illustrazione è spiegabile con la precedenza che l’artista accorda all’interpretazione morale del testo dantesco, affidata al commento che accompagna il disegno:

    Commento di Federico Zuccari: «Canto primo. In questo libro, nel quale Dante Aligieri tratta dell’Inferno, del Purgatorio e del Paradiso, ne vuol dimostrare gl’impedimenti che sogliono venire a coloro che si mettono a far alcuna cosa virtuosa. Finge dunque [n]el mezzo del camin’ della sua vita ritrovarsi in una selva oscur[a], cioè come adolescente trovarsi invilluppato fra piaceri mondani, i quali deviano spesse volte, anzi sempre gl’huomini dalle virtù; e sì come colui ch’ha smarrita la strada in alcun folto bosco, non può senza guida lassar il camin falso e ritornare al dritto, così l’adolescente non si può ritrarre da i piaceri, esca de tutti i mali senza lasciarsi guidare da alcun suo maggiore. Perilché Dante introduce Virgilio venir al s[u]o soccorso, e dimostrandoli il camino di fuggire i vitij di superbia, lussuria et libidine, significati per l[a] leonza, lupa, e leone, che l’impedivano il suo viaggio, li dà il modo di condurre a fine la sua intentione promettendoli d’essergli guida.
    Ma perché suole intervenire che l’homo, che si vede nell’ignoranza e comincia a conoscere esser nato per acquistar il sommo bene, subbito desidera investigarlo, ma invilito dalla grandezza e difficultà della cosa, si sbigotisce, così dice il poeta esserli intervenuto, volendo seguir Virgilio, il quale lo voleva menar per l’Inferno, acciò li dimostrasse li vitij, i quali conoscendo potessi dipoi fuggire e venire alla cognitione della virtù. Non fidandosi dunque delle sue forze cangia proposito di seguir Virgilio: niente di manco persuaso da quello, per le dolci parole dell’ombra di Beatrice lassa ogni viltà di anima [e] de[li]bera seguir Virgilio per tutto» (fol. [I] verso).

    Versi della Divina Commedia copiati: Inf. I, 1-12; 22-33; 49-51; 61-63; 79-93
    Versi della Divina Commedia illustrati: Inf. I, 1-5; 13-27; 31-32; 45-47; 49-51; 58-61; 88-93

    Audiodescrizione

  • 5/31
    La porta dell’Inferno. Gli ignavi

    Inferno, Canto III

    GDSU inv. 3475 F

    Dante e Virgilio, al centro della scena, attraversano la porta dell’Inferno su cui campeggiano i celebri versi:

    Per me si va ne la città dolente,
    Per me si va ne l’eterno dolore,
    per me si va tra la perduta gente.

    Giustitia mosse ‘l mio alto fattore:
    fecemi la divina potestate,
    la somma sapienza e’l prim’amore.

    Dinanz’a me non fur cose create
    Se non eterne, e io eterno duro:
    Lassat’ ogni speranza, voi che ‘ntrate.

    L’architettura del portale, di aspetto lugubre e insieme grottesco, è composta da mascheroni demoniaci, scheletri armati di falce e sinistri telamoni formati dalle ossa dei defunti. La composizione declina l’idea dell’arco trionfale rinascimentale in una versione macabra, ispirata alle coeve scenografie teatrali e agli antichi apparati funebri delle esequie di Stato.
    Oltre il vestibolo infernale si estende l’Antinferno, dove sono relegati gli Ignavi. Qui, nell’atmosfera oscura e priva di luce, si levano i sospiri e i lamenti in mille lingue diverse di coloro che vissero senza infamia e senza lode, come recita il cartiglio al centro:

    Li sciaurati, che mai non fur vivi;
    che visser sanza [‘n]fam[i]a, et sanza lodo.

    Alle anime degli Ignavi si mescolano gli angeli che non presero posizione né con Dio, né con Lucifero, e vennero scacciati tanto dal Paradiso quanto dall’Inferno. Costoro sono condannati a una condizione così miserevole che invidiano qualunque oltra sorte: di loro non si serba alcun ricordo nel mondo e le loro ombre sono destinate a correre eternamente dietro un’insegna priva di significato. Vespe e mosconi li pungono e li fanno sanguinare, mentre il loro sangue e le loro lacrime vengono ingoiati da vermi immondi.
    Il disegno traduce in modo estremamente accurato il dolore delle anime dannate, atteggiando i personaggi in pose realistiche e complesse. La figura del reprobo che si copre la testa a sinistra del portastendardo sembra essere un ricordo di quella che Federico aveva affrescato anni prima col fratello Taddeo in un episodio delle Storie di Mosè in Vaticano, la Piaga dei tafani (1566).

    Commento di Federico Zuccari: «Canto II [si legga: III]. Per la persuasione di Virgilio, Dante prese ardire e seguitandolo arrivarono alla porta dell’Inferno dove lessero l’inscrittion’ quella, e poi entrarono dentro: Quivi Vergilio li dimostra, come lì dentro son tormentati gl’ignoranti, quali erano stimolati da mosconi e da vespe crudelissimamente» (fol. IV).

    Versi della Divina Commedia copiati: Inf. III, 1-9; 22-39; 43-57; 64-66
    Versi della Divina Commedia illustrati: Inf. III, 10-11; 19-23; 28-30; 37; 52-56; 64-66

    Audiodescrizione

  • 6/31
    Caronte. Terremoto e svenimento di Dante

    Inferno, Canto III

    GDSU inv. 3476 F

    "Caron dimonio, con occhi di bragia,
    loro accennando, tutte le raccoglie;
    batte col remo qualunque s’adagia."

    Superato l’Antinferno, Dante e Virgilio giungono alla riva dell’Acheronte, il primo dei fiumi infernali che i dannati devono attraversare per raggiungere il cerchio al quale sono destinati. A traghettarli è il demone Caronte, che batte col remo quelli che si adagiano in fondo alla barca.
    Federico Zuccari sceglie in questo disegno di illustrare il momento in cui le anime, lasciate le turbe degl’ignavi che s’intravedono ancora sulla destra, approdano sulla riva opposta, scacciate a forza dalla barca dall’orribile figura del demone. Sul modello letterario prevale qui quello pittorico del Giudizio Universale affrescato da Michelangelo nella Cappella Sistina in Vaticano (1535-1541), dove la barca di Caronte appare in sembianze molto simili. Zuccari aveva sicuramente visto e studiato dal vero questo celebre capolavoro, ma lo richiama probabilmente alla memoria tramite qualche traduzione a stampa, come dimostrano le figure in controparte rispetto a quelle originali.
    Una volta passato l’Acheronte, Dante è investito da una tremenda scossa di terremoto accompagnata da una sinistra luce vermiglia, visualizzata nel disegno come un fascio di lingue di fuoco, e per lo spavento perde i sensi “come uom, cui sonno piglia”.

    Commento di Federico Zuccari: «Canto III. Dante e Virgilio passando oltre trovorno il fiume Acheronte, dove sta Caron demonio per passar l’anime che quivi arrivano. Nel qual luogo Dante, essendo arrivato su la riva del fiume, finge essersi addormentato» (fol. 2 verso)

    Versi della Divina Commedia copiati: Inf. III, 70-111; 130-136
    Versi della Divina Commedia illustrati: Inf. III, 70-71; 106-117; 133-136

    Audiodescrizione

  • 7/31
    Primo cerchio. La discesa al Limbo

    Inferno, Canto IV

    GDSU inv. 3477 F

    "Nel primo cerchio che l’abisso cigne

    Quivi, secondo che per ascoltare,
    non avea pianto mai che di sospiri,
    che l’aura etterna facevan tremare

    ciò avvenia di duol sanza martìri
    ch’avean le turbe, ch’eran molte e grandi,
    d’infanti e di femmine e di viri."

    Dopo essersi risvegliato, Dante entra con Virgilio, in alto a sinistra, nel primo cerchio dell’abisso dell’Inferno, dove si trovano le anime di coloro che morirono prima della proclamazione della Fede. Il “cieco mondo” del Limbo, come è stato osservato, è un Inferno negativo, in cui i dannati sono privati della vista e del bene di Dio: loro condanna è proprio quella del desiderio eterno di Dio mai appagato, al quale è negata anche la speranza.
    Sospiri colmi di dolore si levano dalle ombre di uomini, donne e bambini, che vengono additati da Virgilio, al centro del foglio; sopra di loro, un cartiglio recita:

    Limbo
    Il primo cerchio, che l’abisso cigne
    Quivi secondo che per ascoltare
    Non havea pianto, ma che di sospiri
    Che l’aura eterna facevan tremare;

    Sulla destra della scena, Dante e Virgilio vedono approssimarsi le ombre di quattro grandi poeti dell’antichità: Omero, Orazio, Ovidio e Lucano. Omero, “il poeta sovrano”, ha nella destra una spada, simbolo sia della poesia epica, sia della sua supremazia sugli altri poeti. Dietro di loro un gruppo di anime è riunito attorno a un fuoco acceso: si tratta della fiamma che rischiara gli spiriti di coloro che, pur essendo vissuti prima del Cristianesimo, hanno lasciato memoria di sé tra i vivi per i meriti conseguiti nella scienza e nell’arte.

    Commento di Federico Zuccari: «Canto IV. In questo canto il poeta finge esser desto da un grave tuono, et levatosi discende con Vergilio nel limbo, ch’è il primo cerchio dell’Inferno, dove son puniti i pagani» (fol. 3 verso)

    Versi della Divina Commedia copiati: Inf. IV, 1-45; 67-102
    Versi della Divina Commedia illustrati: Inf. IV, 7-24; 28-42; 67-93

    Audiodescrizione

  • 8/31
    Primo cerchio. Il castello degli spiriti magni

    Inferno, Canto IV

    GDSU inv. 3478 F

    "Venimmo al piè d’un nobile castello,
    sette volte cerchiato d’alte mura,
    difeso intorno d’un bel fiumicello.
    Questo passammo come terra dura;
    per sette porte intrai con questi savi"

    Lasciato il fuoco attorno al quale siedono gli spiriti magni, che s’intravede ancora in lontananza sulla sinistra, Dante e Virgilio pervengono “al piè d’un nobile castello” sotto la guida di Omero, Orazio, Ovidio e Lucano.
    Il sottostante cartiglio, sorretto da un angelo con due tube, riporta il corrispondente passo dantesco:

    Cità de li eroi. F.[iumicello]
    Venimmo al piè d’un nobile castello
    Sette volte cerchiato d’alte mura,
    difeso ‘ntorno d’un bel fiumicello.
    Questo passammo, come terra dura
    Per sette porte intrai con questi savi
    Giugnemmo in prato di fresca verdura.

    Come viene ribadito anche nel commento al passo, il nobile castello dantesco è trasfigurato in questo disegno nella Città degli Eroi, un luogo abitato dagli spiriti sublimi dell’antichità e del mondo classico per i quali Zuccari mostra una venerazione esplicita che oltrepassa la pietas espressa da Dante.
    Il nobile castello “sette volte cerchiato d’alte mura” e munito di sette porte, che nel poema dantesco simboleggiano le sette virtù o le sette arti liberali, ha nel disegno di Zuccari le sembianze di una fortezza di fine Quattrocento dotata di fossato, ponte levatoio, merlature, torrioni circolari e mura esterne leggermente inclinate per resistere all’urto dell’artiglieria.

    Commento di Federico Zuccari: «Seguitando il poeta il viaggio assieme con detti savi arrivò alla città de gl’heroi, qual era cerchiata di sette muri e difesa intorno da un bel fiumicello, et in quella s’entrava per sette porte, come qui è stato benissimo espresso» (fol. 4 verso)

    Versi della Divina Commedia copiati: Inf. IV, 106-111
    Versi della Divina Commedia illustrati: Inf. IV, 98-102; 106-110

    Audiodescrizione

  • 9/31
    Primo cerchio. I Campi Elisi

    Inferno, Canto IV

    GDSU inv. 3479 F

    "Giugnemmo in prato di fresca verdura.

    Genti v’eran con occhi tardi e gravi,
    di grande autorità ne’ lor sembianti:
    parlavan rado, con voci soavi.

    Traemmoci così da l’un de’ canti,
    in loco aperto, luminoso e alto,
    sì che veder si potien tutti quanti."

    I toni del rosso dominano il terzo disegno dedicato al canto IV dell’Inferno. L’abbandono del contrasto con la pietra nera traduce visivamente l’atmosfera luminosa dei Campi Elisi descritta da Dante; un’eleganza classica informa la scena, che si ispira direttamente al Parnaso di Raffaello nelle Stanze Vaticane.

    In alto a sinistra, Dante e Virgilio sono introdotti da Omero, Orazio, Ovidio e Lucano nella Città degli Eroi, dove si estende un prato in cui dimorano i grandi uomini e le grandi donne dell’antichità. Nella schiera in primo piano, assorti in un silenzio autorevole, si scorgono infatti i profili di eroi, re, regine e imperatori celebri identificati dal cartiglio sulla sinistra:

    Colà diritto sopra ‘l verde smalto
    [mi fuor mostrati li spiriti magni]
    Che del veder in me stesso m’essalto.

    I’ vidi Elettra con molti compagni;
    tra’ quai conobbi et Hettor, et Enea,
    Cesar’armato con gli occhi grifagni.

    Camilla vidi, et la Pentesilea
    Da l’altra parte, et vidi ‘l re Latino,
    che con Lavina sua figlia sedea.

    Vidi quel Bruto, che cacciò Tarquino,
    Lucretia, Iulia, Martia, et Corniglia,
    et solo in parte vidi ‘ Saladino.

    Dante e Virgilio siedono di spalle in primo piano, sopra l’iscrizione «Campi elisi», mentre sono intenti a conversare con un gruppo di pagani. All’interno della stessa scena li ritroviamo di nuovo sulla destra, nel gruppo dei filosofi che ha al centro un vecchio assiso, coronato d’alloro e recante un libro in mano, attorniato da due figure anch’esse coronate: si tratta forse di Aristotele, che nel testo dantesco è celebrato come il sommo filosofo, “maestro di color che sanno”, oppure di Platone, che è invece menzionato nel Commento di Zuccari.

    La persona di spalle che indossa il turbante sembra invece essere il filosofo Avicenna, citato nel cartiglio sottostante:

    Poi ch’innalzai un poco più le ciglia,
    vidi ‘l maestro di color, che sanno,
    seder tra filosofica famiglia.

    Tutti lo miran, tutti honor li fanno
    Quivi vid’io, e Socrate, e Platone
    Che ‘nnanz’a gli altri più presso gli stanno;

    Democrito, ch’el mondo a caso pone,
    Diogene, Anassagora, e Thale,
    Empedocles, Herac[l]ito, e Zenone;

    Et vidi l’ buon acoig[l]itor del quale
    Dioscoride dico, e vidi Orfeo,
    Tullio, e Lino, e Seneca morale.

    Commento di Federico Zuccari: «Entrato che fu il poeta nella città de gl’heroi, si trovò ne’ campi elisi, dove riconnobbe molte persone illustri, e poco più in alto vidde Platone con molti altri philosophi» (fol. V verso)

    Versi della Divina Commedia copiati: Inf. IV, 118-141
    Versi della Divina Commedia illustrati: Inf. IV, 111-145

    Audiodescrizione

  • 10/31
    Secondo cerchio. I lussuriosi. Minosse. Paolo e Francesca

    Inferno, Canto V

    GDSU inv. 3480 F

    "Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
    essamina le colpe ne l’intrata;
    giudica e manda secondo ch’avvinghia.

    Dico che quando l’anima mal nata
    li vien dinanzi, tutta si confessa;
    e quel conoscitor de le peccata

    vede qual loco d’inferno è da essa;
    cignesi con la coda tante volte
    quantunque gradi vuol che giù sia messa."

    Nel secondo cerchio dell’Inferno Dante e Virgilio incontrano Minosse, identificato dal cartiglio in primo piano «Minos giudice infernale», che ha le sembianze del demone dipinto da Michelangelo nel Giudizio Universale della Cappella Sistina. A sinistra, le turbe dei dannati sono condotte al cospetto del giudice dei morti, che decide il loro destino attorcigliando la coda tante volte quanti sono i cerchi che esse devono discendere per giungere a quello al quale sono destinate.

    A destra, una roccia di forma antropomorfa soffia i venti che scuotono le anime dannate dei lussuriosi, raffigurate in balìa della bufera che le travolge come in vita erano state travolte dalle passioni. Il cartiglio sottostante le identifica:

    Lusuriosi tormentati
    Da crudeliss[im]o vento
    Che li sbateno per uno
    Oschuro et tenebroso
    Aere

    Tra loro s’intravedono Paolo e Francesca, colti in un tenero abbraccio, mentre “insieme vanno, / e paion sì al vento esser leggeri”.

    Commento di Federico Zuccari: «Canto V. Pervenuto il poeta nel secondo cerchio dell’Inferno, incontra nell’entrata Minos giudice infernale, il quale l’ammonisce che debbi guardare com’egli entri lì dentro, cioè che vedendo i vitij non si lassi vincere dalla dolcezza di quelli. Essendo così ammonito, entra dentro e vede come son puniti i lussuriosi, i quali di continuo son tormentati da crudelissimi venti, che li sbatteno e tormentano per un oscuro e tenebroso aere, e qui riconobbe Francesca d’Arimino, con la quale ragiona dell’amor tra lei e Paulo suo cugnato e, vedendoli così tormentati per pietà, cadde in terra tramortita [leggi: tramortito]» (fol. 6 verso).

    Versi della Divina Commedia copiati: Inf. V, 1-30; 37-39; 73-90; 94-141
    Versi della Divina Commedia illustrati: Inf. V, 4-15; 28-42; 74-75

    Audiodescrizione

  • 11/31
    Terzo cerchio. I golosi. Cerbero

    Inferno, Canti V-VI

    GDSU, inv. 3481 F

    "Cerbero, fiera crudele e diversa,
    con tre gole caninamente latra
    sovra la gente che quivi è sommersa.

    Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,
    e ’l ventre largo, e unghiate le mani;
    graffia li spirti, ed iscoia ed isquatra."

    La sequenza temporale del disegno procede da sinistra a destra: dapprima Dante, sopraffatto dalla commozione per il racconto del tragico amore di Paolo e Francesca, cade svenuto nel secondo cerchio dell’Inferno. Più in basso, ripresosi dallo svenimento, il poeta è già disceso con Virgilio al terzo cerchio, dove scontano la loro pena le anime dei golosi, identificate dal cartiglio Golosi P.[ena]: a terra, confitti nel fango e battuti da una pioggia eterna fatta di acqua sporca, neve e grandine, i reprobi subiscono l’accanimento di Cerbero, “belva crudele e mostruosa” in forma di cane con tre teste, che li scuoia e li dilania. La figura del guardiano infernale è tratta dall’Eneide di Virgilio, in cui essa si opponeva alla discesa agl’Inferi di Enea e veniva ammansita dalla Sibilla con una focaccia di miele intrisa di erbe soporifere; per questo motivo il mostro è stato spesso associato durante il Medioevo al peccato di gola. Per placarlo, Virgilio getta invece nelle sue fauci una manciata di fango; l’improvviso acquietarsi della bestia consente al poeta e alla sua guida di procedere sui corpi dilaniati finché, a destra, uno di questi si solleva e si presenta a Dante: è il fiorentino Ciacco, che profetizza gli eventi che sconvolgeranno il futuro di Firenze, ovvero le sanguinose lotte tra guelfi neri e guelfi bianchi, la caduta di questi ultimi per mano di Bonifacio VIII, le oppressioni e le violenze che segneranno inesorabilmente il destino del poeta.

    Commento di Federico Zuccari: «Canto VI. Ritornato in sé il poeta si trovò nel terzo cerchio, ove son puniti i golosi, la pena de’ quali è l’esser fitti in un fango e tormentati da una grandissima pioggia mescolata di grossa grandine, che di continuo cade sopra di loro, guardati da Cerbero, che latrando con tre bocche continuamente li graffia, morde, e lacera. Tra questi il poeta riconosce Ciacco Fiorentino, col quale ragiona alquanto delle discordie fiorentine. Si parte ultimamente da lui per discendere nel quarto cerchio, dopo che Vergilio gli ha risoluto alcun dubbio, che per il passato camino gl’haveva mosso» (fol. 7 verso)

    Versi della Divina Commedia copiati: Inf. VI, 1-57; 91-115
    Versi della Divina Commedia illustrati: Inf. V, 142; Inf. VI, 7-26; 37-90

    Audiodescrizione

  • 12/31
    Quarto cerchio. Avari e prodighi

    Inferno, Canto VII

    GDSU inv. 3482 F

    "«Pape Satàn, pape Satàn aleppe!»,
    cominciò Pluto con la voce chioccia
    e quel savio gentil, che tutto seppe,

    disse per confortarmi: «Non ti noccia
    la tua paura; ché, poder ch’elli abbia,
    non ci torrà lo scender questa roccia»."

    Discesi nel quarto cerchio dell’Inferno, Dante e Virgilio incontrano Pluto, dio della ricchezza nella mitologia greca e signore dell’Averno in quella romana, che nella Commedia ha le sembianze di un mostruoso demone a guardia del cerchio degli avari e dei prodighi. In questa parte dell’Inferno sono infatti puniti coloro che ebbero una sfrenata brama di ricchezze, accumulandole fino all’eccesso oppure profondendole senza misura. Ora, nell’oltretomba dantesco, questi peccatori sono destinati a spingere in eterno pesanti massi, divisi in due distinte schiere che avanzano in direzioni opposte fino a scontrarsi, per poi invertire il cammino e ripetere di nuovo lo stesso movimento.

    Federico Zuccari immagina i reprobi di questo cerchio nel momento in cui si scontrano e s’ingiuriano gli uni con gli altri; al centro, il cartiglio identifica la scena come Prodighi et avari p.[ena]. Dante e Virgilio, che hanno superato la figura di Pluto in alto a sinistra, si fermano sulla destra a contemplare l’atroce spettacolo: qui il poeta si accorge che tra i peccatori si trova un gran numero di chierici, ossia di religiosi, e Virgilio conferma che molti degli avari lì presenti furono effettivamente uomini di Chiesa, papi e cardinali, che amarono le ricchezze materiali sopra ogni altra cosa.

    Commento di Federico Zuccari: «Canto VII. Essendo arrivato il poeta al quarto cerchio, trovò all’entrata come custode di quella l’infernal Plutone, il quale placato da Virgilio lassolli passar dentro, dove viddeno la punitione de’ prodighi e de gl’avari, li quali di continuo volgeno l’un’ contro l’altro gravi pesi» (fol. 8 verso)

    Versi della Divina Commedia copiati: Inf. VII, 1-18; 25-96
    Versi della Divina Commedia illustrati: Inf. VII, 7-12; 16-48

    Audiodescrizione

  • 13/31
    Quinto cerchio. La palude Stigia. Iracondi e accidiosi

    Inferno, Canto VII

    GDSU inv. 3483 F

    "E io, che di mirare stava inteso,
    vidi genti fangose in quel pantano,
    ignude tutte, con sembiante offeso.

    Queste si percotean non pur con mano,
    ma con la testa e col petto e coi piedi,
    troncandosi co’ denti a brano a brano."

    A destra, Dante e Virgilio scendono al quinto cerchio dell’Inferno e giungono in vista delle acque scure della palude Stigia, che trae il nome dal fiume dell’Averno della mitologia greca e romana. Qui sono puniti gli iracondi e gli accidiosi, come recita il cartiglio soprastante (Stige. Iracondi et gl’accidiosi), ovvero coloro che cedettero da una parte all’ira e dall’altra all’inedia e all’indolenza. I primi espiano la loro colpa percuotendosi l’un l’altro nell’acqua della palude, i secondi sono invece immersi nel fango, nascosti agli occhi del poeta che viene a conoscenza della loro punizione solo grazie alle parole di Virgilio. A destra, in lontananza, s’intravede già la barca di Flegias su cui i due poeti saliranno all’inizio del canto successivo.

    Commento di Federico Zuccari: «Passando oltre il poeta discese nel quinto cerchio, e nella palude Stige trovò esser puniti gl’iracondi et gl’accidiosi, nell’ultimo havendo girato per lungo spatio intorno alla detta Stige finge trovarsi a piè d’un’alta torre» (fol. 9 verso)

    Versi della Divina Commedia copiati: Inf. VII, 97-130
    Versi della Divina Commedia illustrati: Inf. VII, 100-130

    Audiodescrizione

  • 14/31
    Quinto cerchio. Flegias e Filippo Argenti

    Inferno, Canto VIII

    GDSU inv. 3484 F

    "«Flegiàs, Flegiàs, tu gridi a vòto»,
    disse lo mio segnore «a questa volta:
    più non ci avrai che sol passando il loto»."

    Dante e Virgilio, a sinistra, salgono sulla barca di Flegias, un altro personaggio preso in prestito dalla mitologia greca che Dante mette a guardia del quinto cerchio dell’Inferno. Mentre costui traghetta i due poeti sulla palude Stigia, l’ombra di un dannato emerge dal fango e, aggrappandosi alla barca, si rivolge a Dante con fare minaccioso: è l’iracondo fiorentino Filippo Argenti, reo di essersi abbandonato in vita ad accessi d’ira contro l’Alighieri, che viene subito ricacciato da Virgilio nella melma, dove gli altri dannati fanno strazio di lui.
    Sulla destra, si scorge all’orizzonte la città di Dite verso cui i due poeti sono diretti.

    Commento di Federico Zuccari: «Canto VIII. Il poeta essendo ancora nel quinto cerchio, dove son puniti gl’iracondi e gl’accidiosi, persevera nella materia lassata nel precedente canto, dimostrando come giunti al piè della torre, per certo segno fatto a Flegias barcaiol’ di quel loco, furono da quello levati in una barchetta, e navigando per la palude incontrarono Filippo Argenti e viddero lo stratio che gl’era fatto» (fol. 10 verso)

    Versi della Divina Commedia copiati: Inf. VIII, 1-42; 52-75
    Versi della Divina Commedia illustrati: Inf. VIII, 25-26; 31-40; 58-61; 67-75

    Audiodescrizione

  • 15/31
    La città di Dite

    Inferno, Canti VIII-IX

    GDSU inv. 3485 F

    "«Guarda», mi disse, «le feroci Erine.

    Quest’è Megera dal sinistro canto;
    quella che piange dal destro è Aletto;
    Tesifón è nel mezzo»; e tacque a tanto.

    Con l’unghie si fendea ciascuna il petto;
    battiensi a palme, e gridavan sì alto,
    ch’i’ mi strinsi al poeta per sospetto.

    «Vegna Medusa: sì ’l farem di smalto»,
    dicevan tutte riguardando in giuso;
    «mal non vengiammo in Teseo l’assalto»."

    Sulla barca di Flegias, in basso a destra, Dante e Virgilio approdano di fronte alle mura della spaventosa città di Dite, che si ergono con la loro architettura bizzarra al termine della palude Stigia. Arsa dal fuoco eterno che si eleva fin sopra le torri e i minareti, la città vermiglia è cinta di fortificazioni dall’aspetto ferrigno e offre a Federico Zuccari l’occasione di cimentarsi con un tema molto apprezzato nella pittura del Cinquecento, quello della raffigurazione di scene notturne illuminate dalla luce del fuoco e da altre fonti luminose. Con l’uso del rosso e del nero il pittore traduce così il contrasto tra le mura in controluce e, in alto, il chiarore delle fiamme sovrastanti, punteggiate di dannati che piovono orribilmente dal cielo.

    Virgilio, che si è visto negare dai demoni l’accesso alla città, siede a destra pensoso “com’uom ch’ascolta”, mentre Dante assalito dalla paura gli domanda se un’anima del Limbo sia mai scesa prima fin laggiù; il poeta lo rincuora, confermandogli di essere già stato nel cerchio più basso dell’Inferno, ma mentre i due sono intenti a conversare appaiono sulla cima arroventata di una torre le tre Erinni infernali, Megera, Aletto e Tesifone, coperte di sangue e avvolte da serpenti velenosi, che invocano la vendetta di Medusa brandendone la testa contro i due estranei. La fase finale dell’episodio si svolge al centro della scena, dove Virgilio stringe al petto Dante per proteggerlo dallo sguardo pietrificante della Gorgone.

    Commento di Federico Zuccari: «Giunto il poeta alla città di Dite assieme con Vergilio, li fu negato loro l’entrare di quella da certa moltitudine di demoni, che li serrarono le porte incontro» (fol. 11 verso)

    Versi della Divina Commedia copiati: Inf. VIII, 76-126; Inf. IX, 34-60
    Versi della Divina Commedia illustrati: Inf. VIII, 115-120; Inf. IX, 1-6; 37-60

    Audiodescrizione

  • 16/31
    La città di Dite e il Messo celeste

    Inferno, Canto IX

    GDSU inv. 3486 F

    "Come le rane innanzi a la nimica
    biscia per l’acqua si dileguan tutte,
    fin ch’a la terra ciascuna s’abbica,

    vid’io più di mille anime distrutte
    fuggir così dinanzi ad un ch’al passo
    passava Stige con le piante asciutte.

    Dal volto rimovea quell’aere grasso,
    menando la sinistra innanzi spesso;
    e sol di quell’angoscia parea lasso.

    Ben m’accorsi ch’elli era da ciel messo,
    e volsimi al maestro; e quei fé segno
    ch’i’ stessi queto ed inchinassi ad esso.

    Ahi quanto mi parea pien di disdegno!
    Venne a la porta, e con una verghetta
    l’aperse, che non v’ebbe alcun ritegno."

    Di fronte alla porta della città di Dite, che presenta un aspetto curiosamente diverso rispetto a quello del disegno precedente, appare a sinistra il messo celeste inviato da Dio per consentire a Dante e Virgilio l’accesso in quel luogo infernale. Al suo cospetto le ombre dei reprobi si dileguano, per usare le parole del poeta, come rane davanti a una biscia, fuggendo in ogni direzione, mentre i demoni cessano ogni resistenza, cosicché l’angelo, raffigurato nuovamente al centro della scena, è in grado di aprire facilmente la porta di accesso alla città, come spiega il sovrastante cartiglio (L’aiuto divino). In primo piano, Dante e Virgilio, di spalle, assistono inginocchiati alla prodigiosa apparizione: al di sopra delle loro teste, le mura, cariche di bucrani deformi e mascheroni infernali, brulicano di demoni, mentre in lontananza s’intravede già l’interno della fortezza cosparso di avelli in fiamme, dimora eterna degli eretici.

    Commento di Federico Zuccari: «Canto IX. Per l’aiuto divino, che supplisce sempre nelle cose che l’huomo viene a mancare, Vergilio insieme con Dante entrano nella città di Dite, ove rimirando intorno viddero essere una gran campagna piena di tombe rovente, nelle quali, raccontando Vergilio esser puniti gli principi de gl’heretici con i lor seguaci, passano oltra circundando la città fra le mura e le sepulture» (fol. 12 verso)

    Versi della Divina Commedia copiati: Inf. IX, 64-105
    Versi della Divina Commedia illustrati: Inf. IX, 76-90; 112-121

    Audiodescrizione

  • 17/31
    Sesto cerchio. Eretici. Farinata degli Uberti e Cavalcante de’ Cavalcanti

    Inferno, Canti IX-X

    GDSU inv. 3487 F

    "«O Tosco che per la città del foco
    vivo ten vai così parlando onesto,
    piacciati di restare in questo loco.

    La tua loquela ti fa manifesto
    di quella nobil patria natio
    a la qual forse fui troppo molesto».

    Subitamente questo suono uscìo
    d’una de l’arche; però m’accostai,
    temendo, un poco più al duca mio.

    Ed el mi disse: «Volgiti! Che fai?
    Vedi là Farinata che s’è dritto:
    da la cintola in sù tutto ’l vedrai»."

    Varcata la porta della città di Dite, Dante e Virgilio entrano nella grande spianata coperta di tombe ardenti in cui scontano la loro pena gli eresiarchi, ovvero coloro che furono a capo di una setta eretica, come chiarisce il cartiglio al centro: Principi degli eretici con lor seguaci. Tra costoro sono compresi gli epicurei, i seguaci della tesi del filosofo greco Epicuro, fomite di eresia, secondo la quale l’anima è destinata a morire assieme al corpo; adesso, nell’oltretomba, le loro anime giacciono per contrappasso all’interno di sepolcri in fiamme. Ed epicurei sono i due dannati che Dante incontra sul proprio cammino costeggiando le mura della città di Dite, ovvero Farinata degli Uberti e Cavalcante de’ Cavalcanti, protagonisti di uno dei canti più celebri della Commedia.

    Nell’illustrazione di Federico Zuccari, i due poeti sono dapprima raffigurati sulla sinistra, nell’atto di varcare la porta mostruosa della città di Dite, e quindi al centro, attorniati da tombe in fiamme che hanno l’aspetto di sarcofaghi classici con decorazioni in forma di scheletro. Da uno di questi si leva la figura di Farinata degli Uberti, raffigurato una prima volta a destra mentre s’indirizza a Dante con il braccio sollevato e una seconda volta mentre parla con lui sul bordo dell’averno. Accanto, s’intravede la testa di Cavalcante de’ Cavalcanti che si erge dal sarcofago fino al mento per chiedere a Dante notizie del figlio, il poeta Guido Cavalcanti, che morirà qualche mese dopo la data dell’immaginario viaggio della Commedia.

    Domina la scena l’architettura fantastica della città di Dite: Federico Zuccari amava molto questo tipo di ‘capricci’ architettonici, che inserirà spesso nelle illustrazioni dell’Inferno dantesco. L’artista arriverà persino a sperimentare alcune delle soluzioni qui ideate nel progetto architettonico della facciata della propria abitazione romana (1590), conferendo alle porte e alle finestre le sembianze di creature mostruose.

    Commento di Federico Zuccari: «Canto X. Andando il poeta fra le mura e le sepulture, ch’erano aperte e senza guardie, Dante dimanda a Vergilio se si potessi parlare ad alcuni di quelli che son lì dentro, et inteso di sì, introduce Farinata Uberti e Cavalcante Cavalieri fiorentino. Farinata predice l’esilio a Dante, e li dimostra come l’anime poste nell’Inferno posson vedere le cose future, ma le presenti non le possono sapere, se prima dall’anime che li vengono non son lor’ rapportate» (fol. 13 verso)

    Versi della Divina Commedia copiati: Inf. IX, 106-133
    Versi della Divina Commedia illustrati: Inf. IX, 106-111; Inf. X, 28-33; 52-69

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  • 18/31
    Settimo cerchio, primo girone. Violenti contro il prossimo. I centauri

    Inferno, Canti XI-XII

    GDSU inv. 3488 F

    "Io vidi un’ampia fossa in arco torta,
    come quella che tutto ’l piano abbraccia,
    secondo ch’avea detto la mia scorta;

    e tra ’l piè de la ripa ed essa, in traccia
    corrien centauri, armati di saette,
    come solien nel mondo andare a caccia.

    Veggendoci calar, ciascun ristette,
    e de la schiera tre si dipartiro
    con archi e asticciuole prima elette,

    e l’un gridò da lungi: «A qual martiro
    venite voi che scendete la costa?
    Ditel costinci; se non, l’arco tiro»."

    Sul ciglio del dirupo che conduce al settimo cerchio, Dante e Virgilio si arrestano in prossimità di un sarcofago scoperchiato per sfuggire al tremendo fetore che emana dalla voragine sottostante. Scoprono così di avere di fronte l’averno di papa Anastasio II (496-498), che Dante, secondo una tradizione diffusa nel Medioevo, riteneva colpevole di aver abbracciato l’eresia monofisita di Acacio di Gerusalemme, ovvero la dottrina che affermava la sola natura divina di Cristo. La scena è raffigurata da Federico Zuccari in alto a sinistra, laddove un sarcofago reca l’iscrizione (erronea) Anastasio IIII, forse modificata da un successivo estensore.

    A destra, i due poeti intraprendono la discesa impervia fino al settimo cerchio e s’imbattono nel gruppo dei centauri posto a guardia dei volenti contro il prossimo: uno di loro, Nesso, li interroga sulla loro destinazione, mentre un secondo, Chirone, impugna minacciosamente l’arco e sfodera una freccia.

    Appreso il motivo del loro viaggio, Chirone, sulla destra, invita Nesso ad accompagnare i poeti nel loro cammino lungo il settimo cerchio, allontanando da loro tutti quelli che vorranno ostacolarli. Dante e Virgilio giungono così sulle rive del Flegetonte, il terzo dei fiumi infernali, che ribolle di sangue umano: in esso sono immersi i violenti contro il prossimo, come recita il cartiglio al centro, e Dante vi riconosce molti tiranni che in vita si erano macchiati di delitti cruenti e di terribili spargimenti di sangue. Sulle rive del fiume corrono i centauri, che colpiscono con le loro frecce tutti coloro che tentano di uscire dalle acque fetide.

    Commento di Federico Zuccari: «Canto XI. Giunti i poeti su l’estremità dell’alta riva del settimo cerchio, Virgilio informa Dante della conditione e dispositione de’ tre seguenti cerchi, ch’havevano ancora da vedere, narrandoli come nel primo erano puniti i violenti contro il prossimo, nel secondo i violenti contro se stessi e proprij beni, e nel terzo i violenti contra Dio, contra natura e contra arte. Move poi Dante a Vergilio un dubbio, cioè qual sia la cagione che i lussuriosi, gl’avari e prodighi, e gl’iracondi, ch’erano ne’ superiori cerchi, non sono puniti dentro la città di Dite, come l’altre spetie de’ peccatori, e rispostoli da Vergilio che questo avveniva perché Iddio veniva ad essere da quelli men offeso, prendon la via verso il luogo, per lo qual si discende in esso settimo cerchio.

    Canto XII. Scesi nel settimo cerchio trovano il Minotauro di Creta; ch’era a guardia d’un’alpestre ruina, dalla quale Dante fu molto spaventato, sì anco dal Minotauro, che si li fè incontro, ma inteso la cagione di quella ruina da Vergilio, il quale haveva già placato il Minotauro, cominciano a calare per la detta ruina, et appressandosi al fondo scorgettero una riviera di sangue, nella quale son puniti i violenti contro il prossimo. E guardata la detta riviera da una schiera di centauri, che vanno lungo di quella saettando l’anime, ch’escon fuor del sangue qui, che per giuditio non gli è commesso. Tre di questi centauri, vedendo calare i poeti, si misero al piè della ruina per aspettarli; dove, essendo i poeti arrivati, impetra Vergilio passar la riviera su la groppa d’uno di quei centauri. E passando Dante è instrutto della conditione della riviera e dell’anime, che dentro sono punite.

    [Inf. XII, 67] Favola. Nesso fu centauro, e scappato dalla guerra de’ Laphiti, si fuggì in Calidonia. In quel tempo Hercole havendo vinto Acheloo, se ne menava Deianira, la quale gli haveva dato in moglie Eneo suo padre e re di Calidonia. Giunto Hercole con Deianira al fiume Hebeno, assai rigonfiato per le strutte nevi, trovò Nesso, che s’offerse passare Deianira in su la groppa; ringratiollo Hercole, e non sospettando di fraude li misse Deianira su la groppa. Nesso poi havendola portata all’altra ripa li volse usar violentia, il che conoscendo Hercole, per le grida di Deianira, lo saettò con le saette intinte nel velenoso sangue dell’Hydra, e conoscendo Nesso il colpo esser mortale di subbito pensò alla vendetta, et a Deianira porse la camiscia lorda del suo sangue, dicendoli se mai il tuo marito ama altra donna che te, mettendogli questa camiscia subbito tornerà al tuo amore. Doppo alcun tempo Hercole amando Jole, Deianira li mandò la camiscia, e lui se la messe, e per tale veleno morì» (fol. 14 verso)

    Versi della Divina Commedia copiati: Inf. XII, 1-3; 52-75
    Versi della Divina Commedia illustrati: Inf. XI, 1-115; Inf. XII, 1-3; 11-15; 46-96

    Audiodescrizione

  • 19/31
    Settimo cerchio, secondo girone. La selva dei suicidi

    Inferno, Canti XII-XIII

    GDSU, inv. 3489 F

    "Allor porsi la mano un poco avante,
    e colsi un ramicel da un gran pruno;
    e ’l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?».

    Da che fatto fu poi di sangue bruno,
    ricominciò a dir: «Perché mi scerpi?
    non hai tu spirto di pietade alcuno?

    Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:
    ben dovrebb’esser la tua man più pia,
    se state fossimo anime di serpi».

    Come d’un stizzo verde ch’arso sia
    da l’un de’capi, che da l’altro geme
    e cigola per vento che va via,

    sì de la scheggia rotta usciva insieme
    parole e sangue; ond’io lasciai la cima
    cadere, e stetti come l’uom che teme."

    La sequenza narrativa del disegno ha origine in alto a sinistra e procede gradualmente verso il primo piano a destra: Dante e Virgilio vi compaiono quattro volte, a partire dalla riva del Flegetonte brulicante di tiranni, dove i due poeti camminano in compagnia di Nesso, per proseguire più in basso, dove Dante attraversa il fiume infernale sulla groppa del centauro.Giungono così in una orribile foresta di alberi contorti e nodosi, i cui rami, ricoperti di spine, non sono verdi bensì di colore scuro e sono resi nel disegno con l’impiego predominante della pietra nera. Qui sono puniti i Violenti contra se stesi e i propri beni, come avverte il cartiglio, ovvero i suicidi, che vengono trasformati in alberi sui quali nidificano le arpie. All’estrema destra del foglio, Dante spronato da Virgilio recide un rametto da un albero che ha forma antropomorfa, e scopre così che dentro il tronco si cela l’anima di Pier della Vigna, fedele servitore di Federico II di Svevia, che per l’invidia degli altri cortigiani era stato imprigionato e si era infine tolto la vita. Poco più avanti, Dante e Virgilio seguono con lo sguardo l’apparire degli scialacquatori, ovvero i violenti contro i beni propri: nel folto della selva si fanno infatti strada, correndo, due anime dannate, nude e coperte di graffi: sono Lano da Siena e il padovano Iacopo da Sant’Andrea, tristemente celebri ai tempi di Dante per aver dissipato tutti i loro averi. Il primo viene raggiunto dalle cagne nere che li inseguono, mentre il secondo, dopo aver tentato inutilmente di celarsi dietro un cespuglio, viene fatto orrendamente a brandelli.

    Commento di Federico Zuccari: «Canto XIII. Tratta il poeta nel presente canto, come passa per il secondo girone, nel quale sono puniti quelli che hanno usata la violentia contro se stessi, e quelli che l’hanno usata in ruina de’ proprij beni; fingendo quelli esser convertiti in nodosi et aspri tronchi, di che il girone è tutto pieno in forma d’un folto bosco, e questi perseguitati e lacerati nel corso da nere e bramose cagne.

    [Inf. XIV, 8] Landa. Cioè campagna.
    [Inf. XIV, 12] A randa, a randa. Vicino vicino o presso presso» (fol. 15 verso)

    Versi della Divina Commedia copiati: Inf. XIII, 1-6; 10-15; 22-24; 28-38; 46-78; 109-129
    Versi della Divina Commedia illustrati: Inf. XII, 100-102; 124-126; Inf. XIII, 1-15; 28-39; 109-132

    Audiodescrizione

  • 20/31
    Settimo cerchio, terzo girone. Violenti contro Dio e violenti contro natura. Brunetto Latini

    Inferno. Canti XIV-XV

    GDSU inv. 3490 F

    "A ben manifestar le cose nove,
    dico che arrivammo ad una landa
    che dal suo letto ogne pianta rimove.

    La dolorosa selva l’è ghirlanda
    intorno, come ’l fosso tristo ad essa:
    quivi fermammo i passi a randa a randa.

    Lo spazzo era una rena arida e spessa,
    non d’altra foggia fatta che colei
    che fu da’ piè di Caton già soppressa.

    O vendetta di Dio, quanto tu dei
    esser temuta da ciascun che legge
    ciò che fu manifesto a li occhi miei!"

    Il terzo girone del settimo cerchio è una landa desolata che ha la forma di un deserto, sulla quale cade eternamente una pioggia infuocata destinata a colpire i violenti contro Dio, ovvero i bestemmiatori, e i violenti contro natura, ovvero i sodomiti.

    L’assetto narrativo della scena comprende, in alto a sinistra, l’ultima parte del testo dantesco dedicata alla selva dei suicidi, in cui Dante e Virgilio s’imbattono nel cespuglio piangente che racchiude l’anima di un fiorentino morto suicida, al quale il poeta depone pietosamente i rami strappati in corrispondenza delle radici. Al centro, è raffigurato l’arrivo dei due poeti sul limitare della landa desolata dove i bestemmiatori giacciono supini al suolo arroventato senza possibilità alcuna di ripararsi dalla pioggia di fuoco. Tra questi, Dante intravede la figura imponente di Capaneo, uno dei sette re che assediarono Tebe, che per la propria forza smisurata osò porsi al di sopra degli Dèi e venne perciò ucciso da Giove con un fulmine.

    Sulla destra, i due poeti attraversano quindi la landa desolata lungo i margini alti e rocciosi del Flegetonte, finché scorgono un gruppo di anime che sopraggiunge correndo verso di loro: si tratta dei sodomiti, condannati a correre in eterno sotto la pioggia infuocata, tra i quali Dante riconosce il suo antico maestro, Brunetto Latini, celebre retore e uomo politico fiorentino, che gli si appressa, sulla destra, e gli predice i tragici eventi futuri che lo porteranno all’esilio.

    Commento di Federico Zuccari: «Canto XIV. Havendo adunate, e rese le sue sparse fronde allo spirito, i poeti giunsero al fine del secondo et al principio del terzo girone: il quale finge essere una campagna di cocente arena, e quivi pone esser puniti tre spetie di violenti, cioè contro Dio, contro natura, e contro l’arte. La pena loro si è l’esser cruciati da fiamme ardentissime, che di continuo piovono adosso loro. Tra violenti contro Dio trova primo et induce a parlar Capaneo. Poi voltatosi a sinistra lungo la selva de’ bronchi proceduti, che furono alquanto innanti, trovarono un fiumicello di sangue, ch’esce fuori della detta selva et attraversa la campagna dell’arena, ch’era il terzo girone, quivi Vergilio li dimostra la dispositione d’una statua, che finge nell’isola di Creta, e di quella dentro dal monte Ida, e come dalle lagrime, ch’escono da essa statua, nasce il detto fiume insieme con gl’altri fiumi infernali: questo dimostratoli prendono per partito di discostarsi dal bosco, e su per l’un’ de gl’argini del fiume attraversano insieme con quello il campo dell’arena.

    [Inf. XIV, 63] Capaneo fu huomo di statura molto grande e di smisurate forze. Per questo superbissimo et arrogante negava ogni deità talmente che, essendo salito per forza su le mura di Thebe, provocava a battaglia con gran dispregio non solamente li Dèi thebani, ma il sommo Giove, dal quale ultimamente fu fulminato e morto» (fol. 16 verso)

    Versi della Divina Commedia copiati: Inf. XIV, 1-75
    Versi della Divina Commedia illustrati: Inf. XIV, 1-30; 43-48; 76-78; Inf. XV, 1; 13-17; 29-33

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  • 21/31
    Settimo cerchio, terzo girone. Violenti contro natura e violenti contro l’arte

    Inferno, Canti XV-XVII

    GDSU inv. 3491 F

    "Già era in loco onde s’udìa ’l rimbombo
    de l’acqua che cadea ne l’altro giro,
    simile a quel che l’arnie fanno rombo,

    quando tre ombre insieme si partiro,
    correndo, d’una torma che passava
    sotto la pioggia de l’aspro martiro.

    Venian ver noi, e ciascuna gridava:
    «Sòstati tu ch’a l’abito ne sembri
    esser alcun di nostra terra prava».

    Ahimè, che piaghe vidi ne’ lor membri
    ricenti e vecchie, da le fiamme incese!
    Ancor men duol pur ch’i’ me ne rimembri."

    Dopo il colloquio con Dante, in alto a destra, Brunetto Latini si allontana riprendendo la sua eterna corsa sotto la pioggia di fuoco. In compagnia di Virgilio, il poeta procede quindi nella landa deserta del terzo girone, camminando lungo il margine rialzato del Flegetonte, fino a quando non s’imbatte in altri tre sodomiti: si tratta di Guido Guerra, Tegghiaio Aldobrandini e Iacopo Rusticucci, tre fiorentini che Dante aveva profondamente ammirato in vita per i loro meriti politici e ai quali rivolge ora uno sguardo colmo di pietà.

    Più avanti, sulla destra, i due poeti giungono sul margine del girone dove il Flegetonte si getta nel cupo abisso infernale: qui Virgilio scioglie il cordone che Dante teneva legato in vita e con esso attira Gerione, il demone alato dal corpo di serpente che è posto a guardia del cerchio sottostante. Sul suo dorso Dante scenderà nel luogo designato come Malebolge, ma prima il poeta si arresta, sulla sinistra, ad osservare l’ultimo gruppo dei dannati del settimo cerchio: si tratta dei violenti contro l’arte, ovvero gli usurai e coloro che si arricchirono attraverso l’usura anziché attraverso il lavoro (arte è qui inteso nel senso di mestiere). Al pari dei bestemmiatori, costoro sono puniti nella landa desolata ma, anziché giacervi coricati, vi stanno seduti, con lo sguardo rivolto a terra, quasi a sottolineare la loro degradazione al livello bestiale. Al collo indossano una borsa di cuoio con uno stemma familiare che simboleggia il loro attaccamento al denaro.

    Commento di Federico Zuccari: «Canto XV. Descrive il poeta nel presente canto, come attraversando la campagna dell’arena su gl’argini del fiume et essendo allontanato già tanto dal bosco, che per voltarsi in dietro non l’haveria potuto vedere, incontrarono una schiera d’anime, che venivano nell’arena lungo d’esso argine. Tra le quali stava Ser Brunetto Latini, il quale tornò alquanto indietro per ragionar con Dante, e con tai ragionamenti pervennero su la fine del settimo cerchio.

    [Inf. XV, 4] Guizzante, e Brugia. Sono dua città in Fiandra poste ne’ liti del mare Oceano, ch’è tra l’Inghilterra e la Fiandra. L’Oceano in quelli luoghi una volta in ventiquattro hore si move dal Levante verso il ponente, et altretanto torna in dietro. Per il che i fiammenghi hanno paura che ‘l fiotto, cioè l’onda del mare al suo ‘ntorno non allagassi o inondassi le dette città. Il simile fanno i padovani lungo il fiume detto Brenta, il quale passa per Padova e nasce in Chiarentana, montagna posta nell’Alpi, che dividono Italia d’Alemagna, monti freddissimi e quasi sempre carichi di nevi; le quali sentendo il caldo si struggono, e scholando nella Brenta la fanno ingrossare, di modo che arrivando alla pianura allagherebbero assai paesi, se non fussino i ripari degli argini fatti da’ padovani.

    [Inf. XV, 2] Adhuggia. Cioè smorza talmente le fiamme che salva l’acqua e gl’argini da quelle.

    Canto XVI. Continuando il medesimo proposito del precedente canto mostra, com’essi erano proceduti tanto su per gl’argini del fiume, ch’erano già presso al fine di quello, perché già udivano rimbombare l’acqua d’esso fiume, che cadeva nell’ottavo cerchio. Quivi essendo viddero partire da una turma de’ violenti, che passavano sotto la pioggia del foco tre ombre, o vero tre spiriti, che venivano verso di loro, gridando a Dante che si fermassi, perché il suo habito mostrava ch’egli era fiorentino. Al che fare essortato da Vergilio ha parlamento con quelle del pessimo stato della città loro. Partite poi le dette ombre i poeti giunsero al fine del girone, ove l’acqua cade in esso ottavo cerchio, e Vergilio gitta una corda, di che Dante era cinto in quell’acqua, e così viddeno a tal segno venir per aere una mostruosa bestia, della quale parlerà nel seguente canto.

    [Inf. XVI, 37] Gualdrada fu in Firenze fanciulla di singolar bellezza e figliola di messer Bellicion Berti, et vedendola Ottone quarto imperadore, che allhora era in Firenze stupefatto di tal bellezza, dimandò chi ella fosse; rispose il padre che era presso l’Imperadore, lei esser figliola di tal homo che li bastava l’animo, quando piacesse a Sua Maestà, farcela basciare; la qual cosa udita la fanciulla, mossa da honesta vergogna levossi in piede e disse al padre che non fusse sì largo promettitor di lei, perché nissun mai la basciarebbe se non quello che li piacessi darli per legittimo sposo. Piacque all’Imperador tal risposta, e chiamato uno de’ sui baroni le la fece sposare, dandoli ricchissima dote.
    [Inf. XVI, 3] L’arnie. Cioè schiami d’ape.
    [Inf. XVI, 8] Sostati. Cioè fermati» (fol. 17 verso)

    Versi della Divina Commedia copiati: Inf. XV, 1-33; 121-124; Inf. XVI, 1-9; 31-45
    Versi della Divina Commedia illustrati: Inf. XV, 121-124; Inf. XVI, 19-27; 103-105; Inf. XVII, 7-15; 40-66

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  • 22/31
    Ottavo cerchio, Malebolge. Prima bolgia: ruffiani e seduttori

    Inferno, Canti XVII-XVIII

    GDSU inv. 3492 F

    "Luogo è in inferno detto Malebolge,
    tutto di pietra di color ferrigno,
    come la cerchia che dintorno il volge.

    Nel dritto mezzo del campo maligno
    vaneggia un pozzo assai largo e profondo,
    di cui suo loco dicerò l’ordigno."

    L’ottavo cerchio dell’Inferno è riservato a coloro che in vita commisero ogni tipo di frode o inganno verso il prossimo: ruffiani, seduttori, simoniaci, falsi indovini, barattieri, ipocriti, ladri, consiglieri di frodi, seminatori di discordie e falsari. Dante li immagina divisi in dieci fosse o bolge disposte in modo concentrico attorno a un pozzo centrale; da qui deriva il nome dell’intero cerchio, Malebolge, ovvero bolge popolate da spiriti malvagi.

    Il disegno di Federico Zuccari illustra la prima di queste fosse, quella riservata ai ruffiani e ai seduttori: costoro violarono il vincolo naturale dell’amore ingannando le donne, seducendole o inducendole alla prostituzione per i propri turpi propositi, e sono ora condannati a correre eternamente in direzioni opposte sotto la frusta dei demoni.

    La narrazione si sviluppa a partire dall’episodio precedente, raffigurato in alto a sinistra su un’aggiunta di carta che rivela un probabile pentimento dell’artista: Dante e Virgilio, circondati dagli usurai, salgono sul dorso del demone Gerione che li trasporta volando fino in fondo al sottostante dirupo, a destra. Qui, nella cupa atmosfera delle mura in pietra color ferrigno dell’ottavo cerchio, i due poeti osservano i demoni accanirsi sui reprobi tra i quali si riconosce forse, al centro, il bolognese Venedico Caccianemico, intento a conversare con Dante che lo ha riconosciuto: il dannato è posto infatti tra i ruffiani per aver indotto la propria sorella, Ghisolabella, a soddisfare le voglie di Obizzo d’Este, Signore di Ferrara.

    Commento di Federico Zuccari: «Canto XVII. In questo canto tratta di quella bestia della quale fè mentione nel precedente canto, e descrive il suo essere, e saliti sul dosso di quella bestia discendono per aere nell’ottavo cerchio.

    [Inf. XVII, 97] Gerion fu Re d’Hispania dell’isola di Maiorca e di Minorca, huomo fraudolente e di pessima natura, per il che vinto et occiso da Hercole fu trasmutato in sì monstruosa bestia et messo in guardia nell’Inferno, del luogo dove son puniti li fraudolenti.

    Canto XVIII. Nel presente canto il poeta descrive il sito e la forma dell’ottavo cerchio, dividendo il suo fondo in dieci bolgie, e pone che ivi siano punite dieci spetie di fraudolenti, ma in questo non tratta più che di due, cioè di quelli che hanno ingannato femine, inducendoli a far l’altrui o propria voglia, e questi pone nella prima e maggior bolgia, e la pena loro è di essere sferzati da cornuti demoni.

    [Inf. XVIII, 50] Venetico Caccianemico fu da Bologna e, come dicono, mosso da somma avaritia, fece per premio che una sua sorella, per nome Chisola, consentì alla voglia d’Obizo da Esti marchese di Ferrara; facendoli falsamente credere che ‘l marchese la torrebbe per moglie» (fol. 18 verso)

    Versi della Divina Commedia copiati: Inf. XVII, 1-15; 34; 41-42; 79-84; 97-117; 133-136
    Versi della Divina Commedia illustrati: Inf. XVII, 79-87; 103-105; 118-126; Inf. XVIII, 22-27; 34-63; 79-99

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  • 23/31
    Ottavo cerchio, seconda bolgia: adulatori. Terza bolgia: simoniaci. Niccolò terzo

    Inferno, Canti XVIII-XIX

    GDSU inv. 3493 F

    "Già eravam là ’ve lo stretto calle
    con l’argine secondo s’incrocicchia,
    e fa di quello ad un altr’arco spalle.

    Quindi sentimmo gente che si nicchia
    ne l’altra bolgia e che col muso scuffa,
    e sé medesma con le palme picchia.

    Le ripe eran grommate d’una muffa,
    per l’alito di giù che vi s’appasta,
    che con li occhi e col naso facea zuffa."

    Dante e Virgilio, in alto a sinistra, si allontanano dai ruffiani e seduttori imboccando il ponte che sovrasta la seconda bolgia, sulla sommità del quale i due poeti scorgono, immersi in una fossa profondissima e nauseabonda, gli adulatori: costoro usarono la parola per lusingare, per piacere, per allettare e blandire ingannevolmente il prossimo e sono ora condannati a percuotere le loro stessa membra in eterno, immersi in una pozza colma di sterco. Fra i dannati sono forse riconoscibili il lucchese Alessio Interminelli, che è rivolto verso Dante, e la celebre meretrice ateniese Taide, entrambi in piedi e visibili fino alle ginocchia.

    Nella scena successiva, in alto a destra, i due poeti si trovano sul ponte che sovrasta la terza bolgia, dove scontano la loro pena i simoniaci ovvero coloro che, come Simone da Samaria, fecero mercato dei beni spirituali. Fanno parte di questa categoria gli ecclesiastici che in vita vendettero benefici in cambio di denaro, capovolgendo il significato e il fine stesso della religione, e che ora, per la legge del contrappasso, giacciono confitti e capovolti entro buche circolari con i piedi in fiamme, come spiega il cartiglio a destra: Simoniaci la p.[ena] loro è l’eser fiti col capo all’in giù et ano le piante de’ piedi accese de’ ardentissime fiame. Di fronte a questa terribile visione, Dante e Virgilio scendono al fondo della bolgia e scoprono che uno dei reprobi altri non è che papa Niccolò III (1277-1280).

    Commento di Federico Zuccari: «Il poeta in questo canto pone la seconda bolge, dove dice esser puniti gl’adulatori, la pena de’ quali è di stare in un puzzolente e fetido sterco. Canto XIX. Partiti i poeti dalla seconda bolge, giunsero sopra la terza, dove pone che siano puniti i simoniaci, li quali stanno col capo all’in giù fitti in certi buchi, et hanno le piante de’ piedi accese di fiamme ardentissime. Portato poi da Vergilio al fondo della bolgia, parla con Nicolò terzo pontefice, quale stava fitto in uno di quei buchi con le piante de’ piedi infiammate. Contra di questo acerbamente insurge il poeta, biasimandolo di tanto vitio contro la legge di Christo, perché lui con i suoi discepoli non vendero mai come questi le gratie loro.

    [Inf. XIX, 1] Simon Mago. Secondo che si legge all’ 8 de gl’Atti de gl’Apostoli fu di Samaria, et il primo che nel testamento novo tentassi la simonia, perché volse da gl’apostoli comprar con denari autorità di poter infondere lo Spirito Santo ne’ battezzati, sopra de’ quali ponessi la mano, come essi apostoli per divina virtù e gratia speciale conceduta loro da Dio facevano.

    [Inf. XIX, 115] Hai Constantin. Constantino Imperatore, poi che fu da San Silvestro papa liberato dalla lepra, si convertì alla fede di Christo, e fu il primo che dotò e diede i proprij beni alla Chiesa, che prima i pontefici di quella erano vinuti in somma povertà e santimonia, ma poi che vennero ad aumentarla, dandosi all’avaritia, divennero in quei tempi ogni dì peggiori; onde a ragione il poeta biasma non la conversion’ di Constantino, ma la dote che lui diede al pontefice padre de’ Christiani.

    [Inf. XIX, 57] La Bella Donna. Cioè la Chiesa, la quale occupò facendosi Papa per inganni» (fol. 19 verso)

    Versi della Divina Commedia copiati: Inf. XVIII, 100-136
    Versi della Divina Commedia illustrati: Inf. XVIII, 100-136; Inf. XIX, 7-51

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  • 24/31
    Ottavo cerchio, quarta bolgia: indovini. Quinta bolgia: barattieri

    Inferno, Canti XX-XXI

    GDSU inv. 3494 F

    "E vidi dietro a noi un diavol nero
    correndo su per lo scoglio venire.

    Ahi quant’elli era ne l’aspetto fero!
    e quanto mi parea ne l’atto acerbo,
    con l’ali aperte e sovra i piè leggero!

    L’omero suo, ch’era aguto e superbo,
    carcava un peccator con ambo l’anche,
    e quei tenea de’ piè ghermito ’l nerbo."

    Nella sequenza narrativa del disegno, che procede da sinistra a destra, Dante e Virgilio sono dapprima raffigurati sul ponte che immette alla quarta bolgia e quindi, nella scena sottostante, in prossimità del cartiglio che recita: Falsi Indovini e streghe maliarde. In questa fossa sono infatti puniti gli indovini e le streghe ammaliatrici che ebbero la pretesa di prevedere il futuro e che ora, all’Inferno, hanno per contrappasso la testa completamente ritorta all’indietro.

    Il racconto prosegue sulla destra, dove i due poeti sono raffigurati sul ponte della quinta bolgia, atterriti dall’arrivo di un demone che scaraventa un dannato nel fiume di pece bollente, dal quale il reprobo riemerge per essere straziato dagli uncini dei diavoli neri, detti Malebranche: si tratta, come precisa il cartiglio, dell’anima di un barattiere, ovvero di un corrotto che aveva venduto per denaro il proprio ufficio pubblico.

    Commento di Federico Zuccari: «Canto XX. Tratta il poeta nel presente canto de gl’indovini, quali son posti nella quarta bolgia, e lor pena si è d’havere il viso e la gola volt’al contrario, di modo che veggono dietro; e gli è tolto il veder dinanzi. Tra questi Dante finge haver trovato Manto Thebano, dalla qual mostra in persona di Vergilio haver origine la città di Mantova.

    [Inf. XX, 34] Amphiarao fu uno de’ sette re ch’andarono all’assedio di Thebe per ricuperare il regno a Polinice genero d’Adastro re de gl’Argivi, che da Eteocle fratello di esso Polinice gli era occupato. Costui fu molto esperto ne’ gl’augurij, e dovendo andare alla sopradetta battaglia previdde che vi dovea perire, per il che si nascose, e solo ad Erifile sua sposa fece noto il loco. Ma Argia sposa di Polinice, desiderando la ricuperatione del regno, col dono d’una bellissima collana fabricata da Vulcano corruppe la infida Eurifile; sì che trovato Amphiarao, andò con gl’altri Argivi in tal espeditione, e giunto a Thebe nella prima battaglia si gl’aperse la terra sotto, et inghiotillo. Onde il poeta finge che rovinassi sino nell’Inferno.

    [Inf. XX, 40] Tiresia fu thebano, e passando un dì per certa selva, scontrò due serpenti insieme invillupati, e con una verga gli batte, e subbito si mutò di maschio in femina, et in quel sesso perseverò sette anni. Poi tornato un’altra volta per la medesima selva, trovò nel medesimo luogo li dua serpenti, pur ancora avvolti, e con una verga un’altra volta li tornò a battere, e così ritornò maschio. Essendo poi per haver provato l’un’ e l’altro sesso, eletto giudice tra Giove e Giunone, in chi fosse maggior appetito e furor nel coito, o nel maschio o nella femina, pronuntiò nella femina esser maggior libidine, di che fu tanto nimico a Giunone che gli tolse il lume de gl’occhi, ma Giove lo ristorò con darli il lume della mente, di modo che indovinava le cose future, e così è posto dal poeta qui tra gl’altri indovini.

    [Inf. XX, 118] Asdente fu da Parma et era calzolaio senz’alcuna dottrina, tutta volta datosi all’arte dell’indovinare, predisse molte cose, e specialmente la rotta di Federigo ch’era all’assedio di Parma.

    [Inf. XX, 121] Vedi le triste. Per queste intende tutte le femine che, per darsi alle malie et agl’incanti, hanno lassato i loro feminili essercitij» (fol. 20 verso)

    Versi della Divina Commedia copiati: Inf. XX, 1-57; 100-123; Inf. XXI, 1-12; 16-63
    Versi della Divina Commedia illustrati: Inf. XX, 4-15; 25-26; 37-38; 52-56; Inf. XXI, 16-43; 47-57

    Audiodescrizione

  • 25/31
    Ottavo cerchio, quinta bolgia: barattieri. La fiera compagnia

    Inferno, Canti XXI-XXIII

    GDSU inv. 3495 F

    "Noi andavam con li diece demoni.
    Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesa
    coi santi, e in taverna coi ghiottoni."

    Anche questa scena è ambientata nella quinta bolgia dei barattieri, come precisa il cartiglio apposto al centro del disegno: Barattieri la p.[ena] de’ quali è de stare in una bollente pece. Il fiume di pece che s’intravedeva nella precedente illustrazione è infatti riproposto nella fascia mediana del foglio; a destra, invece, si vede Virgilio che ha lasciato indietro Dante per scendere a ‘parlamentare’ col demone Malacoda riguardo alle ragioni del viaggio ultraterreno del poeta. Più in basso, lo stesso Malacoda li avverte che il ponte di collegamento con la bolgia successiva non è percorribile e che una compagnia di diavoli li scorterà fino a quello successivo.

    Al centro della sequenza narrativa, sono quindi raffigurati per la terza volta Dante e Virgilio, attorniati da demoni, che incontrano Ciampolo di Navarra, un funzionario spagnolo alla corte del Re di Navarra che in vita si macchiò di numerosi imbrogli. Sulla destra, infine, i due poeti approfittano di una zuffa fra i diavoli per allontanarsi verso la bolgia successiva.

    Commento di Federico Zuccari: «CANTO XXI. Il poeta descrive la quinta bolgia, nella quale sono puniti i barattieri dentro una bollente pece, guardati da gran moltitudine di demoni armati d’uncini e graffi per far che stiano sotto di quella, e stando Dante sopra d’essa bolgia vede venir velocemente correndo un fiero demonio carico d’un peccatore, che di su ‘l ponte fu gittato dal demonio nella pece. Partito poi Virgilio lassa Dante nascosto su ‘l colmo del ponte e passa dall’altra parte di quello, ove assallito da gran turba di demoni, richiede di voler parlare ad un’ di loro, e fattosi innanzi Malacoda, Virgilio li disse esser mosso da voler divino per guidar Dante, e però che lo debbia lassar andare. Per il che abbassato l’orgoglio a Malacoda gl’altri non si mossero, e Virgilio chiama Dante, il qual venuto, si mettono in camino in compagnia di dieci demoni, che andavano per quella via.

    [In. XXII, 36] Ghermito. Cioè serrato e stretto.

    Canto XXII. Seguita il poeta nel presente canto, come andando co’ dieci demoni lungo la pegola viddeno molt’anime a riva tener la testa fuori di quella pegola, così come fan le rani fuori dell’acqua. Ma come Barbariccia, che andava innanzi a gl’altri, s’appressava a loro, si ritiravano sotto, nondimeno non furono così presto a ritirarsi, che Graffiacane ne arroncigliò una e tirolla su per istracciarla, come in parte fero. Ma dimandata da Vergilio a petition’ di Dane la lassò dire, chi ella era, col processo della sua vita. Questo detto promette a Vergilio che non essendo molestata da demoni, ne farebbe venire fuori dell’altre; al che consentendo i demoni per la persuasione di Alichino, quell’anima lesta lesta preso il tempo salta nella pegola e nascondendovisi dentro si libera delle mane di demoni, et è seguitata invano da Alichino, che più de gl’altri n’era stato cagione. Calcabrina, per vendicarsi dello scorno, vola dietro a esso Alichino, e sopra le pegola s’azzuffa con lui, e così invilluppati cascano nella pegola, nella quale essendo impaniati, Barbariccia con gl’altri corrono con gl’uncini a pescarli, e mentre ch’erano impiacciati a far questo, i poeti li lassano e seguitano il camin loro.

    [Inf. XXII, 48] Io fui del regno di Navarra nato. Costui dicono, che fu certo Giambolo del Regno di Navarra nato di gentildonna, ma dal padre che dissipato havea quasi tutte le sue sustantie lassato molto povero. Onde la madre accostatolo a uno de’ baroni del Re, trovò tanta gratia appresso esso Re, che lo fece de’ suoi di casa, e li diede autorità di conferir gl’offitij e le dignità, le quali egli vendeva per denari a chi più gli ne dava, senza guardar né a chi, né come, di modo che datosi alla barrattaria, dice hora in quel caldo renderne ragione» (fol. 21 verso)

    Versi della Divina Commedia copiati: Inf. XXI, 67-93; 100-105; 115-126; Inf. XXII, 13; 17-36; 45-54; 70-72; 76-87; 91-111; 118-129; 145-148
    Versi della Divina Commedia illustrati: Inf. XXI, 64-75; 88-99; Inf. XXII, 31-48; Inf. XXIII, 37

    Audiodescrizione

  • 26/31
    Ottavo cerchio, sesta bolgia: gli ipocriti. Caifa

    Inferno, Canti XXIII-XXIV

    GDSU inv. 3496 F

    "Là giù trovammo una gente dipinta
    che giva intorno assai con lenti passi,
    piangendo e nel sembiante stanca e vinta.

    Elli avean cappe con cappucci bassi
    dinanzi a li occhi, fatte de la taglia
    che in Clugnì per li monaci fassi."

    Per sfuggire ai diavoli, in alto a sinistra, Dante e Virgilio si lasciano scivolare lungo il dirupo che scende verso la bolgia seguente in cui scontano la propria pena gli Ipocriti, ovvero i simulatori di atti pietosi, tra i quali sono puniti numerosi uomini di chiesa. La loro punizione consiste nel percorrere incessantemente la fossa indossando pesantissime cappe di piombo che rilucono d’oro in superficie. Il cartiglio in basso chiarisce meglio il contenuto della scena:

    Ipocriti. La p.[ena] loro / andar sempre gir.[ando] / vestiti di gravissime ca[ppe] / et cappuci di piombo.

    Al centro, il dannato crocifisso a terra con tre pali è Caifa o Caifas, il sacerdote fariseo che fu responsabile della cattura e della morte di Cristo, e che adesso all’Inferno subisce la stessa atroce pena inflitta al Salvatore; gli altri dannati infieriscono su di lui calpestandolo a turno in processione.

    La scena prosegue nella parte destra del foglio, dove Dante e Virgilio sono costretti ad arrampicarsi su una rupe per entrare nella bolgia seguente, e quindi più in basso, dove i due poeti procedono faticosamente verso l’argine successivo.

    Commento di Federico Zuccari: «Canto XXIII. Dimostra il poeta in questo canto, come partiti da’ demoni se n’andarono taciti e soli senza compagnia. Così andando entrò loro sospetto d’esser perseguitati da demoni, che offesi e beffati erano rimasi per lor cagione, e fra questo mezzo sospettando s’avviddeno esser perseguitati di sorte, che Vergilio trova modo per fuggirli di scendere nella sesta bolgia, nella quale trovano che è punita l’Hipocrisia de’ sacerdoti, li quali sono per pena vestiti di gravissime cappe e capucci di piombo dorati di fora, e son constretti continuamente andar con quelle girando, e per lo insopportabil peso miseramente sempre lagrimando intorno alla bolgia. Fra questi finge haver trovato Catelano e Loderingo Frati Gaudenti bolognesi, e da costoro gli è mostro il camino per uscire della sesta bolgia.

    [Inf. XXIII, 66] Federigo secondo. Come dicono fu homo di natura crudelissimo, e quando haveva a punir uno che havesse commesso errore contro la corona li faceva fare una veste di piombo et in quella lo metteva a cuocer dentro d’un gran vaso, fin che ‘l piombo insieme col corpo del reo si liquefacessi, e così il poeta dice che Federigo le metteva leggiere, come paglia rispetto a quelle che portavano in quel luogo gl’Hippocriti.

    [Inf. XXIII, 16] S’agueffa. Cioè si congiungie et unisce.

    [Inf. XXIII, 95] Gran villa. Cioè gran città e qui s’intende per Fiorenza.

    [Inf. XXIII, 111] Crucifisso. Intende Caiphas.

    [Inf. XXIII, 121] Suocero. Intende Anna» (fol. 22 verso)

    Versi della Divina Commedia copiati: Inf. XXIII, 1-3; 13-24; 35-45; 50-66; 73-74; 76-80; 82-86; 91-95; 97-105; 109-123
    Versi della Divina Commedia illustrati: Inf. XXIII, 52-65; 109-111; 133-138; Inf. XXIV, 28-40

    Audiodescrizione

  • 27/31
    Ottavo cerchio, settima bolgia: ladri. Vanni Fucci

    Inferno, Canti XXIV-XXVI

    GDSU inv. 3497 F

    "Lo duca il domandò poi chi ello era;
    per ch’ei rispuose: «Io piovvi di Toscana,
    poco tempo è, in questa gola fiera.

    Vita bestial mi piacque e non umana,
    sì come a mul ch’i’ fui; son Vanni Fucci
    bestia, e Pistoia mi fu degna tana»."

    In alto Dante e Virgilio attraversano il ponte che sovrasta la settima bolgia e percorrono infine la rupe scoscesa fino al centro del fossato, nel luogo in cui sono puniti i ladri: loro pena è correre senza sosta, continuamente assaliti da serpenti velenosi di ogni specie, e subire a loro volta una mostruosa metamorfosi in rettili. In questa bolgia Dante incontra il pistoiese Vanni Fucci, raffigurato al centro della scena mentre cerca di liberarsi dalle spire dei serpenti con gesti disperati. All’estrema sinistra del foglio, accanto ad alcune creature deformi, è invece riconoscibile Caco, il centauro della mitologia greca che aveva rubato il gregge di Ercole, anch’egli avvolto in un groviglio di serpenti.

    Commento di Federico Zuccari: «Canto XXV. Con grandissima difficultà uscito il poeta dalla sesta bolgia dimostra come passato il ponte della settima bolgia, scendendo su la ripa, che la divide dall’ottava vidde che in essa settima bolgia erano puniti i ladri, la pena de’ quali si è d’esser circundati e cruciati da ogni spetie di velenose e pestifere serpi, di che la bolgia era piena, et appresso narra la transformatione di due spiriti fiorentini.

    [Inf. XXV, 82] Verso l’epe. Cioè verso le pancie, perché epa in toscano significa quella parte che è dallo stomaco al pettignione» (fol. 23 verso)

    Versi della Divina Commedia copiati: Inf. XXIV, 79-108; 121-126; 133-139; Inf. XXV, 46-57; 61-63; 70-138
    Versi della Divina Commedia illustrati: Inf. XXIV, 41-96; Inf. XXV, 17-24; 49-60; 91-123; 148-150; Inf. XXVI, 13-15

    Audiodescrizione

  • 28/31
    Ottavo cerchio, ottava bolgia: i consiglieri fraudolenti. Ulisse e Diomede. Nona bolgia: i seminatori di discordie

    Inferno, Canti XXVI-XXVIII

    GDSU inv. 3498 F

    "Quante ’l villan ch’al poggio si riposa,
    nel tempo che colui che ’l mondo schiara
    la faccia sua a noi tien meno ascosa,

    come la mosca cede alla zanzara,
    vede lucciole giù per la vallea,
    forse colà dov’e’ vendemmia e ara:

    di tante fiamme tutta risplendea
    l’ottava bolgia, sì com’io m’accorsi
    tosto che fui là ’ve ’l fondo parea."

    Dall’alto del ponte che sovrasta l’ottava bolgia, Dante e Virgilio scrutano in basso il fossato in cui sono punite le anime dei consiglieri fraudolenti, avvolte entro fiamme che ardono senza fine e scintillano come lucciole in una valle buia. In alto è raffigurata la fiamma biforcuta di Ulisse e Diomede che si protende verso i due poeti nel momento in cui viene narrato l’ultimo viaggio di Ulisse e il suo discorso ai compagni per incitarli a oltrepassare le colonne d’Ercole: ‘fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza’.

    A destra ritroviamo nuovamente Dante e Virgilio sopra il ponte della nona bolgia in cui sono puniti i seminatori di discordie, ovvero coloro che in vita fomentarono divisioni e contrasti e sono ora puniti nell’Inferno dantesco con la mutilazione delle membra. Tra costoro è riconoscibile Bertram dal Bornio (Bertran de Born), signore di Altaforte e poeta trovatore francese, che è raffigurato con la testa mozzata sollevata dal braccio verso i due poeti; a lui Dante rimprovera di aver messo l’uno contro l’altro Enrico II Plantageneto, re d’Inghilterra, e suo figlio Enrico il Giovane.

    Commento di Federico Zuccari: «Canto XXVI. Nel principio di questo canto si fa beffe di Fiorenza, dicendo che lei si può dir grande e di gran fama, poiché ha veduto che per mare per terra e sino nell’Inferno si trovano de’ suoi notabili cittadini. Di poi dice che giunti su l’arco del ponte, che sovrastava all’ottava bolgia, vidde infinite fiamme di foco, nelle quali intese da Virgilio che si puniva l’astitia di fraudolenti consiglieri, e che da ogni fiamma era contenuto un solo peccatore, eccetto che da una cornuta, cioè divisa in dua o biforcata, la quale conteneva due, cioè Diomede et Ulisse, quale li narra qual fusse il fine della sua lunga peregrinatione.

    [Inf. XXVI, 34] Colui che si vengiò con gl’orsi fu Heliseo, perché come si legge al 2° de’ Re nella Bibbia, tornato Heliseo dal Giordano, dove Helia su ‘l carro era salito e rapito al cielo, andando di Hyerico in Bethel, i fanciulli gli uscirono incontro, schernendolo e dicendoli che mentiva Helia esser salito al cielo, per il che Heliseo li maledisse, e subbito da i vicini boschi uscirono due orsi che uccisero quarantadoi di quei fanciulli.

    [Inf. XXVI, 54] Etheocle col fratello. Cioè Etheocle e Polinice, i quali furono figlioli di Edippo re di Thebe. Costoro doppo la morte del padre s’accordarono fra loro di regnare ciascheduno un anno, et il primo toccò a Etheocle, il quale finito l’anno non volse che il fratello reggessi. Per il che Polinice, con l’aiuto del suo suocero condusse a Thebe un essercito di sette re, e combatté col fratello, sì furiosamente, che tutti due morirono per le man’ l’un’ dell’altro. Et come il costume portava, Etheocle fu brusciato. Di poi condotto Polinice al foco, dove già era arso il fratello, et posto presso di quello, le fiamme de’ dua corpi fuggirono l’un’ a l’altra, come se così morti ritenessero l’odio antico. Essendo dunque la fiamma, che Dante vedea venir, divisa, dice che parea surger dalla pira, ove furon posti questi due fratelli, perché in due similmente era divisa.

    Canto XXVII. Ancora il poeta in questo canto narra le pene dell’ottava bolgia delli fraudolenti consiglieri. In questo 27° canto il poeta dimostra, come partito Ulisse da loro si voltarono ad un’altra fiamma, che veniva doppo quella, dalla quale intesero che era il conte Guido da Monte Feltro, il quale induce poi a dire perché sia quivi dannato.

    Canto XXVIII. Ne’ dua precedenti canti ha trattato il poeta de’ fraudolenti consiglieri et hora tratta della nona bolgia, nella quale pone che siano puniti i seminatori di scandali e di scisme, e d’heresie. Costoro perché con lor fraude hanno distrutti e separati quelli che prima viveano congionti, meritamente hanno per pena i lor membri esser separati, divisi e stracciati più, e meno, secondo che maggiori, o minori discordie hanno seminato. Tra questi finge haver trovato Macommetto, Piero da Medicina curio, il Mosca e Piero del Bornia.

    [Inf. XXVII, 134] Bertran dal Bornio. Costui dicono esser stato inglese, altri dicono Guascone, e mandato da Arrigo re d’Inghilterra in corte del re di Fricia a governo di Giovanni suo figliolo cognominato Giovene, il quale essendo fuor di modo splendido e liberale, il Re suo padre molto si tenea gravato, non potendo supplire a tante larghe spese; dalle quali non volendo rimanersi, et meno esser disposto di tornar a casa, il padre pensò di assegnarli una parte del regno, delle cui entrate potesse honoratamente vivere, e così fece. Ma non supplendo alla generosità del giovane, fu consigliato da Beltran dal Bornio a tornar in Inghilterra, e quivi poi a mover guerra al padre, il che sentendo il Re venne con valido essercito contra di lui et assediollo in Altaforte, dalla qual terra uscendo un dì il giovane a combattere et essendosi molto valorosamente portato fu ferito a morte da un’ che li scaricò adosso una balestra, la qual cosa intendendo il padre la tollerò impatientissimamente e massime quando intese da Beltran la virtù, magnificentia, signoria ch’era in lui» (fol. 24 verso)

    Versi della Divina Commedia copiati: Inf. XXVI, 1-6; 13-60; 64-66; 76-90; Inf. XXVII, 1-6; 22-24; 29-30; 55-60; 67-84; 112-120; Inf. XXVIII, 1-42; 64-75; 103-108; 118-141
    Versi della Divina Commedia illustrati: Inf. XXVI, 31-33; 40-48; 52-57; Inf. XXVIII, 22-44; 64-90; 103-108; 118-129

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  • 29/31
    Ottavo cerchio, decima bolgia: Falsatori di metalli, di persone, di monete e di parole

    Inferno, Canti XXIX-XXXI

    GDSU inv. 3499 F

    "Quando noi fummo sor l’ultima chiostra
    di Malebolge, sì che i suoi conversi
    potean parere a la veduta nostra,

    lamenti saettaron me diversi,
    che di pietà ferrati avean li strali;
    ond’io li orecchi con le man copersi.

    Qual dolor fora, se de li spedali,
    di Valdichiana tra ’l luglio e ’l settembre
    e di Maremma e di Sardigna i mali

    fossero in una fossa tutti ’nsembre,
    tal era quivi, e tal puzzo n’usciva
    qual suol venir de le marcite membre."

    Nella decima e ultima bolgia, Dante e Virgilio assistono alla punizione dei ‘falsatori’, denominazione quest’ultima riferita a quattro diversi gruppi di dannati: gli alchimisti o falsatori di metalli, gli impostori o falsatori di persone, i calunniatori o falsatori della parola e infine i falsatori di moneta. I primi sono puniti con l’insorgere di una sorta di scabbia lebbrosa che ricopre loro il corpo di croste, i secondi con una follia rabbiosa, i terzi con una febbre altissima e i quarti con l’idropisia, che fa loro gonfiare il ventre e soffrire il tormento della sete. Il cartiglio in alto fornisce i dettagli della scena: Alchimisti et falsari, e della propria persona e [del] parlare. La p.[ena] loro diversa, Chi cruciati et afliti da infinita lepra et pestiferi morbi, e chi corre rabbioso mordendo altri hidropici con instinguibile sete.

    Il disegno mostra Dante e Virgilio che discendono nella bolgia mentre contemplano con orrore lo spettacolo che si offre ai loro occhi: gruppi di dannati corrono in preda a una furia cieca, alcuni addentano i vicini, altri si contorcono in preda a malattie orribili, tutti ammassati l’uno sull’altro. Dante si copre le orecchie per non sentire le parole turpi che si levano dalla turba; ai piedi della scala, i due poeti incontrano poi maestro Adamo da Romena, un falsario di Fiorini, che mostra il ventre gonfio di un idropico; sulla destra, infine, essi sono nuovamente rappresentati mentre procedono in lontananza verso il cerchio successivo.

    Commento di Federico Zuccari: «Canto XXIX. Partito il poeta dalla nona bolgia e seguitando la sua via, giunse sul ponte, che soprastava alla decima bolgia, ove sentì varij lamenti e diverse strida fatti da gli alchimisti e falsarij, che si punivano in quella, quali erano cruciati et afflitti da infinita lepra e pestiferi morbi, e di costoro introduce a parlare Grisolino d’Arezzo e Capocchio da Siena, i quali ragionano della vanità e boria de’ Senesi.

    [Inf. XXIX, 66] Egina. Egina è un’isola, nella quale habitò Eaco figliol di Giove, e ne’ suoi tempi fu tanta e sì grave pestilenza, che l’isola ne restò desolata, per il che pregò Eaco il suo padre che gli dessi la morte o gli restituisse il popolo perduto. Di poi andando per l’isola, vidde infinito numero di formiche salire e scendere d’una quercia e desiderò che quelle divenissero il suo popolo, né più presto hebbe il desire, che subbito Giove l’adempié e convertì le formiche in homini.

    [Inf. XXIX, 66] Diverse biche. Cioè varie torme. Bica propriamente, è quella che fa l’agricoltore su campi di gran segato o di paglia battuta o altra cosa simile.

    [Inf. XXIX, 109] Io fui d’Arezzo. Costui dicono che fu maestro Grisolino d’Arezzo alchimista molto famoso, il quale prendendosi gioco d’Albero figliolo del vescovo di Siena, che simplicissimo e molto credulo era, li fece credere che sapeva volare, e pregato molto strettamente da lui, promise d’insegnarli il modo, molto tempo tenendolo in questo desiderio. Ma ultimamente avvedutosi Albero d’esser beffato, lo fece intendere al vescovo, il quale lo fece brusciare come negromante.

    [Inf. XXIX, 125] Tranne lo Strica. Questo dice lo spirito per ironia, volendo dimostrare che per boria e vanità lo Strica fu sì prodigo, che consumò tutte le sue sustantie; perché al tempo di Dante fu in Siena una compagnia di ricchissimi gioveni, i quali messero in denari tutte le sustantie loro e feronne un cumulo di ducento mila ducati, e poi si dettero a far conviti, e per boria facevano molte lussuriose e superbe spese, così nel convitare come nel cavalcare e nel vestire a livrea loro et i famigli, et eravi chi ferrava i cavalli d’argento, di modo che furon detti la brigata godereccia, ma in venti mesi consumerono ogni loro sustanza, onde rimasero tutti poveri.

    [Inf. XXIX, 127] E Nicolò. Costui dicono che fu de’ Salimbeni, e di continuo studiava con ogni ingegno trovar nuove e sontuose vivande in sorte che faceva cuocere i fagiani e gl’arrosti delicati alla bragia de’ garofani arsi.

    Canto XXX. Di sopra il poeta trattò di quelli che havevano falsificato i metalli, e diede loro conveniente pena al delitto. Hora in questo dopo certa similitudine vien a trattar di tre altre specie di falsarij, cioè di quelli, che hanno falsificato le proprie persone, fingendo sé esser altri, per il che rabbiosamente corrono per la valle, mordendo quelli che havevano falsificate le monete, i quali erano la seconda specie che qui tratta, e per pena sono hidropici con inestinguibil sete. La terza specie è di quelli havevano falsificato il parlare, per la qual cosa ardevano d’acutissima febre, e giacevano l’un sopra l’altro.

    [Inf. XXX, 32] Gianni Schicchi fu molto atto a contrafare ciò che voleva e fu grand’amico di misser Simone Donati, di modo che essendo morto messer Buoso Donati molto ricco, senza far testamento et havendo più stretti parenti che Simone, i quali succedevano. Simone, per diventar herede, nascose il corpo di messer Buoso, et fè che Gianni Schicchi entrò nel letto, e contrafacendo messer Buoso fece testamento lassando herede Simone Donati.

    [Inf. XXX, 61] Maestro Adamo fu da Brescia et ottimo monetieri, ma per somma avaritia convenne co’ Conti di Romena, e secretamente falsificò quivi il fiorin d’oro, il quale da un lato ha l’immagine di San Giovan Battista e dall’altro il giglio fiorentino, alla fine discoperta la falsità, fu preso et arso» (fol. 25 verso)

    Versi della Divina Commedia copiati: Inf. XXIX, 1-3; 40-69; 73-84; 100-102; 106-139; Inf. XXX, 22-105
    Versi della Divina Commedia illustrati: Inf. XXIX, 37-84; Inf. XXX, 22-29; 49-54; 91-108; Inf. XXXI, 7-9; 19-20

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  • 30/31
    Nono cerchio: i giganti

    Inferno, Canti XXXI-XXXII

    GDSU inv. 3500 F

    "Come quando la nebbia si dissipa,
    lo sguardo a poco a poco raffigura
    ciò che cela ’l vapor che l’aere stipa,

    così forando l’aura grossa e scura,
    più e più appressando ver’ la sponda,
    fuggiemi errore e cresciemi paura;

    però che come su la cerchia tonda
    Montereggion di torri si corona,
    così la proda che ’l pozzo circonda

    torreggiavan di mezza la persona
    li orribili giganti, cui minaccia
    Giove del cielo ancora quando tuona."

    Giunti nel nono cerchio, Dante e Virgilio si trovano di fronte ai giganti che si ribellarono contro Dio in un impeto di superbia e sono ora confitti e incatenati entro il pozzo centrale dell’Inferno. Il primo di essi è Nembrot, re di Babilonia, che fece costruire la torre di Babele e ordinò che essa fosse tanto alta da raggiungere il cielo. La sua presunzione fu punita da Dio, che confuse le lingue delle genti e vanificò il folle disegno.

    Il secondo gigante, ancora più grande e più feroce di Nembrot, è Fialte, che si distinse nella lotta dei Titani contro Giove ed è saldamente avvinto da una catena che lo cinge dal collo in giù. Il terzo è Anteo, che si sofferma a conversare con i due poeti e infine li solleva e li depone nel fondo del pozzo, presso il lago ghiacciato di Cocito.

    Federico Zuccari ha raffigurato in questo disegno Dante e Virgilio, a sinistra, che giungono di fronte ai giganti sprofondati entro più pozzi: al centro sono probabilmente Fialte, cinto da catene, e Anteo, che si china e si protende verso di loro come se fosse la torre Garisenda di Bologna. A destra si intravede in lontananza Anteo che ha caricato i due poeti sulla sua spalla per deporli sul lago di Cocito.

    Commento di Federico Zuccari: «Canto XXXI. Altro non dimostra qui il poeta se non che partiti dalla decima bolgia, ch’era l’ultima di quelle nelle quali era diviso l’ottavo cerchio, attraversarono la riva di quelle, andando verso il nono cerchio, da lui altramente detto pozzo, il quale viddero circondato da più giganti, che stavano intorno a la sua sboccatura dal mezzo in su, come sogliono star di tanto in tanto spatio le torri intorno a città o castello. Di questi mostra ch’hebbe notitia di Nembrot, di Fialte, e di Anteo, dal quale furon calati e posti giù nel fondo del pozzo.

    [Inf. XXXI, 77] Nembrotto figliolo di Can figliolo di Noè, come si legge all’XI del Genesi, essendosi per la sua superbia ribellato da Dio, e temendo che per punirlo mandasse un’altra volta il diluvio, come haveva fatto al tempo del padre, si consigliò co’ suoi nella prataria di Sannaar di fabricar la torre di Babel tanto alta che il diluvio non li potesse nocere, e che per quella potessi ascendere al cielo. Di che adiratosi Dio contro di lui, mandò tra gl’architettori della torre la diversità delle lingue, acciò che l’uno non sapesse intender l’altro.

    [Inf. XXXI, 113] Cinque alle sono dieci braccia, perché alle è voce formata di questa francese aulnè, che significa misura di dua braccia.

    [Inf. XXXI, 136] Carisenda. La Carisenda è una torre in Bologna, hoggi detta dell’Agnello, la qual pende molto forte, e quando passano sopra di quella nuvoli che corrino contro del suo pendere pare a quelli che li sono sotto, ch’ella caggia.

    Canto XXXII. Perché il poeta ha diviso questo nono cerchio in quattro sfere, l’una detta Caina, l’altra Antenora, la terza Tolomea, l’ultima Giudaica. In questo canto parla della prima, et in parte della seconda, dove sono puniti i traditori.

    [Inf. XXXII, 26] Austericch. Austria freddissima parte d’Alemagna.

    [Inf. XXXIII, 27] Tanai. Fiume settentrionale.

    [Inf. XXXII, 29] Pietrapana. Altissimo monte in Garfagnana non lontano da Lucca.

    [Inf. XXXIII, 30] Cricch. È un romore simile a quello che si fa quando si squarcia il raso.

    [Inf. XXXII, 36] Mettendo i denti in nota di cicogna. Cioè mettendo i denti in canto di cicogna, perché dibattendo i denti per lo freddo faceano quel sono che fa la cicogna quando dibatte l’una parte con l’altra del suo becco» (fol. 26 verso)

    Versi della Divina Commedia copiati: Inf. XXXI, 7-9; 19-48; 58-60; 77-78; 83-96; 112-123; 130-145; Inf. XXXII, 16-48; 70-111
    Versi della Divina Commedia illustrati: Inf. XXXI, 31-33; 67-76; 84-90; 100-102; 136-145

    Audiodescrizione

  • 31/31
    Nono cerchio: Lucifero

    Inferno, Canti XXXII-XXXIV

    GDSU inv. 3501 F

    "Com’io divenni allor gelato e fioco,
    nol dimandar, lettor, ch’i’ non lo scrivo,
    però ch’ogne parlar sarebbe poco.

    Io non mori’ e non rimasi vivo:
    pensa oggimai per te, s’hai fior d’ingegno,
    qual io divenni, d’uno e d’altro privo.

    Lo ’mperador del doloroso regno
    da mezzo ’l petto uscìa fuor de la ghiaccia;
    e più con un gigante io mi convegno,

    che i giganti non fan con le sue braccia:
    vedi oggimai quant’esser dee quel tutto
    ch’a così fatta parte si confaccia."

    Entrati nell’ultima zona del lago ghiacciato di Cocito, dove sono puniti i traditori dei benefattori, Dante e Virgilio, a sinistra, si appressano a Lucifero: il mostro ha tre facce unite in una testa sola, con tre bocche nelle quali vengono stritolati in eterno i tre supremi traditori della Chiesa e dell’Impero: Giuda, il traditore di Cristo, e Bruto e Cassio, i traditori di Cesare. Nella sequenza narrativa che procede da sinistra a destra, i due poeti appaiono successivamente aggrappati ai peli del mostro; giunti nel fondo dell’Inferno, il pittore, capovolgendo la raffigurazione sull’asse mediano della carta, li raffigura sul lato opposto mentre risalgono verso l’emisfero australe ed escono infine ‘a riveder le stelle’.

    L’ultimo disegno di Zuccari per questa Cantica è realizzato con lievi segni a penna e inchiostro bruno su precedenti tracce di pietra rossa che conferiscono alla carta l’aspetto di un’opera non finita, nella quale l’immaginazione dell’osservatore è forzata a ricreare le sembianze terribili dell’Anticristo e del lago di ghiaccio in cui egli è sprofondato fino al petto.

    Commento di Federico Zuccari: «[Inf. XXXII, 130] Tideo. In la guerra di Thebe fu in favore di Pollinice e combattendo contro Menalippo thebano, Menalippo ferì Tideo, e Tideo l’occise, vedendo poi Tideo la sua ferita esser mortale, si fece recar il capo del morto Menalippo, e quello per grandissima ira e rabbia rose tutto co’ denti.

    Canto XXXIII. Consuma il poeta gran parte di questo canto in narrar le circonstanze della morte del conte Ugolino e de’ suoi figlioli, pur facendola raccontare a esso conte, che rodeva il capo a un altro peccatore, che era l’arcivescovo Ruggieri, per opera del quale egli et essi suoi figlioli furon condotti a sì crudelissima morte. Tratta poi della terza sphera detta Tolemea, nella qual pone che siano puniti quelli che sotto spetie di benevolentia hanno tradito i pari loro benefattori, e tra questi finge haver trovato l’ombra di frate Alberigo.

    [Inf. XXXIII, 118] Frate Alberigo fu de i Manfredi signori di Faenza, e fecesi Frate Gaudente; questi Frati Gaudenti dicono che furono certi gentilhomini in Bologna, in Modena e Reggio, ch’erano molto ricchi et abundanti quasi de tutti beni, e per liberarsi dalle commun gravezze et viver in otio, supplicaro, et ottennero da Urbano quarto di poter costituire nova religione sotto titoli de’ frati di Santa Maria, offerendosi per acquistar credito esser pronti a combattere per la fede contro gl’infedeli, e tutti quelli che violassero la giustitia. Non havendo poi propria religione, nella quale vivessero in fraternità, ma ciascuno si stava nella propria casa con la sua donna e figlioli, vivendo splendidissimamente, in breve tempo furon nomati dal vulgo non più frati di Santa Maria, ma Frati Gaudenti; contra costoro havendo lite il sopradetto frate Alberigo, come desideroso di farli morire, finse di riconciliarsi con quelli, e fatta la pace, fece a tutti un splendido convito, in fine del quale commandò che portassero le frutta, e questo era segno a quelli che li doveano uccidere; i quali entrati nel convito, occisero di tutto el numero, chi frate Alberigo havea determinato che morisse.

    Canto XXXIV. In questo ultimo canto tratta il poeta dell’ultima sphera detta Giudaica, et in quella pone che siano puniti coloro che hanno tradito i lor benefattori, e nel mezzo detta sphera finge che sia posto Lucifero, descrivendo la sua statura e forma, fingendo ch’habbi tre faccie e che da ogni bocca di quelle dirompa co’ denti un peccatore, nomando quei peccatori l’un Cassio, l’altro Bruto e l’altro Giuda. Ultimamente havendo passato il centro, ch’era in mezzo di Lucifero, passorono per il dosso di detto Lucifero, e salirono per un segreto camino in la superficie della terra dell’altro hemispero, dal qual luogo si conducono in Purgatorio.

    [Inf. XXXIV, 1] Vexilla regis. Questi sono parole che Vergilio dice a Dante, vedendo l’ale di Lucifero, e significano l’insegne, così chiamando quelle ale del re dell’Inferno, che appariscono.

    [Inf. XXXIV, 45] Ove ‘l Nilo s’avalla. Cioè ove ‘l Nilo discende, intendendo gl’Ethiopi, che son neri» (fol. 27 verso)

    Versi della Divina Commedia copiati: Inf. XXXII, 124-139; Inf. XXXIII, 1-93; 109-120; Inf. XXXIV, 1-9; 16-29; 34-139
    Versi della Divina Commedia illustrati: Inf. XXXIV, 28-38; 46-99

    Audiodescrizione

Dante Istoriato. Inferno

La Divina Commedia illustrata da Federico Zuccari

CREDITS

Progetto a cura di Donatella Fratini
Introduzione di Eike D. Schmidt
Testi di Donatella Fratini
Coordinamento: Patrizia Naldini
Editing web: Patrizia Naldini, Simone Rovida, Chiara Ulivi
Campagna fotografica realizzata da Roberto Palermo

 

AUDIODESCRIZIONI

Le Gallerie degli Uffizi e la RAI Pubblica Utilità mettono a disposizione del pubblico audiodescrizioni di numerosi disegni che compongono la mostra, alle quali accedere cliccando sulla parola "Audiodescrizione" che compare nel testo delle slide. Clicca qui per maggiori informazioni.

Credits
Progetto audiodescrizioni a cura di Rai Pubblica Utilità
Coordinamento Rai Pubblica Utilità: Maria Chiara Andriello, Rosa Coscia, Valentina Gerardi
Coordinamento Gallerie degli Uffizi: Francesca Sborgi, Anna Soffici, Alessandra Vergari, Vera Laura Verona
Adattamento testi a cura di Luca della Bianca
Revisione testi: Laura Donati, Donatella Fratini
Web design: Andrea Biotti
Voce di Federico Pacifici

 

NOTE

Nella trascrizione del Commentario di Federico Zuccari si è cercato di facilitare la lettura seguendo l’uso moderno degli accenti, apostrofi, segni d’interpunzione, maiuscole, minuscole, nella divisione delle parole e nella distinzione tra u e v.
Ogni immagine della mostra virtuale può essere ingrandita per una visione più dettagliata.

Data di pubblicazione: 1 gennaio 2021

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