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Dante Istoriato. Purgatorio

  • Dante Istoriato. Purgatorio

    La Divina Commedia illustrata da Federico Zuccari

    Dante Istoriato. Purgatorio
  • 1/50
    Introduzione

    Negli ultimi mesi del 1586, presso il monastero reale di El Escorial in Spagna, Federico Zuccari proseguì pazientemente l’illustrazione del viaggio dantesco nell’oltretomba, che dopo la spaventosa topografia dell’Inferno si apprestava ad affrontare le più tenui atmosfere del Purgatorio.

    Nella geografia della Commedia, la montagna dedicata all’espiazione dei peccati sorge su un’isola al centro dell’emisfero australe, interamente circondata dalle acque; i suoi fianchi digradano in sette terrazze concentriche, ciascuna riservata alla purificazione di uno dei sette peccati capitali; sulla cima si trova il Paradiso terrestre, allietato da un’eterna primavera.

    Se le tenebre e le cupe vampe dell’Inferno avevano suggerito a Zuccari l’uso della tecnica grafica a due colori, affidando alla pietra rossa e alla pietra nera il compito di tradurre la drammatica luce dell’Averno, il Purgatorio è invece l’unico dei tre mondi ultraterreni visitati da Dante che sorge sulla terra ed è perciò illuminato dalla luce del sole. Riflettendo sull’assetto da conferire a questa cantica, Zuccari si trovò quindi di fronte a una scelta di tipo tecnico: quale mezzo grafico utilizzare per marcare la differenza rispetto agli altri due mondi ultraterreni?

    A guidare il lavoro del pittore furono forse alcune considerazioni che egli stava maturando circa il modo di allestire una scena facendo ricorso a fonti luminose diverse: quella solare, quella artificiale in tutte le sue molteplici varianti e infine quella soprannaturale, emanata da Dio. Nella visualizzazione dei canti del Purgatorio, Zuccari optò quindi per l’uso della penna e dell’inchiostro bruno, talvolta leggermente acquerellato: una tecnica grafica, questa, che era tradizionalmente utilizzata in ambito fiorentino per rappresentare i corpi in condizioni di illuminazione ambientale omogenea.

    L’unica variante significativa si riscontra nelle illustrazioni del Paradiso terrestre, che, come quelle dei Campi Elisi all’interno del Limbo, furono realizzate con la prevalenza della pietra rossa. Il mutamento del mezzo tecnico venne forse motivato dall’intenzione di ottenere una traduzione più convincente delle atmosfere irreali di questo luogo primitivo di purezza e candore. Negli stessi fogli si assiste anche a un significativo cambiamento nel formato delle carte, che si discosta dalla misura media fin qui utilizzata (430 x 580 mm circa) per tendere a una lunga sequenza orizzontale, con il grande Trionfo della Chiesa che raggiunge dimensioni davvero eccezionali (480 x 1490 mm circa).

    Al Purgatorio, come è già stato osservato, è dedicato il maggior numero delle tavole prodotte da Zuccari. Il motivo della predilezione accordata a questa cantica sembra essere duplice: da un lato, sul finire del Cinquecento, prevale, soprattutto a Firenze, l’interpretazione etico-pedagogica della Commedia; non è quindi l’Inferno, dove è illustrato il vizio, a raccogliere i più vasti consensi, come avverrà dal Romanticismo in poi, bensì la seconda cantica, dove si illustra il passaggio dal vizio alla virtù. Non a caso, la maggior parte delle letture dantesche che si tenevano periodicamente nell’Accademia Fiorentina ebbe per soggetto i canti del Purgatorio; alcune di esse devono essere state molto apprezzate dallo stesso Zuccari, che negli anni trascorsi nella capitale medicea ebbe modo di stringere legami con l’ambiente artistico e intellettuale cittadino.

    In secondo luogo, le raffigurazioni della seconda cantica prendono definitivamente le distanze dall’illustrazione simultanea, cara alla tradizione manoscritta più antica. Il numero di scene rappresentate in ogni foglio tende a restringersi fino all’unità di luogo, di tempo e di azione; la lettura planare dei disegni consente così al pittore di ridurre a brevi chiose i commenti ai relativi passi danteschi.

    Aumentano infine nelle tavole le trascrizioni delle terzine dantesche disposte secondo un ordine che sembra dapprima orientato a visualizzare i dialoghi tra i personaggi, e successivamente ad organizzare il contenuto delle illustrazioni mediante un fitto colloquio tra parola e immagine.

    Audiodescrizione

  • 2/50
    L’antipurgatorio. Catone

    Purgatorio, Canto I

    GDSU inv. 3502 F

    Dolce color d’oriental zaffiro,
    che s’accoglieva nel sereno aspetto
    del mezzo, puro infino al primo giro,

    a li occhi miei ricominciò diletto,
    tosto ch’io usci’ fuor de l’aura morta
    che m’avea contristati li occhi e ‘l petto.

    Emersi dallo stretto passaggio che dal punto più basso dell’Inferno risale verso l’emisfero australe, Dante e Virgilio, a sinistra, giungono sulla spiaggia del Purgatorio: è mattino, e la luce dell’alba s’insinua lentamente nel cielo punteggiato di stelle, suscitando nel poeta un sentimento di grande commozione.

    Federico Zuccari affida al sottostante cartiglio il compito di illustrare questo complesso passaggio narrativo, trascrivendovi gli ultimi versi della precedente cantica:

    Lo duca, et io per quel camino ascoso
    intrammo a ritornar nel chiaro mondo,
    et sanza cura haver d’alcun riposo

    salimmo su, ei primo, et io secondo.
    Tanto ch’i’ vidi de le cose belle,
    che porta ’l ciel per un pertugio tondo;

    Et quindi uscimmo a riveder le stelle.

    Sulla spiaggia, a destra, attende i due poeti la veneranda figura di Catone l’Uticense: costui è stato tratto dal Limbo quale esempio di virtù e di perfezione morale, assieme ai Patriarchi della religione cristiana, per assurgere al ruolo di guardiano del Purgatorio. Credendoli due dannati fuggiti dall’Inferno, Catone interroga gli estranei con tono severo, subito mitigato da Virgilio che gli espone le ragioni del loro viaggio.

    Il dialogo che si svolge tra i personaggi venne inizialmente trascritto da Zuccari nella parte centrale del foglio; poi, per una variazione in corso d’opera, fu occultato con una striscia di carta e ritrascritto nella fascia superiore della tavola al fine di conferire maggiore respiro all’immagine.

    Chi siete voi; che contra’ l cieco fiume
    fuggit’ havete la prigione eterna,
    disse ei movendo quell’honeste piume.

    v’ha guidati, o chi vi fu lucerna
    uscendo fuor de la profonda notte
    che sempre nera fa la valle inferna,

    Son le leggi d’abisso così rotte,
    o è mutato in ciel novo consiglio;
    che danati venite a le mie grotte.

    Lo duca mio allhor mi diè di piglio;
    et con parole, et con mano, et con cenni
    reverenti mi fé le gambe, e ‘l ciglio;

    Poscia rispose lui; Da me non venni:
    donna scese del ciel per li cui prieghi
    de la mia compagnia costui sovenni. […]

    Mostrat’ho lui tutta la gente ria;
    et hora ‘ntendo mostrar quelli spirti,
    che purgan sé sotto la tua balìa. […]

    Va’ dunque; et fa che tu costui ricinga
    d’un giunco schietto; et che li lavi ‘l viso,
    sì ch’ogni succidume quindi stinga.

    Per affrontare la salita al Purgatorio, Catone istruisce Virgilio sul modo di preparare Dante: deve prima lavargli il viso per eliminare la caligine dell’Inferno, poi cingerlo con un giunco, simbolo di umiltà. All’estrema destra del foglio, si vede quindi Virgilio pulire il viso di Dante con la rugiada raccolta sull’erba, come spiega il cartiglio posto sopra le due figure:

    Quando noi fummo, dove la rugiada
    pugna col sol, et per esser in parte
    ove adorezza, poco si dirada,

    ambo le mani in su l’erbetta sparte
    soavemente ‘l mio maestro pose,
    ond’io, che fui accorto di su’ arte,

    porsi ver lui le guance lagrimose:
    quivi mi fece tutto discoverto
    quel color, che l’inferno mi nascose.

    Nell’ultima scena, poco più in basso, Virgilio è raffigurato mentre cinge Dante con il giunco raccolto sulla riva del Purgatorio; la scena è accompagnata dagli ultimi versi del primo canto:

    Venimmo poi in su ‘l lito diserto,
    che mai non vide navicar sue acque
    huom, che di ritornar sia poscia esperto.

    Quivi mi cinse sì com’altrui piacque:
    o’ maraviglia; ché qual egli scielse
    l’humile pianta; cotal si rinacque

    subitamente là, onde la avelse.

    Commento di Federico Zuccari: «Canto I. Il poeta seguita il lassato proposito in fine della precedente cantica, e prima descrive nel presente canto il diletto, che presero i suoi occhi del sereno aere dell’altro hemisferio, tosto ch’egli uscì fuori dell’oscure, calliginose tenebre dell’Inferno, alla superficie della Terra, trovandosi nell’isola del Purgatorio a riveder le stelle nell’hora mattutina, la qual poeticamente descrive. Narra poi come volgendosi a destra verso l’antartico polo vidde quattro d’esse stelle oltra l’altre lucenti e chiare, che rotavano intorno a esso polo, e che voltatosi poi su la sinistra verso il nostro artico, vidde l’ombra di Catone Uticense presso di sé, e descrive il grave e reverendo aspetto di quello, dal quale domandati della conditione loro, e da Virgilio intesa, [ch]e come mosso a’ prieghi di Beatrice havea condotto Dante per l’Inferno, et intendeva di condurlo, pur ch’egli lo concedessi, per li sette regni del Purgatorio, al quale lui era posto in guardia; onde subbito Catone li ammonì di quanto havevano da fare, e sparì via, et essi presero la via verso la marina, e lavato ch’hebbe Virgilio il viso a Dante di rugiada, lo cinse poi, giunti al lito del mare, d’uno schietto giunco, come da Catone gl’era stato imposto.

    [Purg. I, 11] Le Piche furono nove figliole di Piero della città di Pella, dottissime in molte e diverse arti; ma tanto temerarie e superbe che ardiro nel canto volersi preporre alle Muse, per il che andarono in Parnaso a trovarle presso al fonte Pegaseo, e quivi con gravi ingiurie le provocorno a cantare. Ma data la commissione a Calliopea, una delle nove Muse, di lunga le vinse, e per conveniente pena le convertì in Piche, il quale è ucello garrolo, e che facilmente impara a parlare» (fol. 28 verso)

    Versi della Divina Commedia copiati: Purg. I, 1-39; 40-54; 64-66; 121-136; Inf. XXXIV, 133-139
    Versi della Divina Commedia illustrati: Inf. XXXIV, 133-139; Purg. I, 23; 31-36; 49-51; 127-136

    Audiodescrizione

  • 3/50
    Antipurgatorio. Angelo nocchiero

    Purgatorio, Canti I-II

    GDSU inv. 3561 F

    Il Purgatorio è senz’altro la cantica della Commedia su cui Federico Zuccari ha avuto occasione di riflettere più a lungo, come dimostra non solo il considerevole numero di illustrazioni dedicate ai trentaquattro canti corrispondenti, ma anche la quantità di pentimenti e di rifacimenti che hanno interessato in varia misura i disegni.

    Quest’illustrazione, che rappresenta l’arrivo della nave con le anime del Purgatorio scortate dall’angelo nocchiero, è infatti rimasta incompiuta e, ad un certo stadio del processo creativo, è stata sostituita con l’illustrazione seguente, che presenta una diversa soluzione compositiva della scena.

    Nella sequenza narrativa che procede da sinistra verso destra, il disegno mostra Dante e Virgilio che si dirigono verso la marina attratti dall’arrivo della nave guidata dall’angelo nocchiero, rimasta allo stato di abbozzo nella parte del foglio in basso a destra.

    La tavola è priva del commento e dei versi di corredo.

    Versi della Divina Commedia illustrati: Purg. I, 133; Purg. II, 10-12; 28-33; 37-51

    Audiodescrizione

  • 4/50
    Antipurgatorio. L’Angelo nocchiero

    Purgatorio, Canto II

    GDSU inv. 3503 F

    Da poppa stava ‘l celestial nocchiero
    tal, che farea beato per iscritto;
    et più di cento spirti entro sediero.

    In exitu Israel de Egitto
    cantavan tutti insieme ad una voce
    con quanto di quel salmo è poi scritto.

    Poi fece ‘l segno lor di santa croce;
    ond’ei si gittar tuti in su la piaggia;
    et ei sen gì, come venne veloce.

    Con queste terzine, trascritte nel cartiglio in alto, viene introdotto il tema dell’illustrazione, ovvero l’arrivo del ‘vascello snello e leggero’ che traghetta le anime dalla foce del Tevere fino all’isola del Purgatorio. Rispetto alla prima redazione della tavola, rimasta incompiuta e poi accantonata, l’attenzione della scena è interamente rivolta verso la barca delle anime in virtù dell’eliminazione delle scene secondarie.

    A sinistra Dante e Virgilio, uno in piedi e l’altro inginocchiato, contemplano l’apparizione, così illustrata dal cartiglio corrispondente:

    Gridò: Fa, fa che le ginocchia cali.
    Ecco l’angel di Dio; piega le mani;
    homai vedrai di sì fatti officiali. […]

    Poi, come più et più verso noi venne
    l’uccel divino; più chiaro appariva:
    perché l’occhio da presso nol sostenne,

    ma china i giuso; et quei sen venne a riva
    con un vassello snelletto et leggiero,
    tanto, che l’acqua nulla ne ‘nghiottiva.

    Commento di Federico Zuccari: «Canto II. Doppo la descrittione del principio della prima hora del dì il poeta nel presente canto dimostra, come essendo ancora lungo il lito del mare (ove in fine del precedente canto habbiamo veduto che Virgilio l’havea ricinto dello schietto giunco) vidde lontano venire per mare in veloce e leggiero vascello un angelo, che conduceva dal porto d’Hostia di foce di Tevere anime, che venivano a purgarsi. Fra le quali scesi che furono su l’isola, Dante riconosce Casella sua amico, come più distintamente si vedrà figurato nel seguente foglio» (fol. 29 verso)

    Versi della Divina Commedia copiati: Purg. II, 28-30; 37-51
    Versi della Divina Commedia illustrati Purg. II, 28-33; 37-51

    Audiodescrizione

  • 5/50
    Antipurgatorio. Incontro di Dante con Casella

    Purgatorio, Canto II

    GDSU inv. 3504 F

    Amor, che ne la mente mi ragiona
    cominciò egli allhor sì dolcemente,
    che la dolcezza ancor dentro mi sona.

    Lo mio maestro, et io, et quella gente
    ch’eran con lui parevan sì contenti,
    com’ a nessun toccasse altro la mente.

    Il percorso di lettura dell’immagine procede da destra a sinistra: dapprima le ombre, discese dalla barca dell’angelo nocchiero, si accorgono con stupore che Dante è ancora vivo, come precisa il cartiglio in alto:

    L'anime, che si fur di me accorte,
    per lo spirar, ch’io er’ancora vivo;
    maravigliando diventaro smorte.

    Et com’ a’ messaggier, che porta olivo
    tragge la gente, per udir novelle,
    et di calcar nessun si mostra schivo;

    così a’ gli occhi miei s’affisser quelle
    anime fortunate tutte quante,
    quasi obliando d’ir a farsi belle.

    A sinistra, Dante riconosce tra le anime quella di uno dei suoi più cari amici, il musico Casella; il poeta tenta invano di abbracciare la sua ombra, come spiega il cartiglio soprastante, finché, preso atto dell’impossibilità di stringerlo, lo prega di intonare per lui Amor che ne la mente mi ragiona.

    I’ vidi una di lor trarresi avante
    per abbracciarmi con sì grande affetto,
    che mosse me a far lo somigliante.

    O’ ombre vane fuor che nell’aspetto!
    tre volte diet’ a lei le mani avinsi,
    et tante mi tornai con esse al petto.

    Di maraviglia, credo, mi dipinsi;
    per che l’ombra sorise, et si ritrasse,
    et io seguendo lei oltra mi pinsi.

    Commentata da Dante nel Convivio e da lui citata anche nel De vulgari Eloquentia come esempio di perfetta composizione, Amor che ne la mente mi ragione è la canzone che il poeta compose per trovare consolazione dopo la morte di Beatrice.

    Commento di Federico Zuccari: «Sceso che fu il poeta su l’isola, fu riconosciuto da Casella suo amico, e da lui inteso alcune cose di sua conditione e di quella dell’angelo, che quivi l’havea condotti, lo prega che lo voglia alquanto consolare col suo dolce canto, il quale essendo in vita solea usare, e così cantato per alquanto spatio con sommo piacer di lui, di Virgilio, e di tutte quell’anime nuovamente giunte. Quivi sopragiunse l’ombra di Catone, dalla qual ripresi della negligentia e dimora loro, con ammonirle che dovessero senza più indugio correr al monte; partendo esse anime velocemente verso di quello, egli e Virgilio si partiron verso quel luogo non men tosto di loro.

    [Purg. II, 91] Casella fu eccellentissimo musico ne’ tempi di Dante» (fol. 30 verso)

    Versi della Divina Commedia copiati: Purg. II, 67-84; 112-117
    Versi della Divina Commedia illustrati: Purg. II, 76-81; 112-117

    Audiodescrizione

  • 6/50
    Antipurgatorio. Dante e Virgilio alla ricerca di un varco

    Purgatorio, Canto III

    GDSU inv. 3505 F

    Il mio conforto: Perché pur difidi?,
    a dir mi cominciò tutto rivolto;
    non credi tu me teco, et ch’io ti guidi?

    Vespero è già colà, dov’è sepolto
    lo corpo dentro al qual io facev’ombra:
    Napoli l’ha, et da Branditio è tolto.

    Hora se innanzi a me nulla s’adombra,
    non ti maravigliar più che d’i cieli
    che l’un a l’altro raggio non ingombra.

    A sofferir tormenti, caldi et geli
    simili corpi la Virtù dispone
    che, come fa, non vuol ch’a noi si sveli.

    Matto è chi spera che nostra ragione
    possa trascorrer la infinita via
    che tiene una sustanza in tre persone.

    State contenti, humana gente, al quia;
    ché se posut’aveste veder tutto,
    mestier non era parturir Maria;

    et disiar vedeste senza frutto
    tai che sarebbe lor desio quetato,
    ch’eternamente è dato lor per lutto:

    i’ dico d’Aristotile et di Plato
    et di molt’altri»; et qui chinò la fronte,
    et più non disse; et rimase turbato.

    Il disegno reca in alto i versi del III canto del Purgatorio nei quali è descritto lo stupore di Dante di fronte alla constatazione che l’anima di Virgilio e in generale tutte le anime dei morti, per la loro natura immateriale, non sono in grado di proiettare alcuna ombra.

    Sulla sinistra, Dante e Virgilio, lasciata la spiaggia dell’Antipurgatorio nel momento in cui il sole inizia a sorgere, avanzano verso il centro della scena, quando improvvisamente Dante si accorge di avere di fronte a sé unicamente la propria ombra e si volge in cerca del maestro, temendo di essere stato abbandonato. L’episodio è spiegato nel cartiglio a fianco:

    Lo sol, che dietro fiammeggiava roggio,
    rotto m’era dinanz’ a la figura,
    c’haveva in me de’ suoi raggi l’appoggio.

    I’ mi volsi da lato con paura
    d’esser abbandonato, quand’io vidi
    solo dinanz’ a me la terra oscura

    Mentre Virgilio illustra a Dante la sostanza incorporea delle anime, sopraggiunge in lontananza, sulla destra, un gruppo di ombre: si tratta degli scomunicati che si pentirono in vita della propria condotta e che ora, prima di purgarsi, devono restare nell’Antipurgatorio trenta volte il tempo in cui permasero nell’esclusione dalla Chiesa:

    Et mentre che tenendo il viso basso
    essaminava del camin la mente,
    et io mirava suso intorno al sasso,

    da man sinistra m’apparve una gente
    d’anime, che movieno i piè ver’ noi,
    e non parevann, sì venivan lente.

    Leva, diss’io, maestro gli occhi tuoi:
    ecco di qua chi ne darà consiglio,
    se tu da te medesimo haver nol poi.

    Commento di Federico Zuccari: «Canto III. Nel presente canto il poeta dimostra che essendosi quelle anime per le parole di Catone messe in fuga, egli si restrinse a Virgilio, e drizzossi insieme con quello verso ‘l monte, e così andando, essendoli da Virgilio resoluti alcuni dubbij, pervennero a’ piedi di esso monte. Ma per esser quivi la sua costa impossibile a salire, e stando in dubbio da qual mano s’havessero a voltare lungo le radici di quello per trovar la più agevole salita, come da Catone erano stati ammoniti, viddero da sinistra venire una turba d’anime, dalle quali fattosi incontra fu lor detto che per trovar la più lieve salita dovessero tornar in dietro.

    Dante nello andare verso il monte al pari di Virgilio volgeva le spalle al sole, e vedeva l’ombra della sua figura innanzi a sé, ma non veggendo quella di Vergilio, perché era senza corpo, et i raggi del Sole non potevano haver appoggio in lui, si dubbitò d’esser abbandonato da esso Virgilio» (fol. 31 verso)

    Versi della Divina Commedia copiati: Purg. III, 16-45; 55-63
    Versi della Divina Commedia illustrati: Purg. III, 1-4; 16-21; 46-72

    Audiodescrizione

  • 7/50
    Antipurgatorio. Schiera degli scomunicati. Manfredi

    Purgatorio, Canti III-IV

    GDSU, inv. 3506 F

    Ver’ è che quale in contumacia more
    di Santa Chiesa, ancor che al fin si penta,
    star li convien da questa ripa in fuore,

    per ogni tempo che egli è stato, trenta,
    in sua presuntion: se tal decreto
    più corto per buon preghi non diventa.

    Il cartiglio in alto, al centro del foglio, introduce al «Luogo delli interdeti et scomunicati da la Chiesa, fuora del Purgatorio a piè de la montagna», ovvero alla parte dell’Antipurgatorio in cui scontano la loro pena gli scomunicati. Nella prima scena, a destra, Virgilio si arresta presso una turba di anime chiedendo indicazioni sulla strada per salire al primo balzo del Purgatorio, come chiariscono i versi sopra trascritti:

    ditene dove la montagna giace
    sì che possibil sia l’andare in suso;
    ché il perdar tempo a chi più sa più spiace.

    A sinistra, compare tra le anime degli scomunicati la figura di un uomo coronato: si tratta di «Manfredi re di Puglia e di Sici[lia]», come precisa il cartiglio soprastante, che dapprima narra ai due poeti le vicende della propria morte e, subito dopo, chiede a Dante di portare conforto alla figlia Costanza.

    I versi posti sopra la scena alludono al trascorrere del tempo mentre Dante e Virgilio ascoltano rapiti la storia del sovrano:

    Et però quando s’ode cosa o vede
    che tenga forte a sé l’anima volta,
    vassene ‘l tempo e l’huomo non se n’avede

    La sequenza narrativa si conclude infine all’estrema sinistra del foglio, dove un’anima indica ai due poeti la salita verso il Purgatorio, dicendo: Qui è vostro dimando, qui è il luogo che avete chiesto.

    Commento di Federico Zuccari: «Tornando il poeta a dietro con quell’anime che gl’insegnorno la più agevole salita, hebbe lungo ragionamento con Manfredi di Puglia, il quale era uno della detta moltitudine. Poi dimostra come da quelle anime li fu mostro il stretto e ripido calle per il quale dovea salire.

    [Purg. III, 112] Manfredi fu Re di Puglia et homo sceleratissimo, che per li suoi vitij meritò esser scommunicato, e così scommunicato venendo a morte, re Carlo lo fece sotterrare in capo del ponte di Benevento, e da tutti i suoi soldati fece gittare una pietra sopra la sepultura di quello. Di poi il vescovo di Casenza (ch’havea giurato cacciarlo del regno), la qual cosa non potendo fare quando vivea, lo fece essendo morto; e fecelo cavar del capo del ponte di Benevento, e fecelo mettere lungo il Verde, fiume ch’entra nel Tronto non lontano da Ascoli» (fol. 32 verso).

    Versi della Divina Commedia copiati: Purg. III, 76-78; 136-141; Purg. IV, 7-9; 18
    Versi della Divina Commedia illustrati: Purg. III, 103-112

    Audiodescrizione

  • 8/50
    Antipurgatorio. Primo balzo: negligenti. Belacqua

    Purgatorio, Canto IV

    GDSU inv. 3507 F

    Nella sequenza narrativa che procede da destra a sinistra, Dante e Virgilio sono raffigurati dapprima in basso, sul punto di intraprendere la faticosa salita verso il prima balzo; le parole del loro dialogo sono prese in prestito dal poema dantesco:

    Io era lasso, quando cominciai:
    O dolce padre, volgiti, et rimira
    com’i’ rimango sol, se non restai.

    Virgilio risponde:

    Ho figlio, disse, infin quivi ti tira,
    additandomi un balzo poco in sùe
    che da quel lato il poggio tutto gira.

    Sì mi spronaron le parole sue,
    ch’i’ mi sforzai carpando appresso lui,
    tanto che ‘l cinghio sotto i piè mi fue.

    Spronato dalle parole del maestro, Dante si arrampica faticosamente sulla roccia e, giunto infine sul primo balzo, si siede al fianco di Virgilio per osservare il cammino percorso. Le terzine soprastanti danno conto del dialogo tra i due protagonisti:

    Ond’egli a me: Se Castor et Polluce
    fossero ‘n compagnia di quello specchio
    che sù et giù del suo lume conduce,

    tu vedresti ‘l Zudiaco rubecchio
    ancor a l’Orse più stretto rotare,
    se non uscisse fuor del camin vecchio. […]

    Ma se a te piace, volontier saprei
    quanto avemo ad andar; ché ‘l poggio sale
    più che salir non posson li occhi miei».

    Ed elli a me: «Questa montagna è tale,
    che sempre al cominciar di sotto è grave;
    e quant’om più va sù, e men fa male.

    Però, quand’ella ti parrà soave
    tanto, che sù andar ti fia leggero
    com’a seconda giù andar per nave,

    allor sarai al fin d’esto sentiero;
    quivi di riposar l’affanno aspetta.
    Più non rispondo, e questo so per vero».

    A destra, dietro un masso che li nasconde parzialmente alla vista dei poeti, compaiono i negligenti, identificati dall’iscrizione «Accidiosi et negligenti per natura fuora del Purgatorio nel primo giro», ovvero coloro che in vita tardarono a pentirsi dei propri peccati unicamente a causa della propria pigrizia e devono ora attendere nell’Antipurgatorio tanti anni quanti essi vissero prima di pentirsi.

    Il primo personaggio in prossimità del masso è il liutaio fiorentino Belacqua, uno dei tanti affetti che il poeta incontra durante la salita al Purgatorio, al quale rivolge parole colme di affetto:

    Et com’egli hebbe sua parola detta,
    una voce da presso sonò: Forse
    che di sedre in prim’ havrai distreta.

    Al suon di lei ciascun di noi si torse,
    et vedemmo a mancina un gran petrone,
    del qual né io, né ei prima s’accorse.

    Là ci traimmo; et ivi eran persone
    che si stavan a l’ombra dietro al sasso
    come huom per negglienza a star si pone.

    E un di lor, che mi sembiava lasso,
    sedeva et abbracciava le ginocchia,
    tenendo ‘l viso giù tra esse basso.

    O dolce segnior mio, diss’io, addocchia
    colui che mostra sé più negligente
    che se pigritia fosse sua serocchia.

    Allor si volse a noi; et pose mente,
    movendo ‘l viso pur su per la coscia,
    et disse: Va su tu, che se’ valente.

    Commento di Federico Zuccari: «Canto IV. Dimostra il poeta, come con l’aiuto di Virgilio e non senza grandissima difficultà si condusse sopra il monte, salendo dietro Vergilio sopra certo balzo d’una cornice, che da quella parte cingeva il monte, ove voltatosi in drietro verso levante, dalla qual parte eran saliti, e qui posti a sedere, Dante s’avvidde esser ferito dal sinistro lato da i raggi del sole, di che ammiratosi Virgilio li dimostra così esser necessario in quello hemisferio, la qual cosa intesa li domanda dell’altissimo monte e quanto hanno andare per giungere alla cima, e questo ancora inteso per alcune coniecture, udiron una voce da sinistra; verso la quale andando viddero dietro un gran petrone la seconda spetie de’ negligenti» (fol. 33 verso).

    Versi della Divina Commedia copiati: Purg. IV, 43-51; 61-66; 85-114
    Versi della Divina Commedia illustrati: Purg. IV, 31-66; 103-108

    Audiodescrizione

  • 9/50
    Antipurgatorio. Secondo balzo: negligenti morti per violenza

    Purgatorio, Canti IV-V

    GDSU inv. 3508 F

    Noi fummo già tutti per forza morti,
    et peccatori in sino a l’ultima hora;
    quivi lume del ciel ne fece accorti,

    sì che, pentendo et perdonando, fuora
    di vita uscimmo a Dio pacificati,
    che del disio di sé veder n’accora».

    Le varie tappe che segnano la salita di Dante e Virgilio verso la sommità del Purgatorio sono ambientate, con scarse eccezioni, in un paesaggio roccioso nel quale i due protagonisti incontrano i vari personaggi del poema dantesco, procedendo incessantemente da destra verso sinistra.

    In quest’illustrazione, i due poeti sono dapprima raffigurati sulla destra mentre concludono l’incontro con Belacqua, narrato nella tavola precedente. Si vedono quindi, al centro, i negligenti che perirono di morte violenta e si pentirono delle loro colpe soltanto nel momento estremo della vita, segnalati dal cartiglio in alto al centro: «Negligenti. Violentemente occisi, pregano per che altri pregino per loro».

    Tra costoro appaiono gli spiriti di Jacopo del Cassero, Bonconte da Montefeltro e Pia de’ Tolomei, che esorta il poeta a ricordarla con queste parole:

    Deh, quando tu sarai tornato al mondo,
    e riposato de la lunga via,
    seguitò ‘l terzo spirito al secondo,
    ricorditi di me, che son la Pia

    Commento di Federico Zuccari: «Canto V. Partito il poeta da quell’anime, che nel precedente canto habbiamo veduto, e seguitando Vergilio, quelle s’avviddero che egli era vivo, per il che cominciorono fra esse a bisbigliare;la qual cosa guardando Dante, Vergilio lo riprese, per la qual cosa lui tornò a seguitarlo, e così andando al lor camino incontrarono un altro numero d’anime, che havevano indugiato a pentirsi al fine della lor violenta morte. Tra questi riconosce il poeta messer Jacobo dal Cassero da Fano, Buonconte di Montefeltro, e la Pia donna senese, tutti i quali induce a narrare il caso della morte loro.

    [Purg. V, 64] Iacobo Cassero fu da Fano, e venendo podestà di Bologna, disse molto male et ingiuriose parole d’Azone marchese di Ferrara, il che dispiacque tanto al marchese che da quel tempo in là sempre lo fece perseguitare da occulti assassini, e finalmente andando podestà di Milano, navigò da Fano a Venetia, et indi a Padova, e nel contado di Padova nelle paludi, quali sono presso a Oriaco Monte, fu occiso da gl’assassini già detti.

    [Purg. V, 88] Buonconte fu figliolo di messer Guido conte di Montefeltro; costui combattendo contro a’ guelfi, nella rotta di Casentino vi fu morto, e mai non si ritrovò il suo corpo.

    [Purg. V, 133] La Pia. Dicono che fu gentildonna senese della famiglia de’ Tolomei et maritata a messer Nello della Pietra da Siena, la quale come fu creduto, essendo trovata in fallo dal marito, la condusse in Maremma a certe sue possessioni e quivi secretamente l’occise, o la fece uccidere; ma come, non si seppe mai» (fol. 34 verso)

    Versi della Divina Commedia copiati: Purg. IV, 114; 119-120; 127-135; Purg. V, 43-57; 130-133
    Versi della Divina Commedia illustrati: Purg. V, 1-15; 41-57

    Audiodescrizione

  • 10/50
    Antipurgatorio. Secondo balzo: negligenti. Sordello

    Purgatorio, Canti VI-VII

    GDSU inv. 3509 F

    Qual è colui che cosa innanzi sé
    sùbita vede ond’e’ si maraviglia,
    che crede e non, dicendo «Ella è... non è...»,

    tal parve quelli; e poi chinò le ciglia,
    e umilmente ritornò ver’ lui,
    e abbracciòl là ‘ve ‘l minor s’appiglia.

    Ancora nel secondo balzo dell’Antipurgatorio dove espiano le loro colpe i negligenti, identificati dal cartiglio in alto («Giro di negligenti»), i due poeti incontrano l’anima di Sordello da Goito, celebre trovatore mantovano, che abbraccia con affetto Virgilio appena apprende che fu anch’egli originario di Mantova:

    Pur Virgilio si trasse a lei, pregando
    che ne mostrasse la miglior salita;
    e quella non rispuose al suo dimando,

    ma di nostro paese e de la vita
    ci ‘nchiese; e ‘l dolce duca incominciava
    «Mantua...», e l’ombra, tutta in sé romita,

    surse ver’ lui del loco ove pria stava,
    dicendo: «O Mantoano, io son Sordello
    de la tua terra!»; e l’un l’altro abbracciava.

    Commento di Federico Zuccari: «Canto VI. Seguendo il poeta il viaggio con Virgilio, si scontrorno in Sordello mantovano, il quale conoscendo Virgilio essere del suo paese, li fa infinite accoglienze, et havendo Virgilio, per esserne da lui domandato, fatto intendere al Sordello che egli era e di sua conditione, il Sordello lo tornò ad abbracciare con riverenza dove il nutrir si piglia, cioè sotto le braccia, il che è segno di riverenza. Di poi dice a Virgilio che, essendo già sera, era buono di trovar luogo, ove la notte potessero soggiornare, perché di notte e senza il sole non potevano salir il monte, offerendosi di condurli a una vicina valle a veder quelli che per occupationi di signorie e di magistrati havevano differita la penitenza. Ma perché avanti il poeta s’incontrasse in Sordello, dice ch’hebbe fatiga a sbrigarsi da molte anime, che gli s’erano ragunate intorno, però non sarà fuor di proposito discorrere di quelle poi che anco sono figurate nel precedente foglio. Dice dunque il poeta:

    [Purg. VI, 13-24]

    QUIVI ERA L’ARETIN CHE DA LE BRACCIA

    FIERE DI GHIN DI TACCO HEBBE LA

    MORTE,

    E’L'ALTRO CH’ANNEGO CORRENDO IN

    CACCIA.

    QUIVI PREGAVA CON LE MANI SPORTE

    FEDERIGO NOVELLO, E QUEL DA PISA

    CHE FE PARER LO BUON MARZUCCO

    FORTE.

    VIDI CONTE ORSO, E L’ANIMA DIVISA

    DAL CORPO SUO PER ASTIO, E PER

    INVEGGIA,

    COME DICEA NON PER COLPA COMMISA;

    PIER DELLA BROCCIA DICO, E QUI

    PROVEGGIA,

    MENTR’È DI QUA LA DONNA

    DI BRABANTE,

    SÌ CHE PERÒ NON SIA DI PEGGIOR

    GREGGIA

    [Purg. VI, 13] Quivi era l’aretin. Dicono che costui fu Benincasa da Rezzo, il quale, essendo in Siena vicario del podestà, condennò a morte Tunio da Turriti castello de’ senesi e Tacco suo zio, perché con Ghino fratel’ di Tacco havevano rotto e rubbato le strade; andando poi di là a certo tempo a Roma, chi dice giudice del tribuno, chi auditor di rota, bastò l’animo a Ghino, che robustissimo e di grandissimo animo era, d’andar in Roma et in casa di lui alla presentia di molti tagliargli la testa, con ritrarsi a salvamento e portarsela via.

    [Purg. VI, 14] Ghino fu liberalissimo, e dicono che per altro non rubbava che per poter usar liberalità, e che mai consentì alla morte d’alcuno che fosse preso da lui, ma voleva ch’egli stesso si mettesse la taglia, e di quella ancora ne restituiva gran parte, la qual cosa sentendo Bonifatio papa lo domandò a Roma, e fecero Cavvalieri con darli da honor[a]tamente vivere.

    [Purg. VI, 22] Piero della Broccia. Fu secretario e consiglieri di Filippi Bello re di Francia, e perché molto poteva presso del Re, fu per invidia messo da baroni in tanta disgratia della Regina, la quale era di Brabante, che falsamente l’accusò al Re, dicendo che cercava di violare la sua castità, onde il troppo credulo Re lo fece morire» (fol. 35 verso)

    Versi della Divina Commedia copiati: Purg. VI, 13-24; 25-36; 40-42; 67-75; Purg. VII, 10-15
    Versi della Divina Commedia illustrati: Purg. VI, 28-48; 75; Purg. VII, 10-12

    Audiodescrizione

  • 11/50
    Antipurgatorio. Secondo balzo: principi negligenti. Valletta amena

    Purgatorio, Canto VII

    GDSU, inv. 3510 F

    Colui che più siede alto e fa sembianti
    d’aver negletto ciò che far dovea,
    e che non move bocca a li altrui canti,

    Rodolfo imperador fu, che potea
    sanar le piaghe c’hanno Italia morta,
    sì che tardi per altri si ricrea.

    Calata la sera, Sordello accompagna Dante e Virgilio in una valle amena dove attendono di entrare in Purgatorio le anime dei Principi negligenti («Negligenti per occupation di stati»), ovvero coloro che, intenti alla gloria terrena, trascurarono i propri doveri verso il popolo. Tra costoro siede Rodolfo I d’Asburgo, re di Germania e imperatore designato del Sacro Romano Impero, che pur avendo la possibilità di restaurare l’autorità imperiale in Italia, scongiurando così le tragiche lotte tra guelfi e ghibellini che dilaniarono il paese, scelse di abdicare al proprio compito.

    Gli siedono vicino altri principi, tra i quali Ottocaro di Boemia, Filippo III l’Ardito, Enrico I di Navarra, Pietro III d’Aragona e Carlo I d’Angiò.

    La piana e incisiva leggibilità della scena poco si accorda, in questo caso, con l’intonazione sentimentale del canto dantesco, al quale il poeta affidò il rimpianto e la delusione per il tramonto dei propri ideali politici.

    Commento di Federico Zuccari: «Canto VII. Arrivati che furono i poeti alla valle, il Sordello dà loro cognitione di molti principi e magnati, ch’erano in quella.

    [Purg. VII, 94] Ridolfo imperadore fu chiamato da Gregorio papa X sotto pena di grave censura a venire al racquisto di Terra Santa et ordinar le cose in Italia, che per la parte guelfe e ghibelline erano in pessimo stato, ma non volse venire per essere occupato nelle cose d’Alemagna» (fol. 36 verso)

    Versi della Divina Commedia copiati: Purg. VII, 91-96; 121-123
    Versi della Divina Commedia illustrati: Purg. VII, 85-136

    Audiodescrizione

  • 12/50
    Antipurgatorio. Valletta amena. Il serpente messo in fuga dagli angeli

    Purgatorio, Canto VIII

    GDSU inv. 3511 F

    Da quella parte onde non ha riparo
    la picciola vallea, era una biscia,
    forse qual diede ad Eva il cibo amaro.

    A sinistra, nella valle amena in cui sostano i Principi negligenti, Dante e Virgilio, in compagnia di Sordello da Goito, incontrano lo spirito del pisano Nino Visconti, giudice di Gallura in Sardegna, col quale il poeta ha un affettuoso colloquio venato di rimpianto. Al centro, segue l’incontro con Corrado Malaspina, signore della Lunigiana, i cui discendenti ospiteranno Dante durante l’esilio. A destra, si fa strada tra i Principi il serpente con sembianze femminili, simbolo del demonio, che viene prontamente cacciato da due angeli.

    Commento di Federico Zuccari: «Canto VIII. Seguita il poeta nel presente canto la materia lasciata nel precedente, dimostrando che era l’hora della sera, quando l’anime di quella valle, finito ch’hebbero di cantare la Salve Regina, egli non sentì più cantare; ma solamente mirava una di quelle, la qual levata in piedi a giunte, elevate le mani al cielo pregava di essere ascolta, et divotamente cominciò a cantare Te lucis ante terminum; e l’altre seguitaron queste per tutto l’hinno; il qual finito videro due angioli con due focate spade senza punte, scendere alla guardia della valle. Scesi poi per conforto di Sordello giuso nella valle, il poeta conobbe e fu conosciuto dall’ombra di Nino giudice già del giudicato di Gallora di Sardegna, col quale hebbe parlamento. Mostra poi Sordello a Virgilio una biscia, che da certa parte era venuta nella valle, contro la quale si calarono li due angeli, e quella si fuggì, e da Sordello intesero ch’ella era l’avversario nostro» (fol. 37 verso)

    Versi della Divina Commedia copiati: Purg. VIII, 13-18; 58-60; 76-78; 97-99
    Versi della Divina Commedia illustrati: Purg. VIII, 13-18; 25-33; 58-63; 94-109

    Audiodescrizione

  • 13/50
    Antipurgatorio. Secondo balzo. Sogno di Dante. L’angelo portiere del Purgatorio

    Purgatorio, Canto IX

    GDSU inv. 3512 F

    «Non aver tema», disse il mio segnore;
    «fatti sicur, ché noi semo a buon punto;
    non stringer, ma rallarga ogne vigore.

    Tu se’ omai al purgatorio giunto:
    vedi là il balzo che ‘l chiude dintorno;
    vedi l’entrata là ‘ve par digiunto.

    In questa tavola, da destra verso sinistra, Dante si assopisce nella valle amena, in compagnia di Virgilio, Sordello, Nino Visconti e Corrado Malaspina, e sogna di trovarsi sul monte Ida e di essere rapito in cielo da un’aquila con le piume dorate, che lo solleva in volo fino alla sfera del fuoco. Accanto a lui è la figura di santa Lucia, che lo trasporta ancora addormentato in prossimità della porta del Purgatorio, dove il poeta si ridesta assieme a Virgilio. In lontananza, si scorge la figura dell’angelo a guardia del portale.

    Commento di Federico Zuccari: «Canto IX. Usando il poeta descrittione del tempo dell’aurora, finge in quell’hora essersi addormentato, e descrive sotto la fittione di certo sogno o visione la sua salita fin alla porta del Purgatorio, e narra il modo che tenne ad entrar per quella, descrivendo la porta et entrata del detto Purgatorio.

    [Purg. IX, 34] Non altrimenti Acchille si riscosse. Fa comparatione da lo stupor di lui nel destarsi a quello d’Acchille, quando fu alla madre Tetis tolto da Chiron suo precettore, e dormendo portato nell’isola di Schiro a Licomede, ove destandosi e guardando non sapeva conoscere dove si fusse» (fol. 38 verso)

    Versi della Divina Commedia copiati: Purg. IX, 34-36; 40-42; 46-51; 55-57
    Versi della Divina Commedia illustrati: Purg. IX, 10-12; 19-31; 40-59; 75-82

    Audiodescrizione

  • 14/50
    Antipurgatorio. La porta del Purgatorio

    Purgatorio, Canto IX

    GDSU inv. 3513 F

    Qui ti posò, ma pria mi dimostraro
    li occhi suoi belli quella intrata aperta;
    poi ella e ‘l sonno ad una se n’andaro».

    A guisa d’uom che ‘n dubbio si raccerta
    e che muta in conforto sua paura,
    poi che la verità li è discoperta,

    Dante e Virgilio giungono in prossimità della porta del Purgatorio, a guardia della quale è posto un angelo armato di spada. Il poeta si getta umilmente ai suoi piedi, battendosi il petto in segno di umiltà, e l’angelo gli incide sulla fronte sette P, simbolo dei sette peccati capitali, come precisa l’iscrizione apposta sull’architrave soprastante: «Sette P ne la fronte mi descrisse col ponton de la spada; et fa che lavi quando se’ dentro queste piaghe, disse».

    Commento di Federico Zuccari: «Dice il poeta che, avanti che entrassi nel Purgatorio, li fu dall’angelo che stava alla guardia di detto loco designato nella fronte con la punta della spada sette P, e commandatoli che, quando era dentro, lavassi dette piaghe; volendo intendere i sette peccati mortali» (fol. 39 verso)

    Versi della Divina Commedia copiati: Purg. IX, 61-66; 112-114
    Versi della Divina Commedia illustrati: Purg. IX, 61-67; 109-114

    Audiodescrizione

  • 15/50
    Purgatorio. Dante e Virgilio entrano nella prima cornice dei superbi

    Purgatorio, Canti IX-X

    GDSU inv. 3514 F

    Noi salavam per una pietra fessa,
    che si moveva e d’una e d’altra parte,
    sì come l’onda che fugge e s’appressa.

    «Qui si conviene usare un poco d’arte»,
    cominciò ‘l duca mio, «in accostarsi
    or quinci, or quindi al lato che si parte».

    Dante e Virgilio attraversano la porta del Purgatorio e salgono, passando attraverso una tortuosa fenditura nella roccia, verso la prima cornice dei superbi.

    Commento di Federico Zuccari: «Canto X. Il poeta entra dentro la porta del Purgatorio» (fol. 40 verso)

    Versi della Divina Commedia copiati: Purg. IX, 130-132; Purg. X, 4-12
    Versi della Divina Commedia illustrati: Purg. IX, 130-132; Purg. X, 7-12

    Audiodescrizione

  • 16/50
    Prima cornice: superbi. Altorilievi sullo zoccolo e sul pavimento che rappresentano esempi di umiltà e di superbia punita

    Purgatorio, Canti X-XII

    GDSU inv. 3515 F

    Se tu non torni; et ei: Chi fia dov’io,
    la ti farà; ed ella: L’altrui bene
    a te che fia, se ‘l tuo metti in oblio;

    ond’elli: Hor ti conforta; ch’ei convene
    ch’io solva il mio dover, anzi ch’io mova:
    giustitia vole, et pietà mi ritiene.

    La prima cornice del Purgatorio si presenta agli occhi del poeta ornata di altorilievi in marmo bianco. Sulle pareti sono raffigurati, da destra verso sinistra, tre esempi di umiltà: l’Annunciazione della Vergine, la danza di David davanti all’Arca santa e l’imperatore Traiano che rende giustizia a una vedova per la morte del figlio. Sul pavimento sono invece illustrati, da sinistra verso destra, tre esempi di superbia, ovvero Adramelech e Sarasar che trucidano il loro padre, la regina degli Sciti Tamiri che fa porre la testa di Ciro, re dei Persiani, in un otre di sangue, e infine Giuditta che taglia la testa di Oloferne.

    Commento di Federico Zuccari: «Sallito che fu il poeta sopra del primo balzo, dove si purga la superbia causa di tutti i mali, dice che vidde a le sponde intagliati alcuni essempi d’humiltà» (fol. 41 verso)

    Versi della Divina Commedia copiati: Purg. X, 40-42; 59-63; 88-93; Purg. XII, 52-60
    Versi della Divina Commedia illustrati: Purg. X, 28-45; 50-69; 71-93; Purg. XII, 52-61

    Audiodescrizione

  • 17/50
    Prima cornice: superbi. Pavimento con esempi di superbia

    Purgatorio, Canti X-XII

    GDSU inv. 3516 F

    O’ superbi cristiani, miseri lassi;
    che, de la vista de la mente infermi,
    fidanza avete ne’ ritrosi passi,

    non v’accorgete voi che noi siam vermi
    nati a formar l’angelica farfalla,
    che vola a la giustizia senza schermi

    Di che l’animo vostro in alto galla,
    poi siete quasi antomata in difetto,
    sì come verme in cui formation falla

    Prosegue la galleria di altorilievi illustrata nella tavola precedente con gli esempi di superbia: sul pavimento, da sinistra a destra, è visibile il re d’Israele Roboamo che si appresta a fuggire, ed Erifile uccisa da Almeone, suo figlio.

    I riquadri della parete risultano vuoti, ad eccezione di un cartiglio che recita:

    Mentr’io mi dilettava di guardare
    l’imagini di tante umilitadi,
    e per lo fabbro loro a veder care,

    Ecco di qua, ma fanno i passi radi,
    mormorava il poeta, molte genti:
    questi ne ‘nvieranno a li alti gradi.

    Commento di Federico Zuccari: «Qui sono figurati altri essempi d’humiltà [leggi: superbia]» (fol. 42 verso)

    Versi della Divina Commedia copiati: Purg. X, 97-102; 112-117; 121-129; Purg. XII, 46-51
    Versi della Divina Commedia illustrati: Purg. X, 100-102; 112-117; Purg. XII, 46-51; 53

    Audiodescrizione

  • 18/50
    Prima cornice: superbi. Incontro con Omberto Aldobrandeschi, Oderisi da Gubbio e Provenzano Salvani

    Purgatorio, Canti X-XII

    GDSU inv. 3517 F

    Oh vana gloria de l’umane posse!
    com’poco verde in su la cima dura,
    se non è giunta da l’etati grosse!

    Nell’illustrazione, Dante e Virgilio incontrano i superbi, che scontano la pena portando sulle spalle massi più o meno pesanti a seconda della gravità dei loro peccati. Tra costoro, il poeta riconosce, al centro, il miniatore Oderisi da Gubbio, che pronuncia uno dei discorsi più celebri della Commedia sulla fugacità della gloria terrena e sul bisogno di fama che spinge gli artisti a superarsi incessantemente l’uno con l’altro. Nel passo sono citati per la prima volta i nomi di Cimabue e di Giotto:

    Credette Cimabue ne la pittura
    tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,
    sì che la fama di colui è scura:

    così ha tolto l’uno a l’altro Guido
    la gloria de la lingua; e forse è nato
    chi l’uno e l’altro caccerà del nido

    In basso, sul pavimento, sono illustrati altri esempi di superbia: da sinistra a destra, Saul, re d’Israele sconfitto dai Filistei, e Aracne tramutata in ragno da Pallade.

    Commento di Federico Zuccari: «Canto XI. Il poeta descrive la pena della superbia, che è di star sotto gravissimi pesi, poi narra l’oratione che si fa a Dio da coloro che si purgano del detto vitio. Inoltre mostra haver riconosciuto alcune di quell’anime, e fra l’altre quella di Oderisi da Gubbio miniatore eccellente. Da questo gli è mostrato che la fama, la qual cerchiamo in questo mondo, nell’ultimo è una vanità congionta con pazzia» (fol. 43 verso)

    Versi della Divina Commedia copiati: Purg. XI, 37-45; 52-57; 85-93; 100-102; 124-126; Purg. XII, 1-3; 40-45; 70-72
    Versi della Divina Commedia illustrati: Purg. X, 115-120; Purg. XI, 37-57; 73-90; 121-126; Purg. XII, 40-45

    Audiodescrizione

  • 19/50
    Prima cornice: preghiera dei superbi

    Purgatorio, Canti XI-XII

    GDSU inv. 3518 F

    «O Padre nostro, che ne’ cieli stai,
    non circunscritto, ma per più amore
    ch’ai primi effetti di là sù tu hai,

    laudato sia ‘l tuo nome e ‘l tuo valore
    da ogni creatura, com’è degno
    di render grazie al tuo dolce vapore.

    Vegna ver’ noi la pace del tuo regno,
    ché noi ad essa non potem da noi,
    s’ella non vien, con tutto nostro ingegno.

    Come del suo voler li angeli tuoi
    fan sacrificio a te, cantando osanna,
    così facciano li uomini de’ suoi.

    Dà oggi a noi la cotidiana manna,
    sanza la qual per questo aspro diserto
    a retro va chi più di gir s’affanna.

    E come noi lo mal ch’avem sofferto
    perdoniamo a ciascuno, e tu perdona
    benigno, e non guardar lo nostro merto.

    Nostra virtù che di legger s’adona,
    non spermentar con l’antico avversaro,
    ma libera da lui che sì la sprona.

    Quest’ultima preghiera, segnor caro,
    già non si fa per noi, ché non bisogna,
    ma per color che dietro a noi restaro».

    Nell’illustrazione prosegue, sul pavimento, la galleria di altorilievi dedicati agli esempi di superbia: da sinistra a destra, sono raffigurati la costruzione della torre di Babele e l’episodio mitologico dell’uccisione dei figli di Niobe.

    Commento di Federico Zuccari: «Canto XII. Purgatione del vitio della superbia» (fol. 44 verso)

    Versi della Divina Commedia copiati: Purg. XI, 1-27; Purg. XII, 34-39
    Versi della Divina Commedia illustrati: Purg. XI, 1-29; Purg. XII, 34-39

    Audiodescrizione

  • 20/50
    Prima cornice: superbi. Sul pavimento tredici esempi di superbia punita

    Purgatorio, Canto XII

    GDSU inv. 3519 F

    Come, perché di lor memoria sia,
    sovra i sepolti le tombe terragne
    portan segnato quel ch’elli eran pria,

    onde lì molte volte si ripiagne
    per la puntura de la rimembranza,
    che solo a’ pii dà de le calcagne;

    sì vid’io lì, ma di miglior sembianza
    secondo l’artificio, figurato
    quanto per via di fuor del monte avanza.

    Nel disegno, Dante e Virgilio si soffermano ad osservare altri esempi di superbia raffigurati sul pavimento: da sinistra a destra, la caduta degli angeli ribelli e i giganti puniti da Giove.

    Commento di Federico Zuccari: «Partito il poeta da Oderisi e dall’altre anime, che purgavano il peccato della superbia, narra molte varie historie e favole, le quali finge essere scolpite nel suolo o pavimento, per il quale passava, in essempij di superbia» (fol. 45 verso)

    Versi della Divina Commedia copiati: Purg. XII, 10-33; 64-69
    Versi della Divina Commedia illustrati: Purg. XII, 10-15; 25-33

    Audiodescrizione

  • 21/50
    Prima cornice: superbi. Dante e Virgilio guardano l’ultimo esempio di superbia punita e sostano presso l’Angelo dell’umiltà al passo del perdono

    Purgatorio, Canto XII

    GDSU inv. 3520 F

    Più era già per noi del monte vòlto
    e del cammin del sole assai più speso
    che non stimava l’animo non sciolto

    quando colui che sempre innanzi atteso
    andava, cominciò: «Drizza la testa;
    non è più tempo di gir sì sospeso.

    Vedi colà un angel che s’appresta
    per venir verso noi; vedi che torna
    dal servigio del dì l’ancella sesta.

    Di reverenza il viso e li atti addorna,
    sì che i diletti lo ‘nviarci in suso;
    pensa che questo dì mai non raggiorna!».

    Al termine della galleria, Dante e Virgilio si fermano a osservare l’ultimo esempio di superbia sul pavimento: la caduta e l’incendio di Troia. Il racconto prosegue sulla sinistra, dove i due poeti incontrano l’angelo dell’umiltà posto a guardia del passo del perdono.

    Commento di Federico Zuccari: «Seguita il poeta a descrivere altri esempi di superbia» (fol. 46 verso)

    Versi della Divina Commedia copiati: Purg. XII, 61-63; 73-84; 88-93
    Versi della Divina Commedia illustrati: Purg. XII, 61-63; 73; 75-84; 88-93

    Audiodescrizione

  • 22/50
    Prima cornice: superbi. Cancellazione della prima P e salita alla seconda cornice

    Purgatorio, Canto XII

    GDSU inv. 3521 F

    Noi volgendo ivi le nostre persone,
    ‘Beati pauperes spiritu!’ voci
    cantaron sì, che nol diria sermone.

    Ahi quanto son diverse quelle foci
    da l’infernali! ché quivi per canti
    s’entra, e là giù per lamenti feroci.

    L’angelo dell’umiltà, con la punta dell’ala, cancella la prima delle sette P dalla fronte di Dante e invita i due poeti a proseguire verso la cornice successiva.

    Commento di Federico Zuccari: «Descrive il poeta la salita di esso con Vergilio sopra del secondo balzo, ove si purga il peccato dell’invidia» (fol. 47 verso)

    Versi della Divina Commedia copiati: Purg. XII, 94-99; 109-114; 127-136
    Versi della Divina Commedia illustrati: Purg. XII, 92-99; 103-108; 133-136

    Audiodescrizione

  • 23/50
    Seconda cornice: invidiosi. Voci aeree gridano esempi di carità

    Purgatorio, Canto XIII

    GDSU inv. 3522 F

    E‘l buon maestro: «Questo cinghio sferza
    la colpa de la invidia, e però sono
    tratte d’amor le corde de la ferza.

    Lo fren vuol esser del contrario suono;
    credo che l’udirai, per mio avviso,
    prima che giunghi al passo del perdono.

    Il percorso di lettura procede da destra verso sinistra: Dante e Virgilio ascoltano con stupore tre voci, sotto forma di angeli, che gridano alcuni esempi di carità, visualizzati all’interno dei cerchi al centro del foglio: in quello di dimensioni maggiori si vedono le nozze di Cana, mentre nei due minori sono rappresentate la storia di Oreste e un’altra scena non chiaramente identificabile ispirata al precetto evangelico di amare i propri nemici.

    Commento di Federico Zuccari: «Canto XIII. Gionto il poeta sopra il secondo balzo, ove si purga il peccato dell’invidia, dice che sentì alcune voci, che passavo esprimere esempi di charità» (fol. 48 verso)

    Versi della Divina Commedia copiati: Purg. XIII, 10-42
    Versi della Divina Commedia illustrati: Purg. XIII, 1-42

    Audiodescrizione

  • 24/50
    Seconda cornice: invidiosi

    Purgatorio, Canti XIII-XIV

    GDSU inv. 3523 F

    Di vil ciliccio mi parean coperti,
    e l’un sofferia l’altro con la spalla,
    e tutti da la ripa eran sofferti.

    Così li ciechi a cui la roba falla
    stanno a’ perdoni a chieder lor bisogna,
    e l’uno il capo sopra l’altro avvalla,

    perché ‘n altrui pietà tosto si pogna,
    non pur per lo sonar de le parole,
    ma per la vista che non meno agogna.

    Nella seconda cornice, Dante e Virgilio incontrano gli invidiosi, identificati dal cartiglio in alto («Pena de li invidiosi»), che indossano un manto di cilicio e hanno le palpebre cucite con filo di ferro. Tra costoro si trovano la nobildonna senese Sapia, della famiglia dei Salvani, Guido del Duca e Rinieri da Calboli.

    Commento di Federico Zuccari: «Descrive il poeta la pena dell’invidiosi, qual dice essere di andar vestito di cilicio et haver cusciti occhi d’un fil di ferro» (fol. 49 verso)

    Versi della Divina Commedia copiati: Purg. XIII, 58-78; 85-87; 106-111; 130-147; Purg. XIV, 1-3; 82-87
    Versi della Divina Commedia illustrati: Purg. XIII, 43-48; 58-74; 100-102; Purg. XIV, 7-9

    Audiodescrizione

  • 25/50
    Seconda cornice: invidiosi. Voci sotto forma di angeli gridano esempi di invidia punita. Caino e Aglauro

    Purgatorio, Canto XIV

    GDSU inv. 3524 F

    Poi fummo fatti soli procedendo,
    folgore parve quando l’aere fende,
    voce che giunse di contra dicendo:

    ‘Anciderammi qualunque m’apprende’;
    e fuggì come tuon che si dilegua,
    se sùbito la nuvola scoscende.

    Come da lei l’udir nostro ebbe triegua,
    ed ecco l’altra con sì gran fracasso,
    che somigliò tonar che tosto segua:

    «Io sono Aglauro che divenni sasso»;
    e allor, per ristrignermi al poeta,
    in destro feci e non innanzi il passo […]

    Chiamavi ‘l cielo e ‘ntorno vi si gira,
    mostrandovi le sue bellezze etterne,
    e l’occhio vostro pur a terra mira;

    onde vi batte chi tutto discerne».

    Al centro della tavola, Dante e Virgilio ascoltano le voci che, sotto forma di angeli, gridano esempi di invidia punita. Nel cerchio a sinistra è raffigurato l’episodio biblico di Caino che uccide il fratello Abele; nel cerchio a destra è illustrato il mito di Aglauro, trasformata in pietra da Mercurio per l’invidia provata nei confronti della sorella amata dal Dio.

    Commento di Federico Zuccari: «Canto XIV. Persevera il poeta nel medesimo proposito lassato nel precedente canto, cioè della purgatione dell’invidia, e finge haver udite alcune voci, che manifestavano essempij d’invidia» (fol. 50 verso).

    Versi della Divina Commedia copiati: Purg. XIV, 130-141; 148-151
    Versi della Divina Commedia illustrati: Purg. XIV, 130-141

    Audiodescrizione

  • 26/50
    Seconda cornice: passo del perdono e salita alla terza cornice

    Purgatorio, Canto XV

    GDSU inv. 3525 F

    «Non ti maravigliar s’ancor t’abbaglia
    la famiglia del cielo», a me rispuose:
    «messo è che viene ad invitar ch’om saglia.

    Tosto sarà ch’a veder queste cose
    non ti fia grave, ma fieti diletto
    quanto natura a sentir ti dispuose».

    I due poeti sono qui raffigurati in tre distinti momenti: da sinistra, Dante si ripara con la mano dal bagliore improvviso sprigionato dal volto dell’angelo della misericordia. Al centro, il poeta appare inginocchiato in attesa che venga cancellata la seconda delle sette P dalla sua fronte. Infine, a destra, Dante e Virgilio salgono la scala che conduce alla terza cornice.

    Commento di Federico Zuccari: «Canto XV. Continuando l’andar oltra il poeta descrive in questo canto, come scontrò un angelo, dal quale furono indirizzati per le scale che salivano sul terzo balzo, dove si purga l’ira» (fol. 51 verso).

    Versi della Divina Commedia copiati: Purg. XV, 28-33; 37-39; 46-57
    Versi della Divina Commedia illustrati: Purg. XV, 10-15; 28-37; 40-57

    Audiodescrizione

  • 27/50
    Terza cornice: iracondi. Dante in estasi ha tre visioni con tre esempi di mansuetudine

    Purgatorio, Canto XV

    GDSU inv. 3526 F

    Com'io voleva dicer ‘Tu m’appaghe’,
    vidimi giunto in su l’altro girone,
    sì che tacer mi fer le luci vaghe.

    Ivi mi parve in una visione
    estatica di sùbito esser tratto,
    e vedere in un tempio più persone;

    e una donna, in su l’entrar, con atto
    dolce di madre dicer: «Figliuol mio
    perché hai tu così verso noi fatto?

    Ecco, dolenti, lo tuo padre e io
    ti cercavamo». E come qui si tacque,
    ciò che pareva prima, dispario.

    Indi m’apparve un’altra con quell’acque
    giù per le gote che ‘l dolor distilla
    quando di gran dispetto in altrui nacque,

    e dir: «Se tu se’ sire de la villa
    del cui nome ne’ dèi fu tanta lite,
    e onde ogni scienza disfavilla,

    vendica te di quelle braccia ardite
    ch’abbracciar nostra figlia, o Pisistràto».
    E ‘l segnor mi parea, benigno e mite,

    risponder lei con viso temperato:
    «Che farem noi a chi mal ne disira,
    se quei che ci ama è per noi condannato?».

    Poi vidi genti accese in foco d’ira
    con pietre un giovinetto ancider, forte
    gridando a sé pur: «Martira, martira!».

    E lui vedea chinarsi, per la morte
    che l’aggravava già, inver’ la terra,
    ma de li occhi facea sempre al ciel porte,

    orando a l’alto Sire, in tanta guerra,
    che perdonasse a’ suoi persecutori,
    con quello aspetto che pietà diserra.

    Quando l’anima mia tornò di fori
    a le cose che son fuor di lei vere,
    io riconobbi i miei non falsi errori.

    Dante, in estasi, ha tre visioni con esempi di mansuetudine raffigurati all’interno di cerchi: a sinistra, Giuseppe e Maria ritrovano Gesù al Tempio dopo la disputa con i Dottori; al centro, Pisistrato, tiranno di Atene, risponde con mitezza alla moglie che chiedeva vendetta per un insulto ricevuto; a destra, santo Stefano, lapidato, invoca perdono per i propri carnefici.

    Commento di Federico Zuccari: «Giunto il poeta sopra il terzo balzo vidde esservi essempi di patienza, la quale è opposita a l’ira, e proc[ed]endo per quello, dice che fu oppresso da un grave fumo che veniva incontro di lui impacciandolo, che più oltre non potea vedere» (fol. 52 verso)

    Versi della Divina Commedia copiati: Purg. XV, 82-117
    Versi della Divina Commedia illustrati: Purg. XV, 82-123

    Audiodescrizione

  • 28/50
    Terza cornice: iracondi. Le anime si aggirano in un fumo denso e oscuro

    Purgatorio, Canti XV-XVI

    GDSU inv. 3527 F

    Buio d’inferno e di notte privata
    d’ogne pianeto, sotto pover cielo,
    quant’esser può di nuvol tenebrata,

    non fece al viso mio sì grosso velo
    come quel fummo ch’ivi ci coperse,
    né a sentir di così aspro pelo,

    che l’occhio stare aperto non sofferse;
    onde la scorta mia saputa e fida
    mi s’accostò e l’omero m’offerse.

    Sì come cieco va dietro a sua guida
    per non smarrirsi e per non dar di cozzo
    in cosa che ‘l molesti, o forse ancida,

    m’andava io per l’aere amaro e sozzo,
    ascoltando il mio duca che diceva
    pur: «Guarda che da me tu non sia mozzo».

    Io sentia voci, e ciascuna pareva
    pregar per pace e per misericordia
    l’Agnel di Dio che le peccata leva.

    Pur ‘Agnus Dei’ eran le loro essordia;
    una parola in tutte era e un modo,
    sì che parea tra esse ogne concordia.

    «Quei sono spirti, maestro, ch’i’ odo?»,
    diss’io. Ed elli a me: «Tu vero apprendi,
    e d’iracundia van solvendo il nodo».

    «Or tu chi se’ che ‘l nostro fummo fendi,
    e di noi parli pur come se tue
    partissi ancor lo tempo per calendi?».

    Così per una voce detto fue;
    onde ‘l maestro mio disse: «Rispondi,
    e domanda se quinci si va sùe».

    E io: «O creatura che ti mondi
    per tornar bella a colui che ti fece,
    maraviglia udirai, se mi secondi». […]

    Allora incominciai: «Con quella fascia
    che la morte dissolve men vo suso,
    e venni qui per l’infernale ambascia.

    E se Dio m’ha in sua grazia rinchiuso,
    tanto che vuol ch’i’ veggia la sua corte
    per modo tutto fuor del moderno uso,

    non mi celar chi fosti anzi la morte,
    ma dilmi, e dimmi s’i’ vo bene al varco;
    e tue parole fier le nostre scorte».

    «Lombardo fui, e fu’ chiamato Marco;
    del mondo seppi, e quel valore amai
    al quale ha or ciascun disteso l’arco.

    Per montar sù dirittamente vai».
    Così rispuose, e soggiunse: «I’ ti prego
    che per me prieghi quando sù sarai».

    Nella terza cornice del Purgatorio, gli iracondi sono costretti a vagare avvolti in un fumo denso e amaro. Una delle anime si rivela al poeta: si tratta di Marco Lombardo, un personaggio di cui si ignorano i dati biografici, al quale Dante attribuisce una celebre invettiva contro le credenze sugli influssi astrali che finivano col negare il libero arbitrio dell’uomo. 

    Commento di Federico Zuccari: «Canto XVI. Andando il poeta per il fumo, mostra che quivi si purgano gl’iracondi. E finge haver trovato in quel fumo Marco Lombardo, dal quale gl’è dimostrato l’errore, dove sono alcuni, che si credono ch’ogni nostro operare venga destinato da gl’influssi de’ cieli, dimostrandoli come tutto nasce dal nostro libero arbitrio» (fol. 53 verso)

    Versi della Divina Commedia copiati: Purg. XV, 142-145; Purg. XVI, 1-33; 37-51
    Versi della Divina Commedia illustrati: Purg. XV, 142-145; Purg. XVI, 1-21; 25-28

    Audiodescrizione

  • 29/50
    Terza cornice: iracondi. Dante vede in visione tre esempi di ira punita

    Purgatorio, Canto XVII

    GDSU inv. 3528 F

    Sì, pareggiando i miei co’ passi fidi
    del mio maestro, usci’ fuor di tal nube
    ai raggi morti già ne’ bassi lidi

    O imaginativa che ne rube
    talvolta sì di fuor, ch’om non s’accorge
    perché dintorno suonin mille tube,

    chi move te, se ‘l senso non ti porge?
    Moveti lume che nel ciel s’informa,
    per sé o per voler che giù lo scorge.

    De l’empiezza di lei che mutò forma
    ne l’uccel ch’a cantar più si diletta,
    ne l’imagine mia apparve l’orma;

    E qui fu la mia mente sì ristretta
    dntro da sé, che di fuor non venìa
    cosa ch fosse allor da lei ricetta.

    Poi piovv dentro a l’alta fantasia
    un crucifisso dispttoso e fero
    n la sua vista, e cotal si morìa;

    intorno ad sso era il grande Assuero,
    Estèr sua sposa ‘l giusto Mardoceo,
    ch fu al dire e al far così intero.

    E come questa imagine rompeo
    sé per sé stessa, a guisa d’una bulla
    cui manca l’acqua sotto qual si feo,

    surse in mia visione una fanciulla
    piangendo forte, e dicea: «O regina,
    perché per ira hai voluto esser nulla?

    Ancisa t’hai per non perder Lavina;
    or m’hai perduta! Io son essa che lutto,
    madre, a la tua pria ch’a l’altrui ruina».

    Superata la densa nube che avvolge gli iracondi, Dante, in estasi, ha la visione di tre esempi di ira punita: a sinistra, Progne, moglie del re di Tracia Tereo, tramutata in usignolo per aver ucciso il figlio Iti e averne dato le carni in pasto al padre; al centro, Ester, moglie del re di Persia Assuero, fa crocifiggere il ministro Aman; a destra, Amata, moglie del re latino Turno, non volendo assistere alle nozze della figlia Lavinia con Enea, s’impicca nella propria stanza.

    Commento di Federico Zuccari: «Canto XVII. Per certa similitudine dimostra in questo canto il poeta, come uscito che fu dal fumo e ritornato a riveder la luce, fu astratto nell’immaginatione da alcuni essempi d’ira» (fol. 54 verso)

    Versi della Divina Commedia copiati: Purg. XVII, 10-39;
    Versi della Divina Commedia illustrati: Purg. XVII, 10-12; 19-39

    Audiodescrizione

  • 30/50
    Terza cornice: iracondi. Dante e Virgilio al passo del perdono con la scala che porta alla quarta cornice

    Purgatorio, Canto XVII

    GDSU inv. 3529 F

    Come si frange il sonno ove di butto
    nova luce percuote il viso chiuso,
    che fratto guizza pria che muoia tutto;

    così l’imaginar mio cadde giuso
    tosto che lume il volto mi percosse,
    maggior assai che quel ch’è in nostro uso.

    I’ mi volgea per veder ov’io fosse,
    quando una voce disse «Qui si monta»,
    che da ogne altro intento mi rimosse;

    E fece la mia voglia tanto pronta
    di riguardar chi ra che parlava,
    ch mai non posa, se non si raffronta.

    Ma com al sol che nostra vista grava
    per soverchio sua figura vela,
    così la mia virtù quivi mancava.

    «Questo è divino spirito, che ne la
    via da ir sù n drizza sanza prego,
    col suo lume sé medesmo cela.

    Sì fa con noi, com l’uom si fa sego;
    ché qual aspetta prego e l’uopo vede,
    malignamnte già si mette al nego.

    Or accordiamo a tanto invito il pide;
    procacciam di salir pria ch s’abbui,
    ché poi non si poria, s ‘l dì non riede».

    Così disse il mio duca, e io con lui
    volgemmo i nostri passi ad una scala;
    e tosto ch’io al primo grado fui,

    senti’mi presso quasi un muover d’ala
    e ventarmi nel viso e dir: ‘Beati
    pacifici, che son sanz’ira mala!’.

    Dopo le visioni con i tre esempi d’ira, Dante, in compagnia di Virgilio, si appressa alla luce abbagliante che emana dall’angelo della mansuetudine, il quale invita i poeti a salire verso la quarta cornice degli accidiosi.

    Commento di Federico Zuccari: «Qui il poeta mostra come è inviato dall’angelo per le scale del quarto balzo, sul qual si purga il peccato dell’accidia» (fol. 55 verso).

    Versi della Divina Commedia copiati: Purg. XVII, 40-69
    Versi della Divina Commedia illustrati: Purg. XVII, 40-63

    Audiodescrizione

  • 31/50
    Quarta cornice: accidiosi. Virgilio spiega a Dante l’ordinamento del Purgatorio, basato sull’amore

    Purgatorio, Canti XVII-XVIII

    GDSU inv. 3530 F

    Dolce mio padre, dì, quale offensione 
    si purga qui nel giro dove semo; 
    se i piè si stanno, non stea tuo sermone.  

    Et egli a me: l’amor del bene, scemo 
    del suo dover, quiritta si ristora; 
    qui si ribatte il mal tardato remo. 
     

    Giunti nella quarta cornice del Purgatorio in cui si espia il vizio dell’accidia, Dante e Virgilio sostano in attesa del nuovo giorno: il complesso tema dottrinale del canto è interamente affidato alla trascrizione dei versi danteschi, che incorniciano la parte superiore e inferiore della scena.

    A sinistra s’intravedono le prime anime della schiera degli accidiosi, alle quali è dedicata la tavola seguente.

    Commento di Federico Zuccari: «Canto XVIII. Essendo il poeta arrivato alla cima del quarto balzo di notte, si fermono ad aspettare il novo giorno. In tanto Virgilio li dimostra l’accidia non esser altro che mancamento d’amore, dichiarandoli quante spetie si trovino d’amore» (fol. 56 verso).

    Versi della Divina Commedia copiati: Purg. XVII, 82-139; Purg. XVIII, 1-39
    Versi della Divina Commedia illustrati: Purg. XVII, 76-78; 85; Purg. XVIII, 76-78; 88-96

    Audiodescrizione

  • 32/50
    Quarta cornice: accidiosi. Le anime corrono sollecitandosi a vicenda

    Purgatorio, Canto XVIII

    GDSU inv. 3531 F

    Noi siam di voglia a muoverci sì pieni, 
    che restar non potem; però perdona, 
    se vilania nostra giustitia tieni. 

    Io fui abbate in San Zeno a Verona 
    sotto lo imperio del buon Barbarossa, 
    di cui dolente ancor Milan ragiona. 

    Nella quarta cornice del Purgatorio, ancora intenti a discutere della natura dell’amore verso Dio, Dante e Virgilio vengono sorpresi dal repentino irrompere sulla scena della schiera degli accidiosi. Due anime precedono la turba gridando esempi di sollecitudine, mentre altre due la seguono gridando a loro volto esempi di accidia.

    In antitesi alla loro condotta terrena caratterizzata dalla lentezza e dall’indugio, questi penitenti corrono senza sosta con movenze frenetiche e scomposte.

    Commento di Federico Zuccari: «Havendo il poeta nel precedente canto dimostrato ogni buona e rea opera procedere solamente d’amore, hora in questo dimostra in persona di Vergilio che cosa sia propriamente amore, poi descrive alcuni essempi di celerità contra il peccato dell’accidia, che quivi si purga» (fol. 57 verso).

    Versi della Divina Commedia copiati: Purg. XVIII, 40-75; 82-105; 115-120; 130-145
    Versi della Divina Commedia illustrati: Purg. XVIII, 97-99

    Audiodescrizione

  • 33/50
    Quarta cornice: accidiosi. Sogno di Dante e Angelo della sollecitudine

    Purgatorio, Canto XIX

    GDSU inv. 3532 F 

    Nell’hora che non può il calor diurno 
    intepidar più il fredo de la luna, 
    vinto da terra, o talor da Saturno                            

    quando i geometri lor magior fortuna 
    veggiono in oriente, innanz’a l’alba, 
    surger per via, che poco le sta bruna-,        

    mi venne in sogno una femina balba, 
    con gli occhi guerci, et sovra i piè distorta, 
    con le man monche, e di colore scialba. 

    Il disegno raffigura, a sinistra, Virgilio che veglia sul sonno di Dante. In un gioco di continui rimandi tra sogno e realtà, il poeta sogna se stesso e il suo maestro, all’interno del cerchio, di fronte a una figura femminile balbuziente (“balba”) le cui sembianze mostruose sono svelate da un angelo.

    Al risveglio Virgilio spiega a Dante il significato del sogno: la donna è una raffigurazione allegorica dei peccati di avarizia, gola e lussuria, che incontreranno nelle cornici successive.

    Sulla destra, i due poeti incontrano l'angelo della sollecitudine che toglie la quarta P dalla fronte di Dante e lo invita a salire alla quinta cornice.

    Commento di Federico Zuccari: «Canto XIX. Descrivendo il poeta l’hora mattutina, dimostra come in quella adormentato li venne una mirabile visione, dalla qual liberato prese il camino, che gli era stato mostrato dall’angelo per salire sul quinto girone» (fol. 58 verso).

    Versi della Divina Commedia copiati: Purg. XIX, 1-51
    Versi della Divina Commedia illustrati: Purg. XIX, 7-32; 40-51

    Audiodescrizione

  • 34/50
    Quinta cornice: avari e prodighi. Dante a colloquio con Adriano V

    Purgatorio, Canto XIX

    GDSU inv. 3533 F

    Com’io nel quinto giro fui dischiuso, 
    vidi gente per esso che piangea, 
    giacendo a terra tutta volta in giuso.     

    Adhaesit pavimento anima mea 
    sentia dir lor con sì alti sospiri, 
    che la parola a pena s’intendea.  

    Nella quinta cornice del Purgatorio, Dante e Virgilio incontrano gli avari e i prodighi che giacciono stesi con il volto a terra, piangendo e intonando inni sacri. Tra i peccatori il poeta riconosce l’anima di papa Adriano V (1276), da Zuccari erroneamente indicato come Adriano IV, che dopo essere salito al soglio pontificio trovò la morte nell’arco di poche settimane. Dante immagina che il pontefice si sia pentito dei propri peccati nel momento estremo della vita: raggiunto l’ambìto traguardo del soglio pontificio, l’improvviso disinganno per la vacuità della gloria mondana lo avrebbe indotto a riflettere sulla propria condotta e a comprenderne gli errori.

    Commento di Federico Zuccari: «Arrivato il poeta su’l quinto girone, finge trovar Papa Adriano quarto, dal quale intende le conditioni di quel luogo e come quivi si purga il peccato dell’avaritia» (fol. 59 verso).

    Versi della Divina Commedia copiati: Purg. XIX, 70-135
    Versi della Divina Commedia illustrati: Purg. XIX, 70-72; 89-90

    Audiodescrizione

  • 35/50
    Quinta cornice: avari e prodighi. Dante e Ugo Capeto

    Purgatorio, Canto XX

    GDSU inv. 3534 F

    Contra miglior voler voler mal pugna; 
    onde contra ‘l piacer mio, per piacerli, 
    trassi dell’acqua non satia la spugna.                        

    Mossimi; e ‘l duca mio si mosse per li 
    luoghi spediti pur lungo la roccia, 
    come si va per muro stretto a’ merli;                 

    ché la gente che fonde a goccia a goccia 
    per gli occhi il mal che tutto ‘l mondo occupa, 
    da l’altra parte in fuor troppo s’approccia.

    Proseguendo nel quinto cerchio tra le anime degli avari e dei prodighi, Dante e Virgilio incontrano l’ombra di Ugo Capeto (Ciapetta), capostipite della “mala pianta” dei Capetingi, il quale si abbandona a una violenta invettiva contro i delitti perpetrati dai sovrani francesi della propria stirpe.

    Commento di Federico Zuccari: «Canto XX. Cupido ancora il poeta di udir più cose da Papa Adriano, fu constretto partire, e seguendo con Vergilio il suo camino, udì ricordare a Ugo Ciapetta alcuni esempi di povertà, altri di liberalità, et altri di estrema avaritia, che si purga in questo quinto girone» (fol. 60 verso).

    Versi della Divina Commedia copiati: Purg. XX, 1-51; 97-132
    Versi della Divina Commedia illustrati: Purg. XX, 4-9; 29-30; 127-129

    Audiodescrizione

  • 36/50
    Quinta cornice: avari e prodighi. Apparizione di Stazio

    Purgatorio, Canto XXI

    GDSU inv. 3535 F

    Et ecco, sì come ne scrive Luca 
    che Cristo apparve a’ due ch’erano ‘n via, 
    già surto fuor de la sepulcral buca,             

    ci apparve un’ombra, e dietr’ a noi venìa, 
    dal piè guardando la turba che giace; 
    né ci addemmo di lei, sì parlò pria,               

    dicendo; frati miei, Dio vi dia pace. 
    Noi ci volgemmo sùbito, et Vergilio 
    rende lui il cenno ch’a ciò si conface.  

    A sinistra, Dante e Virgilio sono intenti ad ascoltare il racconto di Ugo Capeto, illustrato nella tavola precedente. A destra, invece, compare per la prima volta la figura di Publio Papinio Stazio, il “dolce poeta”, che purgatosi dei peccati sta per ascendere al Paradiso: appreso di trovarsi al cospetto dell’autore dell’Eneide, suo paradigma poetico, egli cinge le ginocchia di Virgilio in segno di ammirazione.

    Da questo momento Stazio accompagnerà Dante nella salita al Paradiso, svolgendo una funzione di collegamento con Beatrice. A lui sono affidate le spiegazioni teologiche più complesse che sfuggono alla cultura pagana di Virgilio.

    Commento di Federico Zuccari: «Canto XXI. Nel presente canto altro non si contiene se non che i poeti, seguendo il loro viaggio, furono sopragiunti dall’anima di Statio, la quale essendosi purgata saliva al Paradiso. Finalmente conoscendo che quell’anima era d’un poeta, furono molto rallegrati, et non meno l’anima hebbe letitia d’haver conosciuto Vergilio» (fol. 61 verso).

    Versi della Divina Commedia copiati: Purg. XXI, 7-24; 34-136
    Versi della Divina Commedia illustrati: Purg. XXI, 7-12; 130-131

    Audiodescrizione

  • 37/50
    L’Angelo della giustizia e salita alla sesta cornice

    Purgatorio, Canto XXII

    GDSU inv. 3536 F

    Già era l’angel dietr’ a noi rimaso, 
    l’angel che n’avea vòlti al sesto giro, 
    avendomi dal viso un colpo raso;               

    e quei c’hanno a giustitia lor disiro 
    detto n’havean beati in le sue voci 
    con sitio et sanz’altro, ciò forniro. 

    Dante e Virgilio, in compagnia di Stazio, raggiungono l’angelo della giustizia, che rimuove la quinta P dalla fronte del poeta e li invita a salire verso la sesta cornice.

    Commento di Federico Zuccari: «Canto XXII. Tratta il poeta nel presente canto della sua salita al sesto girone, ove si purga il peccato della gola» (fol. 62 verso).

    Versi della Divina Commedia copiati: Purg. XXII, 1-36; 49-93
    Versi della Divina Commedia illustrati: Purg. XXII, 1-9; 64-93

    Audiodescrizione

  • 38/50
    Sesta cornice. Golosi. Uno strano albero da cui risuonano esempi di temperanza

    Purgatorio, Canto XXII-XXIII

    GDSU inv. 3537 F

    Taceansi amendue già li poeti, 
    di novo attenti a riguardare intorno, 
    liberi dal saliri e da pareti;                          

    et già le quattro ancelle eran del giorno 
    rimase a dietro; et la quint’ era al temo, 
    drizando pur in sù l’ardente corno,           

    quando ‘l mio duca: io credo ch’a lo stremo 
    le destre spalle volger ne convenga, 
    girando il monte come far solemo».        

    Così l’usanza fu lì nostra insegna, 
    et prendemmo la via con men sospetto 
    per l’assentir di quell’anima degna.                

    Elli givan dinanzi, et io soletto 
    di retro, et ascoltava i lor sermoni, 
    ch’a poetar mi davano intelletto.                

    Ma tosto ruppe le dolci ragioni 
    un alber: che trovammo in mezza strada, 
    con pomi ad odorar soavi e buoni;            

    et come abete in alto si digrada 
    di ramo in ramo; così quello in giuso, 
    cred’io, perché persona sù non vada.

    Giunti nella sesta cornice dei golosi, Dante e Virgilio, in compagnia di Stazio, incontrano uno strano albero i cui rami, carichi di frutti, si restringono verso il basso. Dalla roccia sgorga un ruscello di acqua limpida.

    Accostandosi al fusto, i poeti odono strane voci, provenienti dall’alto, che invitano a non toccare i frutti e ripetono incessantemente esempi di continenza.

    Commento di Federico Zuccari: «Giunti i poeti alla cima della scala e voltati a destra per lo girone, trovarono un arbore carico di poma odorifere, sopra ‘l quale si spandeva un’acqua chiara, che scendeva dalla roccia del monte, al quale accostati che si furo i poeti sentirno una voce, che da quell’usciva» (fol. 63 verso).

    Versi della Divina Commedia copiati: Purg. XXII, 115-154; Purg. XXIII, 1-9
    Versi della Divina Commedia illustrati: Purg. XXII, 131-141; Purg. XXIII, 1-6

    Audiodescrizione

  • 39/50
    Sesta cornice: golosi. Incontro con Forese Donati

    Purgatorio, Canto XXIII-XXIV

    GDSU inv. 3538 F

    Sì come i peregrin pensosi fanno, 
    giugnendo per cammin gente non nota, 
    che si volgono ad essa e non restanno,             

    così di retro a noi, più tosto mota, 
    venendo e trapassando ci ammirava 
    d’anime turba tacita e devota.                           

    Ne li occhi era ciascuna oscura e cava, 
    palida ne la faccia, e tanto scema, 
    che da l’ossa la pelle s’informava.   

    Nella sesta cornice del Purgatorio, Dante e Virgilio, accompagnati da Stazio, incontrano la schiera dei golosi, le cui anime appaiono per logico contrappasso di un’estrema magrezza. Tra i peccatori, Dante riconosce l’amico Forese Donati, che gli spiega il supplizio cui è sottoposto: tormentato dalla fame e dalla sete, percorre incessantemente il cerchio intorno alla montagna del Purgatorio senza potersi cibare dei frutti dell’albero che i tre poeti hanno incontrato nella scena precedente.

    Commento di Federico Zuccari: «Canto XXIII. Aspettando il poeta di sapere quel che fosse la voce udita fra l’arbore, fu sopragiunto da una turba d’anime, e riconobbe tra loro quella del Forese, dal quale intende come si purghi il peccato della gola, e come per li preghi di Nella sua moglie era pervenuto sì presto tanto innanti nel Purgatorio» (fol. 64 verso).

    Versi della Divina Commedia copiati: Purg. XXIII, 16-75; 112-133; Purg. XXIV, 1-6
    Versi della Divina Commedia illustrati: Purg. XXIII, 16-24; 31-33; 40-42; 131-133

    Audiodescrizione

  • 40/50
    Sesta cornice: golosi. Arrivo al secondo albero

    Purgatorio, Canto XXIV

    GDSU inv. 3539 F

    Tu ti rimani homai; ché ‘l tempo è caro 
    in questo regno, sì ch’io perdo troppo 
    venendo teco sì a paro a paro».                     

    Qual esce alcuna volta di gualoppo 
    lo cavalier di sciera che cavalchi, 
    e va per farsi honor del primo intoppo:          

    tal si partì da noi con maggior valchi: 
    e’ io rimasi in via con esso i due 
    che fur del mondo sì gran mariscalchi.         

    Et quando innanz’ a noi si entrato fue, 
    che gli occhi miei si feo a lui seguaci, 
    come la mente a le parole sue,                  

    parvemm’ i rami gravidi et vivaci 
    d’un altro pomo, et non molto lontani 
    per esser pur allora vòlto in laci. 

    Assieme a Forese Donati, Dante, Virgilio e Stazio giungono in prossimità di un secondo albero, attorno al quale sono assiepati i golosi con le mani alzate. Una voce li ammonisce di non toccare i frutti, giacché la pianta discende dall’albero della conoscenza del bene e del male da cui Eva colse il frutto proibito.

    Commento di Federico Zuccari: «Canto XXIV. Raggionando il poeta col Forese, giunsero al secondo arbore, dal quale esce voce che raccorda i dannosi essempi della gola» (fol. 65 verso).

    Versi della Divina Commedia copiati: Purg. XXIV, 91-129
    Versi della Divina Commedia illustrati: Purg. XXIV, 103-114

    Audiodescrizione

  • 41/50
    Sesta cornice: golosi. L’Angelo della temperanza e salita alla settima cornice

    Purgatorio, Canto XXIV-XXV

    GDSU inv. 3540 F

    Poi rallargati per la strada sola, 
    ben mille passi et più ci portam’ oltre, 
    contemplando ciascun senza parola.                     

    Che andate pensando sì voi sol tre; 
    sùbita voce disse; ond’io mi scossi 
    come fan bestie spaventate et poltre.  

    Dante, Virgilio e Stazio giungono al cospetto dell’angelo della temperanza, che li invita a salire verso la cornice successiva dopo aver cancellato la sesta P dalla fronte del poeta.

    Commento di Federico Zuccari: «L’angelo mostra a i poeti le scale per salire al settimo et ultimo girone, ove si purga il peccato della carne» (fol. 66 verso).

    Versi della Divina Commedia copiati: Purg. XXIV, 130-154; Purg. XXV, 1-108
    Versi della Divina Commedia illustrati: Purg. XXIV, 130-141; Purg. XXV, 7-9; 19-30

    Audiodescrizione

  • 42/50
    Settima cornice: lussuriosi

    Purgatorio, Canto XXV-XXVI

    GDSU inv. 3541 F

    Et già venuto a l’ultima tortura 
    s’era per noi, et vòlto a la man destra, 
    et eravamo attenti ad altra cura.                       

    Quivi la ripa fiamma in fuor balestra, 
    et la cornice spira fiato in suso 
    che la reflette et via da lei sequestra;               

    ond’ir ne convenia dal lato schiuso 
    ad uno ad uno; et io temeva ‘l foco 
    quinci, et quindi temea, il cader giuso.   

    Nella settima cornice del Purgatorio, Dante e Virgilio, in compagnia di Stazio, contemplano la punizione dei lussuriosi, che camminano entro un muro di fuoco.

    Commento di Federico Zuccari: «Canto XXV. Il poeta narra nel presente canto la lor salita sul settimo et ultimo girone, ove nel foco si purga il peccato della carne» (fol. 67 verso).

    Versi della Divina Commedia copiati: Purg. XXV, 109-139; Purg. XXVI, 1-30
    Versi della Divina Commedia illustrati: Purg. XXV, 109-117; 124-126; Purg. XXVI, 13-15

    Audiodescrizione

  • 43/50
    Settima cornice: lussuriosi. Incontro di due schiere di anime: lussuriosi senza freno e lussuriosi contro natura

    Purgatorio, Canto XXVI

    GDSU inv. 3542 F

    Ché per lo mezzo del camino acceso
    venia gente col viso incontro a questa, 
    la qual mi fece a rimirar sospeso.                

    Lì veggio d’ogni parte farsi presta 
    ciascun’ombra: et basciarsi una con una 
    sanza restar, contente a brieve festa;    

    così per entro loro schiera bruna 
    s’ammusa l’una con l’altra formica, 
    forse a spiar lor via et lor fortuna.       

    Nel secondo disegno dedicato alla cornice dei lussuriosi, sono mostrate le anime dei peccatori che, divise in due schiere, si muovono in direzioni opposte fino a incontrarsi e baciarsi, per poi separarsi di nuovo.

    Dante apprende che nelle due turbe si trovano i lussuriosi che si macchiarono di amore senza freni e quelli che peccarono di amore contro natura.

    Commento di Federico Zuccari: «Giunti i poeti su’l girone sentono dall’anime, che su quello si purgano, ricordare alcuni essempi di castità» (fol. 68 verso).

    Versi della Divina Commedia copiati: Purg. XXVI, 28-102
    Versi della Divina Commedia illustrati: Purg. XXVI, 28-32; 100-102

    Audiodescrizione

  • 44/50
    Settima cornice: lussuriosi. Uscita dalle fiamme e salita al Paradiso terrestre

    Purgatorio, Canto XXVII

    GDSU inv. 3543 F

    Sì come quando i primi raggi vibra 
    là dove ‘l suo fattor il sangue sparse, 
    cadendo Ibero sotto l’alta libra,                  

    e ‘n l’onde in Gange da nuovo riarse, 
    sì stava il sol; onde ‘l giorno sen giva, 
    quando l’angel di Dio lieto ci apparse. 

    Dante, Virgilio e Stazio superano il muro di fuoco della settima cornice e si trovano al cospetto dell’angelo della castità, che cancella l’ultima P dalla fronte del poeta e gli indica la salita verso il Paradiso Terrestre.

    Assopitosi al calar della notte, Dante sogna Lia che coglie fiori nel Paradiso Terrestre.

    Commento di Federico Zuccari: «Canto XXVI [leggi: XXVII]. In questo canto il poeta dimostra come passa la fiamma et arriva al Paradiso terrestre» (fol. 69 verso).

    Versi della Divina Commedia copiati: Purg. XXVII, 1-108;
    Versi della Divina Commedia illustrati: Purg. XVVII, 6-48; 73-74; 92; 97-99

    Audiodescrizione

  • 45/50
    Paradiso terrestre: apparizione di Matelda

    Purgatorio, Canto XXVII-XXVIII

    GDSU inv. 3544 F

    Quel dolce pome che per tanti rami 
    cercando va la cura de’ mortali, 
    oggi porrà in pace le tue fami.                   

    Virgilio inverso me queste cotali 
    parole usò; et mai non furo strenne 
    che fosser di piacere a queste iguali.

    Giunto infine alla sommità della montagna del Purgatorio, Dante entra nel Paradiso Terrestre in compagnia di Virgilio e Stazio. Sulla destra, oltre la riva del fiume Lete, avviene l’incontro con Matelda, forse identificabile con Matilde di Canossa, strenua protettrice della Chiesa, che è raffigurata come una donna di straordinaria bellezza intenta a cogliere fiori.

    Commento di Federico Zuccari: «Paradiso terrestre. Canto XXVII. Giunti i poeti al Paradiso terrestre, Virgilio mette in libertà a Dante l’andare, lo stare e l’operare, come meglio li pareva e piaceva.

    Canto XXVIII. Il poeta, essendo in suo arbitrio di poter fare ciò che più li piaceva, si misse a cercare ogni parte della foresta del Paradiso terrestre, et essendo alquanto proceduto per quello, trovò il fiume Lethe, su per la riva del quale si fermò, e riguardando di là da quello, vidde Matelda, la quale andava su per la fiorita campagna, cantando e con le mani i colti fiori l’un dall’altro scegliendo. Vedendola Dante la pregò tanto che lei si accostò su la ripa del fiume, dove li mostra poi la natura e dispositione del luogo et insieme quella del fiume Eunoe, che medesimamente è fiume del Paradiso terrestre» (fol. 70 verso).

    Versi della Divina Commedia copiati: Purg. XXVII, 115-142; Purg. XXVIII, 1-9; 22-27; 34-36; 40-42; 67-69; 76-109; 112-148
    Versi della Divina Commedia illustrati: Purg. XVII, 124-142; Purg. XVIII, 2-; 14-27; 37-60

    Audiodescrizione

  • 46/50
    Paradiso terrestre: la processione mistica. I sette candelabri

    Purgatorio, Canto XXIX

    GDSU inv. 3545 F

    Poco più oltre, sette alberi d’oro 
    falsava nel parere il lungo tratto 
    del mezzo ch’era ancor tra noi et loro;                        

    ma quand’io fui sì presso di lor fatto, 
    che l’obietto comun, che ‘l senso inganna, 
    non perdea per distanza alcun su atto,                  

    la virtù ch’a ragion discorso ammanna, 
    sì com’elli eran candelabri apprese, 
    e ne le voci del cantare Osanna.                              

    Di sopra fiammeggiava il bello arnese 
    più chiaro assai che luna per sereno 
    di mezza notte nel suo mezzo mese.

    Matelda accompagna Dante nel Paradiso terrestre e resta al suo fianco durante la visione mistica che occupa la parte finale del canto. Dante vede infatti venire sette candelabri d’oro seguiti da ventiquattro seniori e infine un carro trionfale circondato da altre figure in processione.

    L’intonazione mistica della scena è sottolineata dal mutamento della tecnica grafica, che in questa tavola e in quelle seguenti registra l’utilizzo della pietra rossa al posto della penna e dell’inchiostro bruno.

    Commento di Federico Zuccari: «Trionfo della Chiesa. Canto XXIX. Narra in questo canto il poeta come Matelda, finito ch’hebbe di dichiararle alcuni dubbij, cominciò senza posa a cantare il salmo Beati quorum remmisse sunt inquitates, et quorum tecta sunt peccata [Purg. XXIX, 3]; e così cantando andava con lento passo su la ripa del fiume, et Dante similmente la seguiva dall’alta ripa, considerando le mirabil cose le quali vedeva in quel luogo» (fol. 71 verso).

    Versi della Divina Commedia copiati: Purg. XXIX, 43-54
    Versi della Divina Commedia illustrati: Purg. XXIX, 43-51; 73-78

    Audiodescrizione

  • 47/50
    Paradiso terrestre: i ventiquattro seniori

    Purgatorio, Canto XXIX

    GDSU inv. 3546 F

    Quand’io da la mia riva ebbi tal posta, 
    che solo il fiume me facea distante, 
    per veder meglio a’ passi diedi sosta,       

    et vidi le fiammelle andare avante, 
    lasciando dietro a sé l’aer dipinto, 
    e di tratti pennelli avean sembiante;        

    sì che lì sopra rimanea distinto 
    di sette liste, tutte in quei colori 
    onde fe l’arco il Sole, et Delia il cinto. 

    La seconda scena del trionfo della Chiesa illustra l’apparizione dei ventiquattro seniori, ovvero ventiquattro vecchi vestiti di bianco e coronati di gigli che simboleggiano probabilmente i libri dell’Antico Testamento.

    La tavola è priva di commento.

    Versi della Divina Commedia copiati: Purg. XXIX, 70-87
    Versi della Divina Commedia illustrati: Purg. XXIX, 73-84

    Audiodescrizione

  • 48/50
    Paradiso terrestre: il carro trainato dal grifone. Apparizione di Beatrice

    Purgatorio, Canto XXIX-XXX

    GDSU inv. 3547 F

    Io mi rivolsi d’ammiration pieno 
    al buon Virgilio, et esso mi rispose 
    con vista carca di stupor non meno.                       

    Indi rendei l’aspetto a l’alte cose 
    che si moveano incontr’a noi sì tardi, 
    che foran vinte da novelle spose.                                

    La donna mi sgridò: «Perché pur ardi 
    sì ne l’affetto de le vive luci, 
    et ciò che vien di retr’ a lor non guardi?»

    Nel formato eccezionale del disegno, commisurato al tema da rappresentare, è visualizzata l’intera sequenza della processione mistica del Paradiso Terrestre. Dietro i ventiquattro seniori viene un carro, trainato da un grifone e circondato dalle sette virtù teologali e cardinali, sul quale è assisa Beatrice, circondata da nubi di fiori e schiere di angeli. Sugli alberi, in alto, pendono sette nodi nei quali sono iscritti i sette sacramenti.

    La tavola è priva di commento.

    Versi della Divina Commedia copiati: Purg. XXIX, 55-69; 88-154
    Versi della Divina Commedia illustrati: Purg. XXIX, 55-63; 73-81; 88-92; 106-112; 121-122; 130-148; Purg. XXX, 16-32; 64

    Audiodescrizione

  • 49/50
    Paradiso terrestre: rimprovero di Beatrice, confessione di Dante e sua immersione nel Lete

    Purgatorio, Canto XXXI-XXXII

    GDSU inv. 3548 F

    «O’ tu che se’ di là dal fiume sacro», 
    volgendo suo parlare a me per punta, 
    che pur per taglio m’era paruto acro,                         

    ricominciò, seguendo sanza cunta: 
    «dì, dì se questo è vero: a tant’ accusa 
    tua confession, convien’ esser congiunta».

    Il carro si arresta e finalmente giunge il momento in cui Dante può rivedere Beatrice, che gli appare di una bellezza indescrivibile. Il poeta è raffigurato a sinistra assieme a Stazio (Virgilio è ormai scomparso) mentre si copre il volto con le mani in segno di vergogna per i propri peccati; più a destra, Matelda lo immerge nelle acque del Lete e quindi lo affida alle virtù, che danzano al centro del foglio.

    Sullo sfondo, l’immagine del carro legato ai piedi di un albero e dell’aquila che piomba su di esso allude alla materia del canto XXXII.

    La tavola è priva di commento.

    Versi della Divina Commedia copiati: Purg. XXXI, 1-21; 31-36
    Versi della Divina Commedia illustrati: Purg. XXXI, 1-21; 92-96; 100-105; Purg. XXXII, 36-39; 49-60; 112-123; 130-132

    Audiodescrizione

  • 50/50
    Paradiso terrestre: Matelda conduce Dante a bere l’acqua dell’Eunoè, affinché possa “salire a le stelle”

    Purgatorio, Canto XXXIII; Paradiso, Canto I

    GDSU inv. 3549 F

    Così, poi che da essa preso fui, 
    la bella donna mossesi, et a Statio 
    donnescamente disse: «Vien con lui».             

    S’io havesse, lettor, più lungo spatio 
    da scriver, io pur conterei in parte 
    lo dolce ber che mai non m’havrìa satio;         

    ma perché piene son tutte le carte 
    ordite a questa cantica seconda, 
    non mi lascia più ir lo fren dell’arte.        

    Io ritornai da la santissima onda 
    rifatto sì, come piante novelle 
    rinovellate di novella fronda, 

    puro et disposto a salire a’ le stelle.

    L’ultima tavola del Purgatorio rappresenta Dante, a sinistra, che in compagnia di Stazio e Matelda beve l’acqua del fiume Eunoé e, purificato, ascende al cielo, anticipando la materia del primo canto del Paradiso.

    Nel poema dantesco, la salita di Dante all’empireo avviene in presenza della sola Beatrice: qui Federico Zuccari sembra aver trasposto nell’immagine un concetto teologico contenuto nel commento di Cristoforo Landino alla Commedia (1481), nel quale si accenna che solo con le virtù è possibile accedere al Paradiso.

    Commento di Federico Zuccari: «Paradiso terrestre. Canto XXXIII. Seguita nel presente canto la descrittione già incominciata nel precedente, e che alla fine Beatrice l’essortò che la seguitasse.

    Havendoli però fatto prima bere l’acqua del fiume Eunoe, per la quale fu la sua persa virtù ravvivata. E così in compagnia di Beatrice, delle tre virtù theologiche e le quattro cardinali se ne pigliano la via verso il cielo» (fol. 75 verso).

    Versi della Divina Commedia copiati: Purg. XXXIII, 133-145
    Versi della Divina Commedia illustrati: Purg. XXXIII, 109-114; 127-133; 138; Par. I, 74-75

    Audiodescrizione

Dante Istoriato. Purgatorio

La Divina Commedia illustrata da Federico Zuccari

CREDITS

Progetto a cura di Donatella Fratini
Introduzione di Eike D. Schmidt
Testi di Donatella Fratini
Coordinamento: Patrizia Naldini
Editing web: Patrizia Naldini, Simone Rovida, Chiara Ulivi
Campagna fotografica realizzata da Roberto Palermo

Data di pubblicazione: 1 gennaio 2021

AUDIODESCRIZIONI

Le Gallerie degli Uffizi e la RAI Pubblica Utilità mettono a disposizione del pubblico audiodescrizioni di numerosi disegni che compongono la mostra, alle quali accedere cliccando sulla parola "Audiodescrizione" che compare nel testo delle slide. Clicca qui per maggiori informazioni.

Credits
Progetto audiodescrizioni a cura di Rai Pubblica Utilità
Coordinamento Rai Pubblica Utilità: Maria Chiara Andriello, Rosa Coscia, Valentina Gerardi
Coordinamento Gallerie degli Uffizi: Francesca Sborgi, Anna Soffici, Alessandra Vergari, Vera Laura Verona
Adattamento testi a cura di Luca della Bianca
Revisione testi: Laura Donati, Donatella Fratini
Web design: Andrea Biotti
Voce di Federico Pacifici

 

NOTE

Nella trascrizione del Commentario di Federico Zuccari si è cercato di facilitare la lettura seguendo l’uso moderno degli accenti, apostrofi, segni d’interpunzione, maiuscole, minuscole, nella divisione delle parole e nella distinzione tra u e v.
Ogni immagine della mostra virtuale può essere ingrandita per una visione più dettagliata.

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