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Gli Uffizi e Napoleone

  • Gli Uffizi e Napoleone

    Opere, luoghi e memorie nelle collezioni delle Gallerie

    Gli Uffizi e Napoleone
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    INTRO

    Nel luglio 1796, nel pieno della Campagna d’Italia, Napoleone Bonaparte, allora generale ventiseienne, attraversò Firenze in un itinerario fulmineo.  A Palazzo Pitti fu ricevuto dal granduca Ferdinando III di Lorena; l’udienza si tenne in un ambiente raccolto adiacente la Sale Bianca e la Sala di Bona, mentre il pranzo fu offerto in quella delle Nicchie, affacciata sulla piazza. Della città visitò l’Accademia di Belle Arti, il Museo delle Scienze, di cui ammirò le cere anatomiche, e, giungendovi attraverso il Corridoio Vasariano, la Tribuna degli Uffizi, dove rimase folgorato dalla Venere dei Medici.

    Destituiti i Lorena e divenuto imperatore, Napoleone I non tornò più a Firenze dove il suo potere venne rappresentato ed esercitato da Ludovico I re d’Etruria, alla morte di costui dalla vedova Maria Luisa di Borbone e, a partire dal 1809, dalla sorella Elisa Bonaparte Baciocchi, granduchessa di Toscana. Nell’auspicio di una sua venuta, a lui e alla consorte Maria Luisa d’Asburgo si volle destinare l’ala settentrionale del primo piano di Pitti, oggetto di lavori che vennero conclusi ben dopo la rapida parabola della sua fortuna.

    Pur in assenza del Bonaparte, nella reggia e nelle collezioni delle Gallerie non mancano i richiami al mito eroico della sua personalità, e sia dentro che fuori dal palazzo, nel giardino di Boboli, si può percorrere un itinerario articolato tra decorazioni, dipinti, sculture, oggetti e dettagli che definirono un’epoca connotata da uno stile di rinnovata eleganza, ispirato all’antico e allo stesso tempo aperto alla modernità.

    Nel bicentenario della morte di Napoleone, deceduto a Sant’Elena il 5 maggio 1821, a queste testimonianze è dedicata l’ipervisione che prende avvio dalle sale della Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti, cuore del patrimonio del primo Ottocento, e prosegue ponendo l’attenzione su elementi inattesi e meno noti di quella stagione.

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    Sezione 1. L'immagine di Napoleone.

    Napoleone attuò un formidabile programma di propaganda attraverso una lungimirante diffusione della propria immagine e sostenendo le arti con grande generosità, con lo scopo di esaltare la figura del sovrano e quella della nuova imperatrice Maria Luisa d’Asburgo, attraverso un’iconografia ispirata alla Roma augustea. Lo stile impero si diffuse su tutti i territori conquistati dal Bonaparte, compresa la Toscana, come attestano i ritratti dipinti o scolpiti del sovrano e le opere che ne celebrano le gesta militari sul modello dei grandi tableaux alla David, o che illustrano importanti eventi dinastici, come la Nascita del Re di Roma.

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    Sezione 1. L'immagine di Napoleone

    Antonio Canova (Possagno 1757 – Venezia 1822) e bottega

    Busto ritratto di Napoleone Bonaparte

    1810 ca.
    Marmo
    Palazzo Pitti, Galleria d’Arte Moderna, inv. Palatina n. 879

    Il colossale busto, tradizionalmente ritenuto opera di Antonio Canova, fu donato nel 1845 al Granduca di Toscana Leopoldo II di Lorena da Luigi Bonaparte, in segno di gratitudine per l’ospitalità ricevuta a Firenze durante il suo esilio conseguente alla sconfitta del fratello Napoleone Bonaparte.

    Esso si presenta con il petto nudo, la testa rivolta verso destra con la fronte alta, i capelli mossi, il naso pronunciato, la bocca sottile e gli occhi profondi, che contrastano con la classica compostezza del volto, perfetto in ogni suo ogni particolare e aderente ai principi canoviani del “bello ideale”.

    Quest’immagine fiera e dominante ricalca, con minime varianti, il ritratto “dal vero” di Napoleone che Canova eseguì a Parigi nel 1802. Il primo console dei francesi gli concesse ben cinque sedute per modellare il bozzetto in terracotta, il quale servì allo scultore come modello per l’intera e monumentale figura nuda di Napoleone come Marte pacificatore, oggi esposta nella residenza londinese del Duca di Wellington, il generale che sconfisse il temerario condottiero nella battaglia di Waterloo.

    La tipologia di questo busto-ritratto ebbe una fortunata circolazione nel collezionismo internazionale, grazie alle numerose copie che furono eseguite nei laboratori di scultura di Carrara patrocinati dalla sorella Elisa Baciocchi, impegnati nella produzione seriale di immagini celebrative dei membri della famiglia Bonaparte. L’ultima versione autografa del busto risale al 1822, acquisita dal Duca di Devonshire per la sua collezione di sculture a Chatsworth.

     

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    Sezione 1. L'immagine di Napoleone

    Manifattura di Sèvres e Alexandre Brachard (da Antoine-Denis Chaudet)

    Busto di Napoleone Bonaparte

    1807
    Biscuit
    Iscrizione: “A.B. 18.6.7.”, a impressione
    Palazzo Pitti, Galleria d’Arte Moderna, Inv. OdA Pitti, n. 486

    Il busto rappresentato come un’erma antica con l’iscrizione “Napoléon”, ha per archetipo il marmo scolpito da Antoine-Denis Chaudet nel 1799, che fu scelto dal Bonaparte come suo ritratto ufficiale in scultura. Di questo esemplare, nel 1804, la Manifattura di Sèvres chiese all’artista una versione in gesso da tradurre in biscuit. Questa produzione fu destinata alle scrivanie degli uffici del regno, ma fu anche impiegata come dono diplomatico.

    Sul retro del nostro esemplare sono impresse le iniziali del nome del modellatore Alexandre Brachard e la data di esecuzione, 18 giugno 1807. Non è certo quando esso sia giunto a Palazzo Pitti, ma possiamo ipotizzare che sia stato portato nel 1814 da Ferdinando III d’Asburgo Lorena al suo rientro dall’esilio a Würzburg e che questi lo abbia ricevuto in dono da Napoleone, in quanto nel 1811 era stato il padrino al battesimo del figlio, il re di Roma.

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    Sezione 1. L'immagine di Napoleone

    Anonimo sec. XIX

    Apoteosi di Napoleone Bonaparte

    Studio grafico da un disegno di Andrea Appiani
    Gallerie degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe, Inv. 4770F

    Nel 1808 Andrea Appiani, pittore ufficiale del nuovo regime instaurato da Napoleone, eseguì una serie di affreschi coi Fasti napoleonici nel Palazzo Reale di Milano, andati quasi completamente distrutti nel 1943 a causa dei bombardamenti alleati della Seconda Guerra Mondiale. Il disegno conservato agli Uffizi, opera di un copista, riproduce il medaglione ottagonale con la scena dell’Apoteosi, unica testimonianza parzialmente superstite del ciclo affrescato da Appiani assieme a quattro lunette con le Virtù cardinali. La scena, originariamente collocata nel soffitto della sala, è incentrata sulla glorificazione di Napoleone, trionfalmente seduto su un trono sorretto da quattro Vittorie alate, con lo scettro in mano e la corona di alloro sul capo, in veste di antico imperatore. L’esaltazione del suo ruolo di sovrano universale è completata dall'aquila di Giove, simbolo dell'Impero, e da diciassette figure femminili coronate, che alludono alle diverse città, regioni e regni sottoposti al dominio napoleonico.

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    Sezione 1. L'immagine di Napoleone

    Manifattura di Sèvres e Jean Georget (da François Gérard, con varianti)

    Ritratto di Napoleone Bonaparte

    1810
    Porcellana dipinta in policromia, legno dorato (cornice)
    Iscrizione: “Manuf[actu]re Imp[éria]le de Sèvres Georget d’après Gérard 1810”
    Palazzo Pitti, Tesoro dei Granduchi, Inv. 1890, n. 8749

    Lo splendido ritratto di Napoleone I è stato eseguito in scala al vero su una lastra in porcellana. Esso è tratto dal dipinto ufficiale a figura intera realizzato da François Gérard, dove l’effigiato è raffigurato con l’abito indossato durante la cerimonia d’incoronazione a imperatore dei francesi, avvenuta a Parigi nella Cattedrale di Notre-Dame il 2 dicembre 1804. Nell’iscrizione posta sul retro della nostra lastra, oltre alla data di esecuzione 1810, vengono indicati François Gérard come autore dell’archetipo e Jean Georget, allievo di Jacques Louis David, come esecutore della nostro esemplare, dipinto mediante l’impiego di una complessa tecnica di miniatura da ricondurre all’invenzione della Manifattura di Sèvres durante la direzione di Alexandre Brongniart (1800-1847).

    Come altri esemplari realizzati da questa manifattura e conservati a Palazzo Pitti, anche questa lastra fu donata al duca di Würzburg, Ferdinando III d’Asburgo Lorena, in occasione del battesimo del figlio della nipote Maria Luisa d’Asburgo Lorena e del consorte Napoleone avvenuto nel 1811.

     

     

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    Sezione 1. L'immagine di Napoleone

    Manifattura di Sèvres e Étienne-Charles Le Guay (ritratto da François Gérard, con varianti)

    Vaso a forma di fuso con il ritratto di Napoleone Bonaparte

    1809
    Porcellana dipinta in policromia e dorata; bronzo dorato
    Iscrizione: “M. Imple / de Sèvres / 1809”, in rosso; “D.9”, in verde; “16 J. BT”, in oro; “Le Guay d’après Gérard”
    Palazzo Pitti, Galleria Palatina, Inv. AcE, n. 1525

    La forma del vaso evoca quella delle anfore antiche con due anse in bronzo dorato modellate a foggia di girali che terminano in teste d’aquila. Quest’ultima, alludente all’imperatore è stata decorata anche sul retro del nostro esemplare, mentre sul lato frontale è visibile il medesimo ritratto riprodotto, sempre dalla Manifattura di Sèvres, su una lastra in porcellana. Esso è derivato dal dipinto ufficiale eseguito nel 1805 da François Gérard, che riproduce a figura intera Napoleone I con l’abito indossato per la cerimonia d’incoronazione a imperatore dei francesi, avvenuta l’anno precedente a Parigi nella Cattedrale di Notre-Dame.

    La scelta di rivestire il vaso con una campitura in “blu lapis” impreziosita da elementi decorativi in oro è in linea con l’ostentazione sia del lusso della corte francese del primo Ottocento, sia del potere dell’effigiato. Questi tra il 1806 e il 1813 commissionò alla manifattura undici esemplari identici al nostro, dal quale tuttavia differiscono per l’assenza della firma del decoratore Étienne-Charles Le Guay e della data, che lascia ipotizzare trattarsi di un dono di Napoleone I a Ferdinando III d’Asburgo Lorena, zio della futura seconda moglie Maria Luisa

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    Sezione 1. L'immagine di Napoleone

    Laurent Dabos (1762-1835)

    Ritratto di Napoleone Bonaparte

    ante 1810
    olio su tela
    Palazzo Pitti, Galleria d’Arte Moderna, Inv. Poggio Imperiale n. 522

    Il dipinto, ricordato negli inventari fin dal 1810, venne eseguito probabilmente intorno al 1807, ovvero nel momento di transizione tra il Regno di Etruria e l’avvento di Elisa Baciocchi sul trono di Toscana. Si tratta molto probabilmente del modello per un ricamo o per un tavolo in pietre dure, frutto dell’iniziativa della Granduchessa, la quale aveva dato nuovo impulso alle attività della Galleria dei Lavori, commissionando lei stessa diversi piani di consolle o mobili in pietre dure, non solo per adornare la reggia di Pitti, ma spesso per farne dono al fratello. Il volto di Napoleone, raffigurato aulicamente come una divinità classica, ricorda le teste di Giove Capitolino, commesse in piccolo mosaico e posti al centro di piani di tavolo realizzati e diffusi a Roma, sull’esempio di quello oggi conservato nella Palazzina della Meridiana. L’effige appare dunque in tono col rango imperiale del Bonaparte, presentato come un sole che irradia i propri raggi fino a lambire la corona d’alloro che lo circonda, stilisticamente affine alle ghirlande dipinte da Carlo Carlieri e poi tradotte in commesso di pietre dure da Giovan Battista Giorgi.

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    Sezione 1. L'immagine di Napoleone

    Pietro Benvenuti

    (Arezzo 1769-Firenze 1844)

    Il Giuramento dei Sassoni dopo la battaglia di Jena

    1812
    Olio su tela
    In basso a destra, sul secondo gradino “PIETRO BENVENUTI/ FECE IN FIRENZE/NEL 1812
    Palazzo Pitti, Galleria d’Arte Moderna, Inv.  Accademia 539

    La grande, importante commissione imperiale, fu realizzata da Pietro Benvenuti dopo un viaggio compiuto a Parigi tra la fine del 1809 e i primi mesi del 1810. L’incarico gli fu dato per ordine dell’imperatore stesso nella capitale francese. Il dipinto fu terminato nel 1812. Sebbene l’episodio rappresentato fosse avvenuto nelle prime ore del pomeriggio, Benvenuti ambienta la scena di notte nel cortile dell’Università di Jena. Davanti ad un portale sta Napoleone in piedi, circondato dagli ufficiali che avevano partecipato alla battaglia di Jena il 14 ottobre 1806. Davanti a lui è l’aiutante generale Jean Baptiste Bessiéres e poco più indietro il generale Gioacchino Murat con l’uniforme da ussaro. La figura con il turbante è il fedele mamelucco Rustam, portato in Francia dalla campagna d’Egitto nel 1798. Dietro sono il generale Louis Alexandre Berthier e il maresciallo Jean Lannes, anch’essi con l’uniforme ussara. La composizione del dipinto è impostata sul modello del celebre Giuramento degli Orazi di David. È molto probabile che a Benvenuti fossero state fornite come fonti le descrizioni storiche che, con toni celebrativi, comparivano negli scritti ufficiali imperiali, come il “Bullettin de la Grande Armée”.

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    Sezione 1. L'immagine di Napoleone

    Antonio Morghen detto il Tenente (Roma 1788-Firenze 1853)

    Napoleone in slitta alla Beresina (Nevata)

    secondo quarto del XIX secolo
    olio su tela
    Palazzo Pitti, Galleria d’Arte Moderna, Inv. Accademia n. 476

    Questo scenario spoglio e innevato, tipico esempio della produzione del “tenente” Morghen, rivela la suggestione dei paesaggi fiamminghi ed è pervaso da un’atmosfera di struggente malinconia perfettamente adatta ad accompagnare la sconfitta dell’eroe. Il quadro evoca infatti un doloroso episodio dell’epopea napoleonica: durante la disastrosa campagna di Russia, tra il 26 e il 27 novembre del 1812 l’armata francese fu annientata dall’esercito nemico nei pressi della città di Studjanka, attraversata dal fiume Beresina. Il Bonaparte fu costretto ad abbandonare il comando supremo generando nei suoi uomini sentimenti di frustrazione per la disfatta e di vergogna per l’abbandono. Uno stato d’animo vissuto in prima persona ed interpretato con sincera partecipazione da Antonio Morghen, il quale, dopo essere stato avviato alla pittura di paesaggio dal padre Raffaello, celebre incisore, aveva preferito accantonare temporaneamente l’attività artistica, per arruolarsi nell’esercito napoleonico come ufficiale, fino all’esaurirsi della fortuna politica del grande condottiero. Quando riprese a dipingere, intorno al 1820, il Tenente Morghen seppe distinguersi nelle esposizioni accademiche di quegli anni per l’estrema finitezza nella resa pittorica delle diverse situazioni atmosferiche, prediligendo, come qui, gli effetti di neve.

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    Sezione 1. L'immagine di Napoleone

    Luigi Calamatta (Civitavecchia, 21 giugno 1801 – Milano, 8 marzo 1869)

    Maschera di Napoleone Bonaparte

    Sec. XVIII
    matita nera su carta
    Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe, Inv. 20936

    Gli oggetti che determinarono a lungo la storia del culto napoleonico sono le maschere funerarie. Si trattava di un sistema che creava un calco nel viso del defunto, uno dei modi più moderni per registrare le cause dei decessi, perché ancora la fotografia non era stata inventata. Durante il regno di Napoleone la Francia ebbe una grande tradizione nella creazione di questi manufatti. Fu il medico personale di Napoleone Bonaparte, Francesco Antommarchi, ad eseguire l’autopsia dalla quale poi ricavò il calco, che fu trasmesso poi a Lord Burghersh, ambasciatore britannico a Firenze, con l’intento di consegnarla ad Antonio Canova, affinché questi ne realizzasse una scultura. La maschera funebre fu replicata di profilo nel 1840 e a "maniera nera" nel 1844 da Luigi Calamatta. Il segno lasciato dal chiaroscuro mette in evidenza i tratti del volto di Napoleone mentre l’aggiunta di una serie di simboli, dalla corona imperiale all'aquila, ne celebrano il ruolo politico di Imperatore dei francesi.

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    Sezione 2. La Famiglia Bonaparte

    La propaganda artistica napoleonica, che sancì la nascita dello stile Impero, coinvolse in parte anche i componenti della famiglia Bonaparte, ai quali l’imperatore aveva affidato incarichi politici di prestigio, con il preciso intento di controllare capillarmente i vari territori sottoposti al suo dominio. Le collezioni delle Gallerie degli Uffizi conservano una importante raccolta di effigi dei fratelli e delle sorelle di Napoleone dipinti su tela, incisi su medaglie o presentati nell’icastica bellezza ideale di busti all’antica realizzati in marmo o in biscuit.

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    Sezione 2. La famiglia Bonaparte

    Carl Friedrich Voight (Berlino 1800 – Trieste 1874)

    Ritratto di Giuseppina de Beauharnais Bonaparte

    1825 circa
    Medaglia in cera e bronzo
    Palazzo Pitti, Galleria d’Arte Moderna
    Inv. OdA Pitti (1911) n. 51

    Il profilo di Joséphine si staglia elegante sullo sfondo nero del cameo, echeggiando in alcuni dettagli come la bocca troppo sottile, il collo appena arcuato, i capelli acconciati alla greca, la fisionomia del celebre ritratto di François Gérard, oggi all’Ermitage di San Pietroburgo. Colei che fu definita “la piccola creola”, era dotata di una grazia naturale unita alla consapevolezza di sé, doti che avevano attratto Napoleone Bonaparte al punto da sceglierla come sposa nel 1796, quando era ancora generale, e renderla poi imperatrice dei francesi. Pur essendo nata in Martinica, col nome di Marie-Josèphe-Rose de Tascher, ella era destinata a passare alla storia non come Rose, ma come Joséphine cambiandosi il nome di battesimo, secondo un’abitudine comune anche alle sorelle di Napoleone. Fu Giuseppina ad acquistare il celebre castello di campagna della Malmaison, coltivandovi le sue infinite varietà di rose e fiori e facendone la residenza prediletta della coppia Bonaparte, arricchita dalla collezione d’arte che comprendeva alcune opere sottratte da Napoleone durante la campagna d’Italia.

    L’autore di questo prezioso manufatto, Carl Voight, capo incisore e medaglista presso la zecca reale di Monaco di Ludwig di Baviera dal 1825 al 1855, si era sposato nel 1830 con la pittrice e miniaturista Teresa Fioroni a Roma, città dove aveva vissuto tra il 1825 ed il 1829, divenendo amico dello scultore Bertel Thorvaldsen e del pittore nazareno Peter Cornelius. Del resto, la resa del volto, circoscritto da una linea astrattiva, richiama lo stile purista di questi artisti.

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    Sezione 2. La famiglia Bonaparte

    Manifattura di Sèvres e Augustin Liancé o Alexandre Brachard (da François Joseph Bosio)

    Busto dell’imperatrice Maria Luisa d’Asburgo Lorena

    1811
    Biscuit; marmo grigio (base)
    Iscrizione: “Sevres; A B 8.M.rs O Z; A L” a impressione
    Palazzo Pitti, Galleria d’Arte Moderna, Inv. OdA Pitti n. 212

    Il busto è la fedele traduzione in biscuit del ritratto ufficiale dell’imperatrice Maria Luisa d’Asburgo Lorena commissionato dal consorte Napoleone Bonaparte allo scultore François Joseph Bosio e presentato al Salon di Parigi del 1810. La scelta di realizzarlo in biscuit è motivata sia dalla similitudine visiva con il candore del marmo, particolarmente apprezzato in epoca neoclassica, sia da una migliore definizione dei dettagli scultorei, dovuta all’assenza dell’invetriatura.

    Il nostro esemplare fu donato il 21 giugno 1811 al granduca di Würzburg, Ferdinando III d’Asburgo Lorena in occasione del battesimo del re di Roma, del quale era padrino, come confermato dall’iscrizione a incusso nella pasta. Essa fornisce anche la data di esecuzione, 8 marzo 1811, insieme alle inziali “AL”, da identificare nel modellatore Augustin Liancé, e “A B” variamente ricondotte al direttore della fabbrica, Alexandre Brongniart, oppure allo scultore Alexandre Brachard, esecutore in quell’anno di alcuni busti dell’imperatrice.

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    Sezione 2. La famiglia Bonaparte

    Manifattura di Sèvres e Marie-Philippe Coupin de La Couperie

    Vaso ovale

    1811
    Porcellana dipinta in policromia e dorata
    Iscrizione: “XX.MARS.MDCCCXI”; “Coupin End. fecit”
    Palazzo Pitti, Galleria d’Arte Moderna, Inv. Mobili Palazzo Pitti, n. 16969

    Questo vaso a forma ovale e privo di anse appartiene ai doni di Napoleone I a Ferdinando III d’Asburgo Lorena, per essere stato il padrino al battesimo del figlio, il Re di Roma, avvenuto nel 1811 nella Cattedrale di Notre-Dame a Parigi. In questa occasione ricevette dall’imperatore anche altre porcellane realizzate nella Manifattura di Sèvres che nel 1814, di ritorno dall’esilio, portò con sé a Palazzo Pitti.

    Nel decoro di questo esemplare sono visibili in un medaglione sul retro gli attributi imperiali dell’aquila con le ali spiegate e con i trofei militari, mentre in quello frontale è raffigurata in policromia l’Allegoria di Imene. In relazione al citato battesimo, essa è stata interpretata come la rappresentazione di Napoleone I e della seconda consorte Maria Luisa d’Asburgo Lorena nell’atto di sollevare il proprio figlio verso la statua del dio Marte. Come rivelato dalla firma apposta sul vaso, l’ideatore e decoratore di questa scena è Marie-Philippe Coupin de La Couperie, che la disegnò nel 1809.

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    Sezione 2. La famiglia Bonaparte

    Francesco Pozzi (Portoferraio 1790 – 1844)

    Busto di Paolina Bonaparte Borghese

    1816 ca.
    marmo
    Palazzo Pitti, Galleria d’Arte Moderna 
    Inv. O.d.A. 1911 n. 489; Depositi GAM n. 67

    Maria Paola Bonaparte, chiamata Paoletta e passata alla storia come Paolina Borghese, la “leggiadra principessa” immortalata da Canova come Venere vincitrice, spirava all’età di 45 anni nell’ex villa Strozzi nel contado di Firenze, dopo una vita dissoluta tra capricci amorosi e infedeltà coniugali.

    Nata ad Ajaccio, in Corsica, nel giorno di Venere del 20 ottobre 1780, fin da bambina Paolina si era contraddistinta per il suo temperamento anticonformista e per una sua avvenenza e qualità quasi divine. Si dice che fosse forte e vendicativa come Atena, sensuale e ammaliatrice come Afrodite, potente e senza scrupoli come Era, dolce e perfetta come Venere.

    Rispetto alle sue sorelle, Elisa Baciocchi e Carolina Murat, Paolina fu la più affezionata al fratello Napoleone, sostenendo le sue azioni politiche e confortandolo negli anni in cui fu esiliato all’Elba e poi a Sant’Elena.

    Il busto di Paolina Bonaparte Borghese, presente a Palazzo Pitti, fu eseguito dallo scultore toscano Francesco Pozzi durante il suo pensionato a Roma e donato al Granduca di Toscana nel 1819. Lo stile di Pozzi riflette l’idea di bellezza divina del personaggio, in cui l’equilibrio simmetrico della composizione e l’idealizzazione del volto sono debitori del classicismo canoviano. Tuttavia alcuni elementi naturalistici, come l’acconciatura a boccoli cadenti trattenuti da una fascia che le cinge la testa, richiamano lo stile Impero del tempo, in cui Paolina fu protagonista d’eccezione.

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    Sezione 2. La famiglia Bonaparte.

    Real Fabbrica di Napoli, gestione Poulard Prad

    Tazzina con l’effigie di Carolina Bonaparte Murat

    1810 circa
    Biscuit e porcellana dorata
    Palazzo Pitti, Tesoro dei Granduchi, Inv. AcE n. 1014

    La tazzina eseguita nella Real Fabbrica di Napoli riproduce a rilievo il ritratto di Carolina Bonaparte, moglie del re di Napoli, Giovacchino Murat e sorella minore di Napoleone I. La scelta di trattare la superficie esterna a biscuit consente un’esaltazione dei tratti fisionomici del volto dell’effigiata. La smaltatura interna, invece, si è resa necessaria per evitate che il caffè scurisse la porcellana, ma è stata esaltata dalla doratura, evidente allusione alla committenza reale.

    Il modello del nostro esemplare potrebbe essere giunto alla manifattura napoletana, per il tramite di Carolina, poiché un’analoga “chicchera” era stata prodotta negli stessi anni dalla manifattura francese di Dagoty, che godeva della protezione imperiale.

    Possiamo ipotizzare che l’esemplare qui presentato sia appartenuto a Elisa Baciocchi, sorella di Carolina e di Napoleone, divenuta granduchessa di Toscana nel 1809. Potrebbe esso stesso aver ispirato intorno al 1813 alla Manifattura Ginori di Doccia il modello per la realizzazione di una tazzina con il volto della Baciocchi.

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    Sezione 2. La famiglia Bonaparte

    Jean-Baptiste Wicar (copia da) (Lille 1762 – Roma 1834

    Ritratto di Luigi Bonaparte

    1817
    olio su tela
    Palazzo Pitti, Galleria d’Arte Moderna, Inv. 1890 n. 3561

    Luigi era considerato il fratello prediletto di Napoleone, il quale lo aveva posto sul trono di Olanda imponendogli il matrimonio con Hortense de Beauharnais, figlia di Giuseppina Bonaparte e del primo marito di lei, il conte Alexandre de Beauharnais. A causa delle profonde divergenze insorte col fratello imperatore, nel 1810 Luigi decise di abdicare a favore del figlio Luigi Filippo, ma quest’ultimo rimase sul trono pochi giorni, dato che Napoleone preferì annettere i Paesi Bassi alla Francia. In questo ritratto Luigi indossa la divisa bianca e vermiglia dei dragoni d’Olanda con le decorazioni bene in evidenza sul petto.         

    Presso il Museo Napoleonico di Roma si trova un altro dipinto di Wicar contemporaneo a questo, nel quale il protagonista è ritratto con la stessa scintillante uniforme dell’esercito francese, assieme al figlio più amato, il giovinetto Napoleone Luigi. Fu tuttavia l’altro figlio, Carlo Luigi Napoleone Bonaparte, a fare carriera, essendo prima eletto Presidente della Repubblica, dal 1848 al 1852, e successivamente, autoproclamatosi Imperatore dei francesi, col titolo di Napoleone III (1852-1870).

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    Sezione 3. Il Regno di Etruria

    Le truppe napoleoniche entrarono a Firenze il 7 aprile del 1799 e due anni dopo il Trattato di Luneville sancì la fine del dominio dei Lorena con la rinuncia alla Toscana a favore dei conquistatori francesi. Fu così creato il Regno d’Etruria, formalmente assegnato a Lodovico e Maria Luisa di Borbone, ma di fatto sotto il controllo di Napoleone. Così, il 12 agosto del 1801 la coppia reale fece il suo ingresso solenne a Firenze e fin dal principio vi introdusse uno sfarzo inconsueto rispetto alla sobrietà borghese della corte dei Lorena: dopo la prematura scomparsa di Lodovico, avvenuta nel 1803, la giovane vedova, reggente per il figlio ancora piccolo, Carlo Lodovico, mantenne la sontuosa etichetta in voga presso la corte spagnola e Palazzo Pitti divenne teatro di balli e ricevimenti lussuosi, ai quali erano invitati i maggiori esponenti dell’aristocrazia europea.

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    Sezione 3. Il Regno di Etruria

    Ambito toscano

    Ritratto di Lodovico di Borbone re d’Etruria

    1802
    olio su tela
    Palazzo Pitti, Galleria d’Arte Moderna, Inv. 1890 n. 2832

    Il 21 marzo 1801 la convenzione di Aranjuez trasformava la Toscana in Regno d’Etruria, affidandolo, con un incarico fantoccio voluto da Napoleone, a Lodovico di Borbone, figlio del Duca di Parma e a sua moglie, Maria Luisa, figlia di Carlo IV re di Spagna. I novelli re Borbone fecero il loro ingresso a Firenze il 10 agosto 1801 dove furono accolti con freddezza: guardati con sospetto dagli intellettuali, che li giudicavano dei reazionari ed invisi anche all’aristocrazia fiorentina che li considerava stranieri ed emissari di Napoleone, e come tali nemici. I primi anni di governo evidenziarono l’inconsistenza politica del sovrano, dall’equilibrio psichico instabile e affetto da una grave forma di epilessia che lo porterà poi alla morte il 27 maggio del 1803 a soli trent’anni. In una graffiante sintesi, la contessa d’Albany ci ha restituito un ritratto tutto sommato benevolo ma anche ironico del carattere del sovrano borbonico: “Se ragionasse non sarebbe peggiore, perché è arguto e vuole il bene, ma assomiglia a re Saul […] oppresso dalla vendetta di Dio per aver portato via il regno ad un altro”.

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    Sezione 3. Il Regno di Etruria

    Wilhelm Titel (Boltenhagen 1784 – Greufswald 1807)

    Ritratto della Regina d’Etruria con i figli Carlo Lodovico e Luisa Carlotta

    1807

    Olio su tela

    In basso a destra, a lapis: “le braccia troppo lunghe”; sul retro firmato in basso a destra con pennello rosso nell’ovale: “G. Titel svedese fece 1807”

    Palazzo Pitti, Galleria d’arte moderna

    Inv. Depositi 636

    Maria Luisa Josefina Antonieta Vicenta infanta di Spagna era figlia di Carlo IV e, per ragioni dinastiche, sposa bambina appena tredicenne, del cugino Lodovico di Borbone, principe ereditario del Ducato di Parma. Nell’agosto del 1801 seguì a Firenze il consorte, proclamato re d’Etruria per volontà di Napoleone, in applicazione del trattato di Lunéville, in cambio della cessione ai francesi del Ducato parmense. A seguito della prematura morte di Lodovico I, avvenuta nel 1803, la giovane moglie dovette occuparsi dell’amministrazione dello Stato assumendo la reggenza per conto del figlio, ancora fanciullo, Carlo Lodovico. Saggia e molto devota, Maria Luisa è stata una figura particolarmente attenta alla cura e al risanamento delle finanze pubbliche ed all’’istruzione.

    Ella è raffigurata nella sua funzione di reggente, mentre attira a sé il figlio maggiore, il futuro Duca di Lucca Carlo Lodovico, nato nel 1799, e tiene in braccio la piccola Maria Luisa Carlotta, nata nel 1802 e destinata a sposare l’anziano e malaticcio duca Massimiliano di Sassonia. Il piccolo re d’Etruria indossa il grande nastro blu e bianco con i colori dell’ordine spagnolo di Carlo III, mentre la bambina indica il padre defunto ritratto sul medaglione che tiene orgogliosamente in mano. Lo stile “reggenza” era fortemente influenzato dalla moda etrusca, come attestano sia il diadema con cammei antichi che adorna la testa di Maria Luisa, sia lo schienale della sua sedia, che riprende i repertori di incisioni per ornati all’”etrusca”, secondo un gusto decorativo molto apprezzato dalla sovrana, tanto da sceglierlo anche per la mobilia della propria camera.

    Come risulta dalla firma recentemente ritrovata, il dipinto è una copia molto fedele tratta dall’originale perduto di Pietro Benvenuti eseguito nel 1806, che era stato valutato molto positivamente dal senatore Giovanni Degli Alessandri, Presidente dell’Accademia di Belle Arti, al punto da proporre alcuni regali da aggiungere al compenso dovuto al pittore. La regina stessa teneva l’originale benvenutiano in grande considerazione ed infatti, prima che se ne perdessero le tracce, esso figurava ancora nell’inventario dei beni consegnati alla sovrana alla sua partenza da Firenze nel dicembre 1807, quando il trattato di Fontainebleau sancì la fine del Regno di Etruria.

    Il pittore svedese Titel, autore di questa copia, si era formato a Dresda intorno al 1801 entrando in contatto con Gaspar David Friedrich, per poi soggiornare in Italia, tra Roma e Firenze, dal 1806 al 1819. Nei primi anni della sua permanenza nel capoluogo toscano, dove era stato ospitato dal paesaggista Philipp Hackert, egli aveva ottenuto una certa fama come copista e ritrattista ed a quel periodo si fa risalire anche questa replica, frutto di uno studio compiuto direttamente sull’originale dell’illustre maestro Benvenuti.

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    Sezione 3. Il Regno di Etruria

    François-Xavier Fabre (attr.) (Montpellier 1766 – Firenze 1837)

    Ritratto di Maria Luisa di Borbone regina d’Etruria

    1803
    Olio su tela
    Palazzo Pitti, Galleria d’Arte Moderna
    Inv. 1890 n. 5200

    L’effigie a mezzo busto di Maria Luisa di Borbone, di impostazione strettamente neoclassica, era servito come studio per un grande ritratto ufficiale della famiglia borbonica eseguito da Francois-Xavier Fabre tra il 1803 ed il 1804 ed inviato in Spagna. Il pittore, fuggito a Firenze da Roma a causa delle sollevazioni antifrancesi, divenne amico della contessa d’Albany ed in seguito artista di corte di Elisa Baciocchi. Malgrado la regina borbonica fosse tozza e grassoccia, di aspetto poco regale e addirittura con la gobba ed un’anca sbilenca, Fabre riuscì a temperare i difetti fisici che la caratterizzavano, come il mento pesante e la testa incassata sulle spalle, esaltando per contrasto alcuni dettagli del suo volto, come la dolcezza dello sguardo, i lineamenti fini e l’incarnato fresco. Il gusto del pittore per la preziosità dei particolari emerge poi nella delicata acconciatura della sovrana, con aigrette (ornamento formato da un pennacchio di penne), perle e rose intrecciate nei capelli. Maria Luisa indossa un leggero abito stile impero, legato sotto il seno da un nastro blu e bianco, i colori dell’ordine spagnolo di Carlo III e arricchito dalla presenza di due gioielli ben in vista: l’ordine della croce Stellata, di derivazione asburgica e l’ordine di Maria Luisa, creato per lei dal padre Carlo IV di Spagna, ad attestare la passione quasi maniacale che ella nutriva per questo genere di onorificenze.

    Una simile ostentazione di potere e di riconoscimenti nobiliari si rivelerà alla prova dei fatti molto distante dall’attualità politica, che dimostrerà la natura effimera del regno d’Etruria, ben presto destinato a cadere per volontà di quello stesso Napoleone che lo aveva creato.

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    Sezione 3. Il Regno di Etruria

    Antonio Canova (Possagno 1757 - Venezia 1822)

    Venere Italica

    1811-1812
    marmo
    Palazzo Pitti, Galleria Palatina, Inv. Palatina (1812) n. 878

    Nel 1802, di passaggio a Firenze e al culmine della sua notorietà, Antonio Canova ricevette dal re di Etruria, Ludovico di Borbone, l’incarico di sostituire con una copia la Venere dei Medici [LINK SCHEDA] che, già esposta al centro della Tribuna degli Uffizi, l’11 settembre dello stesso anno era stata requisita dalle autorità francesi destinandola al Louvre.

    Dapprima riluttante all’idea della replica, lo scultore veneto alla fine accettò, allettato sia dalla proposta di sostituire un tale capolavoro, sia dalla forte connotazione patriottica che da subito aveva assunto l’impresa. Tuttavia nel frattempo Canova ebbe l’idea di sfidare la statua antica con una Venere in piedi, stavolta di sua invenzione. Questa prestigiosa commissione gli fu confermata nel 1805 dalla regina reggente d’Etruria, Maria Luisa di Borbone e si finì per accantonare l’idea di una replica gemella dell’antica.

    Nel 1809 la nuova sovrana Elisa Baciocchi, appena insediata al rango di Granduchessa di Toscana dal fratello Napoleone, riuscì a convincere l’imperatore a pagare a Canova i 25.000 franchi convenuti ed il 29 aprile del 1812 la Venere Italica raggiunse la Tribuna dell’Imperiale Galleria di Firenze, ma, anziché sul piedistallo della statua medicea, fu collocata su una nuova base girevole, per far risaltare le novità della sua creazione. La divinità canoviana si discostava infatti dall’illustre modello, essendo raffigurata nel momento in cui si asciuga pudicamente dopo essere uscita dal bagno, con ai suoi piedi il vaso di unguenti profumati. La grazia naturale è accentuata rispetto alla convenzionalità del bello ideale: una bellissima donna, capace di far innamorare, mentre l’antica è un’impassibile, sia pure bellissima Dea, secondo la celebre contrapposizione di Ugo Foscolo.

    Dopo la caduta di Napoleone, nel 1815 Canova si recò a Parigi come emissario dello stato pontificio per trattare la restituzione delle opere sottratte dal Bonaparte e la Venere antica riprese il suo posto nella Tribuna, mentre l’Italica, ormai spodestata, fu trasferita a Palazzo Pitti.

    Sala di Venere
    Architettura | Gli Uffizi
    Scheda opera
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    Sezione 3. Il Regno di Etruria

    Arte ellenistica

    Venere dei Medici

    Fine II sec. a. C. - Inizio I sec. a. C.
    Marmo pario variante lychnite
    Uffizi, Tribuna,  Inv. 1914 n. 224

    La mattina venne con tutti i suoi generali di seguito alla Galleria. Si trattenne molto sulla Venere, mi parlò molto di essa. Mi disse che stessi attento che la Toscana non dichiarasse guerra, perché l’avrebbe portata a Parigi”. Tommaso Puccini, direttore della Galleria degli Uffizi, a cui si deve questo ricordo della visita di Napoleone al museo avvenuta il primo luglio del 1796, prese molto sul serio la minaccia del suo illustre ospite. Quando, nel settembre del 1800, Puccini organizzò il trasferimento a Palermo delle opere più importanti della Galleria per sottrarle all’imminente arrivo delle truppe francesi, la Venere dei Medici era la prima della lista. Napoleone, però, sapeva mantenere una promessa e, due anni dopo, con un fulmineo blitz condotto nel più assoluto disprezzo di ogni norma del diritto internazionale, la statua fu sequestrata da un manipolo di soldati francesi e fu imbarcata su una nave che, dalla Sicilia, la condusse a Marsiglia. Il 16 agosto del 1803 il Primo Console ebbe così la gioia di poter ammirare la Venere fiorentina al centro della Salle de Vénus, forse l’ambiente più grandioso e magniloquente del nuovo Musée Napoléon. Per dodici anni la statua fu uno dei vanti della raccolta parigina, dove, per la prima e unica volta nella sua storia espositiva, convisse con l’altro archetipo classico del bello femminile, la Venere Capitolina, che già nel 1797, sempre per volontà di Napoleone, aveva lasciato Roma.

    Venere de' Medici
    Architettura | Gli Uffizi
    Scheda opera
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    Sezione 3. Il Regno di Etruria

    Giovanni Socci (Ponte a Ema, Firenze 1755c. – Firenze 1842)

    Scrivania

    1807 post
    Legno di mogano e olmo, bronzi dorati
    Palazzo Pitti, Galleria d’arte moderna 
    Inv. MPP 1911, n.17182

    Il prezioso mobile che da chiuso si presenta di forma compatta e pianta ovale, costituisce una replica con varianti di un altro scrittoio realizzato con certezza nel 1807 per la Regina d’Etruria Maria Luisa di Borbone, ora situato nell’Appartamento degli arazzi, sempre a Palazzo Pitti.

    Autore di entrambi è Giovanni Socci, il quale, in questo esemplare esposto presso la Galleria d’arte moderna, si dichiara ebanista a Firenze con bottega in piazza dei Mozzi, come cita una targhetta in ottone visibile al suo interno.

    Ad affascinare è il complesso meccanismo che consente di far scorrere dal corpo principale una sedia, di estrarre un piano che rivela un ulteriore pianetto, se necessario inclinabile a leggio, mentre sul retro è possibile sollevare uno scaffalino a scomparti, utilizzato per riporre lettere e accessori per la scrittura.

    I mobili meccanici furono particolarmente ricercati a partire dal XVIII secolo e questi del Socci, di foggia elegante e misure contenute, godettero del favore di entrambe le sovrane napoleoniche visto che anche Elisa Baciocchi se ne fece realizzare una ulteriore versione, attualmente non identificata.

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    Sezione 3. Il Regno di Etruria

    Galleria dei Lavori

    Centro tavola

    1807-1816
    Lapislazzuli, calcedoni, bronzo dorato
    Palazzo Pitti, Galleria d’arte moderna, Inv. Argenti senza estimo n. 79

    Su un fondo di puro lapislazzuli, incorniciato da un motivo continuo di palmette, giri di nastri e perle in calcedonio, staccano due trionfi militari e tre corone di foglie, di quercia quella mediana, e di ulivo le laterali, queste ultime in origine arricchite dal monogramma napoleonico. Il prezioso centro tavola era infatti destinato all’imperatore.

    Il progetto risale a Maria Luisa di Borbone, regina d’Etruria, e fu avviato all’inizio del 1807 nei laboratori fiorentini delle Gallerie dei Lavori, specializzati nella realizzazione di commessi in pietre dure. Né Napoleone, né la prima committente, e neppure Elisa Baciocchi che ne proseguì l’iniziativa, videro il lavoro completato.

    Lo splendido dessert arrivò a Pitti solo nel 1816.

    Ferdinando III di Lorena, nel frattempo reintegrato sul trono del granducato, ordinò l’eliminazione delle “N”, riferimento all’usurpatore, in un gesto che sanciva simbolicamente l’avvenuta Restaurazione. Facendolo rifinire solo da una semplice montatura in bronzo dorato ne rispettò tuttavia l’eleganza sintetica e austera, propria del primo stile impero. Un carattere stilistico che qualifica il pezzo come un raro capolavoro di quell’epoca appena conclusa. 

    Centrotavola di Elisa Baciocchi
    Architettura | Gli Uffizi
    Scheda opera
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    Sezione 3. Il Regno di Etruria

    Luigi Sabatelli (Firenze, 21 febbraio 1772 – Milano, 29 gennaio 1850)

    Il sogno di Salomone

    Palazzo Pitti Quartiere della Meridiana
    1807
    affresco

    Negli ultimi anni della sua Reggenza, Maria Luisa di Borbone decise di riallestire il Quartiere della Meridiana, oggi sede del Museo della Moda e del Costume. In particolare, nel 1807, incaricò Luigi Sabatelli, uno degli artisti più apprezzati del momento, di dipingere a fresco la volta della sua camera da letto, raffigurando entro un medaglione il Sogno di Salomone, la più antica decorazione pittorica che si conservi nella palazzina.

    L’ episodio biblico tratto dal Primo Libro dei Re, racconta come il sovrano di Israele, successore al trono dopo la morte del padre David e giovane fanciullo ancora inesperto, pregasse in sogno Dio affinché gli desse la saggezza necessaria per governare con giustizia il suo popolo. Secondo le intenzioni della committente, il tema antico doveva alludere alla futura speranza di governo del figlio, il dodicenne Carlo Lodovico, in nome del quale Maria Luisa era reggente dopo la morte del marito, Lodovico di Borbone, avvenuta nel 1803: un chiaro riferimento all’attualità politica fiorentina che Sabatelli evidenzia abilmente inserendo nella composizione elementi di arredo in stile impero simili a quelli che in quei mesi si andavano collocando proprio nella Meridiana, quali il sontuoso letto dove riposa Salomone ed il tavolino rotondo dove è posta la corona, metaforicamente quasi in bilico.

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    Sezione 4. Elisa Baciocchi e la sua corte fiorentina

    Il 27 ottobre del 1807, a seguito del trattato di Fointainebleau, la Toscana divenne dipendenza della Francia e due anni dopo Napoleone Bonaparte ripristinò il Granducato di Toscana per la sorella Elisa che, a partire dal 1805 era già principessa di Lucca e Piombino. Appena insediatasi in Palazzo Pitti col marito Felice Baciocchi, Elisa vi introdusse una politica di rinnovato mecenatismo, in grado di richiamare a Firenze scultori di fama europea come Antonio Canova e Lorenzo Bartolini, pittori come Luigi Sabatelli e Pietro Benvenuti, celebri musicisti quali Spontini e Paisiello, mentre, Ugo Foscolo componeva il poema Le Grazie, ispirato dall’atmosfera di raffinata eleganza assimilabile alle corti rinascimentali che animava la reggia fiorentina.

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    Sezione 4. Elisa Baciocchi e la sua corte fiorentina

    Pietro Benvenuti (Arezzo 1769-Firenze 1844)

    Elisa Baciocchi in mezzo alla sua corte e circondata dai suoi artisti

    1813
    Olio su tela
    Musée National du Chateau de Versailles et de Trianon, Versailles

    Nella primavera del 1812 Canova soggiornava a Firenze, dove, oltre a seguire la collocazione e lo scoprimento della Venere Italica, modellò anche il busto di Elisa tra aprile e maggio. A Benvenuti fu dato l’incarico di immortalare l’evento in una tela di grandi dimensioni che, contemporaneamente, celebrasse il mecenatismo della granduchessa e la grandezza dello scultore. Sebbene si fosse ispirato alla ritrattistica ufficiale imperiale, come se la tela fosse l’immagine di una cerimonia solenne, Benvenuti ha però modificato la tradizione francese, mettendo sullo stesso piano la famiglia granducale, i dignitari di corte, le dame di compagnia, in gran parte appartenenti all’aristocrazia fiorentina e gli artisti da lei protetti. Elisa Baciocchi domina seduta sul trono sopra la pedana. In abito bianco con ricamo d’oro, che spicca sul rosso del trono, posa come una musa inspiratrice di tutti gli artisti che la circondano nell’intento di apparire erede dei grandi protettori delle arti in Firenze. Ventisei personaggi a grandezza naturale affollano la tela. Davanti alla sovrana, Canova sta in piedi mostrando anche a Felice Baciocchi il busto posto sopra l’elegante piedistallo a colonna. A fianco della sovrana è il barone Giovanni Degli Alessandri. A sinistra, oltre alla dame di corte, si riconoscono gli artisti Giovanni Antonio Santarelli in atto di conversare con Tommaso Puccini, Raffaello Morghen, e Salomon Guillaume Counis. Al centro, impegnati entrambi al cavalletto a delineare il volto della sovrana, sono Francois Xavier Fabre e Benvenuti, il primo sulla tela, il secondo sul foglio. Dietro il colonnato, nell’angolo destro, si apre la veduta di Firenze, novella “Atene di Italia”.

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    Sezione 4. Elisa Baciocchi e la sua corte fiorentina

    Pietro Benvenuti (Arezzo 1769-Firenze 1844)

    Studio per composizione di Elisa e la sua cort 

    Carboncino, tracce di biacca e acquarello
    1812
    Gallerie degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe, inv. n.95672v

    Il foglio documenta un pensiero iniziale per la composizione della grande tela di Versailles. In posizione definitiva è già raffigurata la sovrana. Assente il Degli Alessandri, mentre già inseriti sono Benvenuti, Fabre e Canova. Appena accennati sono i personaggi a sinistra. La piccola Napoleona è in piedi accanto alla madre in segno della speranza che la madre riponeva nel suo avvenire. Nel dipinto ella tiene vicino a se un levriero, forse lo stesso scolpito da Lorenzo Bartolini insieme alla giovinetta nuda intorno al 1810-1812. Dietro la fanciulla sono rappresentate due governanti. Il busto di Elisa è posto sopra uno sgabello e Canova poggia il piede sopra una traversa. Nella tela tale oggetto, sostituito in un altro foglio da un supporto fatto di blocchi, è poi diventato una colonna. Questa sequenza corrisponde al cambiamento delle pose, prima in atelier, poi in una sala prestata a Canova in Accademia, e ancora in una riunione a corte, per concludere il lavoro nell’appartamento della granduchessa a Palazzo Pitti.

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    Sezione 4. Elisa Baciocchi e la sua corte fiorentina

    Pietro Benvenuti (Arezzo 1769-Firenze 1844)

    Studio per composizione di Elisa Baciocchi e la sua corte

    Matita di grafite, matita nera su carte preparata
    1813
    Gallerie degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e Stampe, inv. n.96574r   

    La grande tela ora a Versailles fu realizzata per fasi e i molti disegni preparatori conservati agli Uffizi documentano in modo dettagliato i vari momenti. Questo è l’ultimo disegno di insieme, il più prossimo al dipinto, nel quale il vero protagonista della scena diviene Canova. Oltre ad essere tracciato il colonnato dorico in cui si svolge la scena nella stesura definitiva, fa la sua prima comparsa, in posizione preminente, il barone Giovanni degli Alessandri, allora presidente dell’Accademia di Belle Arti, nonché primo ciambellano della granduchessa e grande amico di Canova. Egli sta accanto alla sovrana in atto di illustrarle il busto appena svelato. Fu forse costui a consigliare Benvenuti per l’iconografia del quadro, da interpretare come un omaggio a Canova, al quale anche il pittore aretino era molto legato. Oltre ai personaggi secondari di destra, ufficiali e soldati di guardia, mancano le due figure che nel dipinto sono collocate dietro la fila delle donne sedute, Morghen e Counis, inserite ad opera iniziata per fare omaggio alla prestigiosa Società del Disegno dell’Accademia Fiorentina, di cui dal 1811 furono membri Degli Alessandri, Benvenuti, Morghen, Santarelli e Fabre, quest’ultimo in qualità di segretario.

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    Sezione 4. Elisa Baciocchi e la sua corte fiorentina

    Pietro Benvenuti (Arezzo 1769-Firenze 1844)

    Autoritratto

    1837
    Olio su tela
    Uffizi, depositi, Inv. 1890 n. 1909

    Il dipinto fu donato dall’artista a seguito delle continue richieste anche ufficiali avanzate dalla Reale Galleria e la sua collocazione nella “grande serie dei Pittori” fu approvata nel dicembre del 1837. Benvenuti aveva cinquantotto anni ed era giunto al culmine di una grande carriera, reggendo dal 1803 anche in qualità di direttore dell’Accademia di Belle Arti di Firenze, le sorti della cultura artistica granducale dei primi quattro decenni del secolo. Grazie anche all’appoggio di Canova, era stato nominato dalla Regina d’Etruria Direttore e Maestro di Pittura presso la reale Accademia di Firenze, dove lasciando Roma giunse nella primavera dell’anno successivo. Con l’avvento di Elisa Baciocchi egli divenne il pittore dell’establishment napoleonico.

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    Sezione 4. Elisa Baciocchi e la sua corte fiorentina

    Francois- Xavier Fabre (Montpellier 1766 – 1837)

    Ritratto di Giovanni Antonio Santarelli

    1812
    Olio su tela
    A sinistra, nello sfondo, iscrizione a pennello: “F.X. Fabre 1812”
    Gallerie degli Uffizi, Galleria d’Arte Moderna

    Giovanni Antonio Santarelli (1758-1826) è qui rappresentato a mezzo figura, in un atteggiamento disinvolto, simile a quello assunto nel grande quadro Elisa e la sua corte di Pietro Benvenuti, oggi a Versailles. In quel dipinto il celebre incisore su pietre dure si meritò un posto di primo piano, a sottolineare la stima riservatagli della Granduchessa di Toscana, in una posa del tutto coincidente con questo ritratto eseguito dal Fabre, tanto da far ritenere che il Benvenuti se ne sia servito come modello per la propria tela aggiungendo soltanto il dettaglio della mano dell’incisore che stringe un cammeo con il profilo di Elisa. Giovanni Antonio divenne infatti uno specialista nella glittica, come documenta il figlio Emilio, anch’egli scultore, il quale nell’elogio funebre del padre, ne descrive la fulminea carriera artistica, a dispetto delle umili origini contadine, ed il consenso, mai venuto meno, riscosso presso la clientela privata, e presso i sovrani toscani a partire dall’Ancien Régime fino alla Restaurazione. Il rinomato talento ritrattistico di Fabre trova qui piena rispondenza nel felice connubio di eleganza e realismo che lascia intuire il carattere energico dell’effigiato, la vivacità trattenuta, eppure evidente, trasmessa dagli occhi penetranti e severi, dall’aggrottarsi delle sopracciglia, dall’arruffata capigliatura ricciuta. In obbedienza al vero, il pittore francese evidenzia alcune peculiarità fisiche, come la mascella larga, le guance cascanti e il grosso collo, stretto nello Jabot pieghettato.

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    Sezione 4. Elisa Baciocchi e la sua corte fiorentina

    Ambito fiorentino

    Ritratto di Tommaso Puccini prefetto dei Musei Fiorentini

    1815 circa
    olio su tela
    in basso: "Thomas Puccinius Praefectus Musei Flor"
    Uffizi, Inv. 1890 n. 314

    Sul monumento a Tommaso Puccini si legge un breve epitaffio che ne ricorda la fiera opposizione “alla rapina della Galleria fiorentina”: con l’esercito francese ormai alle porte, il Direttore della Real Galleria degli Uffizi, riceveva infatti dal Consiglio di Reggenza, coordinato dal Granduca Ferdinando III in esilio a Vienna, l’ordine di porre in salvo con qualsiasi mezzo i beni preziosi della Galleria. Così, nel mese di ottobre del 1800, Puccini riuscì a salpare dal porto di Livorno su una nave carica di opere d’arte e a rifugiarsi a Palermo, sotto la protezione della flotta inglese, nel coraggioso tentativo di salvare dalle requisizioni napoleoniche i maggiori tesori d’arte delle Gallerie Granducali, tra i quali la Venere medicea. Si trattò di un freno soltanto temporaneo alle pretese di Napoleone di collocare in patria la statua medicea: nell’estate del 1802, la scultura fu consegnata ai francesi, ed imbarcata alla volta di Marsiglia. Finissimo intellettuale, e grande conoscitore di storia dell’arte, grazie al cui intuito le Gallerie egli Uffizi acquisirono straordinari capolavori come la Madonna del Granduca di Raffaello, Tommaso Puccini non ricevette onori ufficiali alla sua morte, avvenuta il 15 marzo del 1811. Si deve all’allora Direttore dell’Accademia di Belle Arti, Giovanni Degli Alessandri, il generoso gesto di commissionare a proprie spese ad un pittore ancora ignoto questo ritratto, destinandolo ad incrementare la famosa serie gioviana, “nel corridoio a ponente, al seguito della Serie degli Uomini Illustri”.

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    Sezione 4. Elisa Baciocchi e la sua corte fiorentina

    Salomon Guillaume Counis (Ginevra 1785- Firenze 1859)

    Autoritratto

    Miniatura in smalto su rame
    1810 ca.
    A tergo iscrizione: “Counis peint par lui même en émail 1810”
    Uffizi, Depositi, Inv. 1890 n. 845

    Elisa Bonaparte Baciocchi aveva conosciuto in Francia il pittore svizzero Salomon Guillaume Counis (1785-1859), il quale nel 1810 si trovava a Parigi, dove aveva esposto al Salon alcuni oggetti in smalto, il suo ambito di specializzazione. La granduchessa apprezzò il suo talento così fine ed elegante, tanto da proporgli di diventare pittore di corte. L’artista accettò di trasferirsi a Firenze e di realizzare ritratti per la sua famiglia, destinati ad ornare gioielli, casse di orologi, coperte di tabacchiere, a conferma dell’interesse della principessa verso questo genere artistico originale e raffinato. Tale fu la stima riservatagli dalla granduchessa che ella lo volle inserito nella grande tela oggi a Versailles, dove egli è raffigurato immediatamente dietro al gruppo di dame di corte, accanto al più anziano Raffaello Morghen. Questo preziosa effigie su rame dipinta a smalto da Counis che attesta le sue finissime qualità di miniaturista, è firmata e datata sul retro “Counis peint par lui même en émail 1810”. Fu infatti realizzata proprio nell’anno della sua chiamata a Firenze, come dimostra la somiglianza con il giovane elegante e dall’espressione vivace, raffigurato nel grande quadro di Versailles. L’opera pervenne alle collezioni delle Gallerie degli Uffizi per donazione dell’autore nel 1848, alla morte dell’unica figlia Elisa unitamente ad altri suoi lavori: tre smalti, una serie di litografie, il più tardo autoritratto, eseguito ad olio su tela intorno al 1830 ed infine il ritratto della figlia.

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    Sezione 4. Elisa Baciocchi e la sua corte fiorentina

    Giuseppe Bezzuoli (Firenze 1784 – 1855)

    Ritratto di Elisa Baciocchi con la figlia Elisa Napoleona

    1814 circa
    olio su tela
    Palazzo Pitti, Galleria d’Arte Moderna, Inv. Giornale Gam n. 5643

    Giuseppe Bezzuoli ci offre un’immagine inedita di Elisa Bonaparte Bacciocchi, cogliendola in una dimensione privata, lontana dall’ufficialità dei magniloquenti ritratti di gruppo, dove la sovrana veniva presentata nel suo ruolo di mecenate, circondata dagli artisti della sua corte, come nel celebre dipinto di Pietro Benvenuti ora a Versailles.

    In questo ritratto Elisa è seduta su una sedia che ricorda quella curule (sella curulis era un sedile pieghevole, ornato d'avorio, simbolo del potere giudiziario al tempo di Roma), lo sguardo languido e assorto, mentre cinge teneramente con la sinistra le spalle della sua bambina, la quale, tenendo tra le mani una tortorella, simbolo di innocenza, la fissa in volto, tutta ansiosa di attrarre l’attenzione della madre e forse di distrarla dalle preoccupazioni che l’affliggono.

    Il tono di domestica intimità che pervade il dipinto evoca l’iconografia della Madonne col bambino quattrocentesche, mentre la ricchezza cromatica delle stoffe, così come il brano paesistico, rimandano alla tavolozza di Tiziano e Savoldo.

    L’espressione malinconica e pensosa di Elisa trova poi rispondenza nel paesaggio che le fa da sfondo, dove, sotto un cielo serotino solcato da nubi minacciose, le sagome dei monumenti fiorentini visti dalla reggia di Pitti sembrano ridursi a pallidi simulacri, debolmente rischiarati dalla luce del crepuscolo: siamo infatti intorno al 1814, quando la definitiva sconfitta di Napoleone sancirà inevitabilmente anche il tramonto del breve regno della sorella, che pure aveva indirizzato il suo governo al rinnovamento politico e culturale del Granducato.

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    Sezione 4. Elisa Baciocchi e la sua corte fiorentina

    Pietro Benvenuti (Arezzo 1769 – Firenze 1844)

    Ritratto di Elena Mastiani Brunacci

    1809
    Sul bordo del piano inferiore del tavolino: “P. Benvenuti 1809”
    olio su tela
    Palazzo Pitti, Galleria d’Arte Moderna, Inv. Giornale n. 260

    Atteggiata in una posa che riflette modelli antichi, come l’Agrippina sedente dei Musei Capitolini, rinnovati dal precedente canoviano evocato nella statua di Letizia Ramolino Bonaparte, questa moderna matrona si mostra nella placida intimità del suo salotto, arredato in stile Impero e rischiarato dalla luce naturale che penetra dal portico a colonne. Il carattere sontuoso e ufficiale del dipinto rispecchia la volontà dell’ambiziosa signora di presentarsi à la page, in un contesto degno del suo status, quello di dama di corte e contessa dell’impero, facendosi ritrarre dal pittore più prestigioso della sua epoca proprio nel 1809, anno di insediamento di Elisa Baciocchi come granduchessa di Toscana. In quello stesso anno, Giovan Francesco Mastiani, marito di Elena, ottenne il titolo di conte dell’Impero in ricompensa della sua fedeltà al regime napoleonico, come traspare dallo sguardo sicuro e orgogliosamente consapevole dell’effigiata. Il tono aulico e monumentale del ritratto, che unisce la saldezza dell’impianto neoclassico al colorismo acceso di Tiziano, è stemperato dalle concessioni al gusto del tempo, evidenti nella pettinatura alla moda della donna, coi vezzosi tirabaci, che dividono la fronte e lambiscono le guance incipriate, o nella foggia del lungo abito di raso scuro audacemente scollato sul petto, in perfetto stile napoleonico.

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    Sezione 4. Elisa Baciocchi e la sua corte fiorentina

    Manifattura italiana (Parma)

    Abito maschile da cerimonia in tre pezzi

    1805-10 ca.
    Palazzo Pitti, Museo della Moda e del Costume,

    Inv. TA3088/TA3089/TA3090

    Verso la fine del XVIII secolo l'abito maschile fu coinvolto in un processo di semplificazione conforme al gusto neoclassico che si tradusse nell'utilizzo di marsine con falde più discrete, pantaloni talvolta più lunghi infilati negli stivali, decorazioni a ricamo con patterns geometrici meno sfarzosi dei precedenti. Anche l'uso di merletti cadde in disuso e lo jabot (ornamento di trina, fissato al collo e allargantesi sul petto) fu sensibilmente ridotto rinunciando alle gale. Tale adattamento dell'abito maschile a esigenze di maggiore funzionalità coincise con il diffondersi della moda all'inglese, più confortevole e adatta alla vita di campagna, sempre più amata sia dall'aristocrazia che dalla borghesia in ascesa.

    L'abito in tre pezzi qui rappresentato di epoca napoleonica, appartenne alla famiglia dei conti Moll di Parma. Esso rappresenta bene il passaggio dell'abito maschile da rococò a neoclassico: la marsina è in raso di seta liseré e presenta un ricamo geometrico eseguito a punto steso, punto passato e punto piatto in filo di seta avorio, argento filato e paillettes a palmette e fiordalisi. Il gilet ha un con collarino a fascetta, tasche a patta sagomata con falde trasversali e taglio in vita. I calzoni-culottes sono increspati in vita e chiusi al ginocchio con tre bottoni.

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    Sezione 4. Elisa Baciocchi e la sua corte fiorentina

    Manifattura italiana

    Abito femminile

    1810-15 ca.
    Mussola di cotone, filo e merletto di cotone
    Inv. TA 5869

    L'aspetto più innovativo della moda in epoca napoleonica fu la liberazione del corpo femminile dalle rigide sotto strutture dell'abito. Gli indumenti divennero finalmente più confortevoli consentendo al corpo di muoversi senza costrizioni. Questo avveniva sulla scorta delle prescrizioni illuministe che avevano dichiarato dannose per la salute le crinoline e i busti. Gli abiti da giorno o da mattina erano preferibilmente realizzati con tessuti molto leggeri (mussola, tulle e crêpe), dalle tonalità chiare come il bianco o i colori pastello; mentre, per quelli da sera si prediligevano velluti o rasi, spesso finemente ricamati con fili d'oro o di seta.

    In linea con lo stile neoclassico l'abito assumeva, per analogia, la forma di una colonna, dove il punto vita alto, posto sotto il seno, scandiva la linea di confine tra la struttura verticale della gonna, assimilabile al fusto della colonna, e l'andamento orizzontale del busto, accostabile al capitello, a fianco del quale le maniche a palloncino potevano evocare due volute.

    L'abito qui rappresentato risponde pienamente a tali caratteristiche funzionali ed estetiche: esso è infatti privo di sotto strutture, è in mussola di cotone bianco ricamata, tono su tono, con motivi a foglie realizzati in filo di cotone bianco a punto raso e punto sfilato. La scollatura ovale e le maniche corte a palloncino sono orlate di merletto meccanico. La vita è alta e arricciata, la chiusura dorsale è a bottoni.

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    Sezione 4. Elisa Baciocchi e la sua corte fiorentina

    Manifattura di Sèvres, Louis-Simon Boizot e Pierre Philippe Thomire

    Vaso monumentale

    1784
    Porcellana dipinta in “blu Nouveau” e dorata; bronzo dorato
    Iscrizione: “Manufacture Nle DES PORCELAINES DE SEVRES LA GARNITURE FAITE PAR THOMIRE A PARIS” (sul basamento)
    Palazzo Pitti, Galleria Palatina, Inv. OdA Pitti, n. 1518

    Il modello del nostro esemplare fu ideato dallo scultore Louis-Simon Boizot, che per la forma si ispirò al vaso a cratere di epoca greca conservato nelle collezioni medicee romane e giunto alle Gallerie degli Uffizi nel 1780, da cui la denominazione di Vaso Medici. Con molta probabilità, questi poté ammirarlo nell’Urbe, in quanto tra il 1765 e il 1769 vi soggiornò in qualità di allievo dell’Accademia di Francia. Dal 1773 al 1757 fu nominato capo modellatore della Manifattura di Sèvres, ma proseguì anche in seguito la sua collaborazione come “Artiste en chef”.

    Viste le consistenti dimensioni, il vaso qui presentato è stato realizzato in più parti assemblate e tenute salde tra loro mediante applicazioni in bronzo dorato eseguite da Pierre Philippe Thomire. Esse avevano anche la funzione di supplire l’assenza della raffinata fascia centrale ideata con un decoro a bassorilievo in biscuit, visibile sul vaso al Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon.

    Il nostro esemplare fu inviato a Palazzo Pitti come dono di Napoleone I a Ludovico I di Borbone, da lui nominato Re d’Etruria nel 1801.

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    Gioacchino Belli (Roma 1756 – 1822)

    Colonna Traiana

    Palazzo Pitti, Galleria d’Arte Moderna, Inv. MPP. 1911, n. 10679

    Durante il quinquennio napoleonico si andò sviluppando a Roma l’idea di riformulare gli spazi urbani della città e in particolare di realizzare luoghi destinati al benessere dei cittadini. Napoleone, che era molto interessato agli scavi nell’area del Foro, chiese ai sovrintendenti un adattamento che permettesse di osservare più da vicino i reperti archeologici. L’idea, che è stata alla base del culto napoleonico, era da un lato quella di celebrare se stesso ricorrendo al confronto col glorioso passato romano e dall’altro, di divulgare lo stile di vita e l’etichetta francese in Italia. Questo meccanismo è dimostrato dalle numerose attestazioni pervenute a Firenze, ma solo una è attendibile: alla fine del 1822 Ferdinando III volle al centro del suo dessert in lapislazzuli questa colonna traiana che era arrivata nel 1819 a Palazzo Pitti, testimoniando il forte legame che l’imperatore aveva con Roma, il suo fasto imperiale ed i suoi monumenti-simbolo.

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    Sezione 4. Elisa Baciocchi e la sua corte fiorentina

    L. Grognot

    Orologio

    Inizi XIX secolo
    Bronzo dorato
    Palazzo Pitti, Galleria d’Arte Moderna, Inv. MPP 1911 n. 19141

    Sapere che nel 1801 Pierre Sylvain Maréchal aveva lavorato a un “Progetto di legge per vietare alle donne di imparare a leggere” rende ancora più prezioso, tra i numerosi orologi di epoca impero esposti a Palazzo Pitti, questo esemplare eseguito a Parigi agli inizi dell’Ottocento.

    Ignoriamo il titolo del libro tenuto in mano dalla giovane donna, adagiata su una elegante agrippina, divano dalla foggia antichizzante particolarmente di moda in quegli anni, come conferma il ritratto di Paolina Borghese, sorella di Napoleone, scolpito in marmo da Antonio Canova. Allo stato attuale degli studi non sappiamo neanche con certezza quando l’oggetto è arrivato a Firenze, se cioè all’epoca della sua realizzazione o in un momento successivo. Possiamo tuttavia immaginare che sia Maria Luisa di Borbone che Elisa Baciocchi, le sovrane volute dal Bonaparte sul trono di Toscana, entrambe colte e amanti delle arti, ne avrebbero ammirato senz’altro la foggia e la particolare iconografia.

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    Manifattura di Sèvres

    Servizio da entrée e da dessert della granduchessa Elisa Baciocchi

    1809-1810
    Porcellana dipinta in blu cobalto e dorata
    Firenze, Museo delle Porcellane, Inv. AcE nn. 873-900

    Il sontuoso servizio esprime nella sua totalità il fasto della corte francese con la profusione di oro esaltata dal blu cobalto e dall’azzurro del fondo. Esso si divide in servizio da entrèe e in servizio da dessert. Gli assortimenti per entrambe le tipologie d’impiego sono caratterizzati da diversi decori elaborati per Elisa Baciocchi su commissione del fratello Napoleone I, che gliene fece dono quando divenuta granduchessa di Toscana nel 1809, venne ad abitare nella Reggia di Palazzo Pitti.

    Quello da entrèe era impiegato per pietanze presentate sia dopo l’antipasto o la minestra, sia dopo il pesce, pertanto costituiva la terza portata subito prima della carne. Quello da dessert, peraltro in uso ancora oggi, veniva invece introdotto alla fine del pasto.

    Esaminando i decori, le stoviglie per l’entrèe sono caratterizzate da fiori dorati alternati su fondo bianco e blu cobalto, mentre quelle per il dessert presentano motivi assai più elaborati con raffinate ghirlande intervallate da medaglioni di gusto antiquario e da cigni, emblema della Baciocchi.

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    I bagni imperiali di Palazzo Pitti per Napoleone e Maria Luisa d’Austria

    1813-1821

    Nel 1811 l’attivissima Elisa Baciocchi incaricò Giuseppe Cacialli, architetto regio, di creare nell’ala sinistra del piano nobile di Palazzo Pitti, dove è oggi la Galleria Palatina, un quartiere imperiale destinato al fratello Napoleone ed alla sua seconda moglie, Maria Luisa d’Asburgo d’Austria.

    Gli interventi decorativi previsti per i nuovi ambienti palatini, per i quali fin dal maggio 1812 si era riunita un’apposita commissione artistica, furono caratterizzati da continui cambiamenti nella scelta dei soggetti, che prendevano spunto dalla storia antica o dalla mitologia per alludere alle imprese militari napoleoniche ed alle virtù di Maria Luisa.

    L’allestimento dei nuovi appartamenti residenziali, comprendeva fin dai primissimi progetti anche una saletta da bagno destinata a Napoleone ed un secondo bagno, composto da un ricetto a pianta rettangolare e da un piccolo boudoir o Gabinetto Rotondo, riservato all’imperatrice. In questi ambienti era richiesto uno stile semplice e squisitamente ornamentale, che si confacesse all’intimità confortevole propria di stanze destinate all’igiene ed alla cura della persona. Entrambi, veri e propri gioielli in puro stile neoclassico, sono quindi caratterizzati da una chiara definizione degli spazi scanditi da colonne di ordine classico e da una ornamentazione sobria ed elegante, limitata alla presenza di bassorilievi e cornici in stucco, alternati a statue a tutto tondo con Ninfe entro nicchie. I decori furono affidati a maestranze specializzate, ripartendo i compiti tra i pittori, come Antonio Luzzi, che fornirono i disegni degli emblemi e dei trofei, uno stuccatore, come l’ornatista Vincenzo Marinelli che doveva tradurli in gesso, ed un gruppo di scultori propriamente detti, quali Salvatore Bongiovanni, Giovanni Insom e Domenico Bernardini, incaricati di eseguire i bassorilievi e le statue, ispirati a tematiche pagane. Tutti artisti formatisi nel clima di rinnovato impulso che Elisa Baciocchi aveva dato all’impiego di questo materiale, elegante e poco costoso. Le stanze da bagno furono in realtà portate a termine soltanto dopo la Restaurazione, col ritorno a Pitti del granduca Ferdinando III di Lorena. Del periodo napoleonico restano alcuni elementi ancora visibili come il pavimento in marmi policromi intarsiati con l’emblema di Maria Luisa realizzato da Antonio Bartolini nel bagno dell’imperatrice o ancora, nel bagno di Napoleone, le quattro colonne marmoree di reimpiego in verde antico su basi attiche, sormontate da capitelli corinzi modellati da Vincenzo Marinelli.

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    Sezione 4. Elisa Baciocchi e la sua corte fiorentina

    Manifattura lucchese

    Tavolo da muro

    Secondo decennio dell’Ottocento
    Legno impiallacciato di mogano, intagliato dipinto color bronzo e oro, bronzi dorati, piano di marmo
    Palazzo Pitti, Galleria d’Arte Moderna, Inv. MPP 1911 n. 20706

    Arredi con decorazioni, talvolta minute, ispirate all’arte egizia non sono una rarità a Palazzo Pitti. Ma certamente questa console si impone per la vistosa coppia dei sostegni anteriori - probabilmente due portatori - presentati a figura intera e caratterizzati dai tipici copricapi e perizomi che con la loro doratura risaltano sui volti e i corpi bruniti.

    La cultura dell’antico Egitto aveva avuto anche in precedenza la sua cerchia ristretta di conoscitori ed estimatori e aveva ispirato nella seconda metà del Settecento le estrose creazioni di Giovanni Battista Piranesi; è tuttavia agli inizi dell’Ottocento che lo stile “retour d'Égypte” dilaga come una moda che investe mobili e oggetti, sull’onda delle imprese di Napoleone, comandante in capo nelle battaglie combattute in quelle terre esotiche.

    La campagna d’Egitto fu documentata dai disegni di Vivant Denon che ci restituiscono il fascino dei paesaggi desertici e numerosi dettagli dei siti archeologici, costituendo una sorta di libro di modelli adattabili alle più varie necessità decorative. Una traduzione del suo Viaggio nel basso ed alto Egitto, conservata presso la Biblioteca Magliabechiana delle Gallerie degli Uffizi ed edita a Firenze nel 1808 presso Giuseppe Tofani, stampatore per l’appunto in piazza Pitti, testimonia la fortunata diffusione di questa pubblicazione anche in Italia.

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    Sezione 4. Elisa Baciocchi e la sua corte fiorentina

    Manifattura Burgagni

    Damasco di seta rosso cremisi

    1813-1815
    Palazzo Pitti, Appartamenti Imperiali e Reali, Salone rosso

    Al suo arrivo a Firenze nel 1809, Elisa Baciocchi si impegnò nella realizzazione di un nuovo quartiere, al primo piano di Palazzo Pitti, progettato per il fratello Napoleone e la consorte Maria Luisa. Sua intenzione era di allestire l’appartamento imperiale secondo l’ultima moda francese e per questo si adoperò per disporre di un assortimento di tessuti per pareti, tendaggi e letti monumentali che implicarono un fitto scambio di disegni, modelli, campioni e valutazioni scritte con Parigi ma anche Lione e Lucca in quanto luoghi tradizionali della produzione serica, al pari di Firenze.

    Le sue aspettative però non vennero immediatamente soddisfatte. Ironia della storia, l’unico parato da lei commissionato e tutt’ora montato in un ambiente del palazzo fu infatti consegnato alla Guardaroba solo al tempo della Restaurazione. La presenza del motivo di stelle e api, di origine dichiaratamente napoleonica, non impedì di impiegarlo per rivestire la sala che, all’epoca di Ferdinando III, veniva utilizzata per le udienze del granduca lorenese. Evidentemente, più di ogni altra considerazione, poté l’apprezzamento del damasco, tessuto da una manifattura fiorentina sull’esempio di una seta lionese destinata alla reggia di Versailles.

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    Sezione 4. Elisa Baciocchi e la sua corte fiorentina

    Manifattura Piat-Lefèvre di Tournai

    Tappeto con le sedici coorti della Lègion d’honneur

    1812-1815
    Lana
    Palazzo Pitti, Appartamenti Imperiali e Reali, Salotto della Regina, MPP 1911 n.5196

    Tema di questo tappeto vellutato è l’esaltazione della Legione d’Onore, ordine cavalleresco ideato da Napoleone nel 1802 per ricompensare chi, anche non nobile, si fosse distinto per meriti straordinari, allora soprattutto militari laddove al giorno d’oggi prevalgono i valori civili.

    Il centro è occupato da una croce maltese a cinque raggi, sormontata da una corona d’alloro, onorificenza che spesso nei ritratti spicca sul petto di Napoleone stesso; da questa si dipartono i simboli delle sedici coorti che, sul modello dell’esercito romano, costituivano la base organizzativa della Légion, essendo a loro volta articolate secondo una gradazione di grandi ufficiali, comandanti, ufficiali e legionari.

    Il manufatto è una replica di analoga qualità di un esemplare della medesima manifattura di Tournai, intessuto nel 1812 per il Grand Cabinet del castello di Saint-Cloud, ora conservato nelle collezioni parigine del Mobilier National. Fu commissionato da Elisa Baciocchi Bonaparte per l’appartamento di Pitti destinato al fratello imperatore, richiamato dai simboli delle aquile incoronate; tuttavia come accadde per molte delle opere ordinate da questa granduchessa, giunse a palazzo solo a Restaurazione avvenuta, per essere collocato in un ambiente diverso da quello al quale era destinato in origine.

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    Sezione 4. Elisa Baciocchi e la sua corte fiorentina

    Camelie per la granduchessa Elisa

    Dedicataria della varietà 'Princesse Baciocchi', definita “magnifique” dall’abate Lorenzo Bernese nella Monographie du genre Camellia pubblicata a Parigi nel 1845, la granduchessa fu una grande amante delle camelie.

    Già nel 1808, chiese al fratello Giuseppe, re di Napoli, di inviarle per il parco della Villa Reale di Marlia alcune di quelle propagate pochi anni prima nella Reggia di Caserta e, giunta a Firenze, si prodigò per introdurne alcune piante anche a Boboli.

    Il luogo ideale per coltivarle fu individuato in un piccolo giardino anticamente destinato alle bulbose e messo in ombra dai riporti di terra conseguenti all’innalzamento del piano dell’Anfiteatro operato nel Settecento. Lavori in questo spazio sono documentati nel febbraio 1810 e potrebbe risalire ad allora la messa a dimora delle quattro varietà di Camellia japonica censite nel 1817: primo nucleo di una collezione destinata ad arricchirsi rapidamente tanto che un inventario botanico del 1841 ne elenca già quarantacinque varietà.

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    Sezione 4. Elisa Baciocchi e la sua corte fiorentina

    Un nuovo ingresso per il Rondò di Bacco

    Nei pochi anni trascorsi a Firenze da Elisa Baciocchi come granduchessa di Toscana, il Giardino di Boboli visse un’intensa stagione di interventi finalizzati a mantenerlo in buono stato e ad adeguarlo ai moderni gusti imperiali.

    Tra i primi lavori effettuati figura la sistemazione dell’area del Rondò di Bacco, visibile da Piazza Pitti e allora connotata dal carattere incompiuto dovuto ai cantieri qui avviati nei decenni precedenti senza un progetto unitario. Incaricato di migliorarne l’aspetto, l’architetto Giuseppe Cacialli ridisegnò il corpo di guardia con la loggetta tuttora presente e occupò con un prato ben tenuto parte del piazzale antistante, usato come cavallerizza durante la breve parentesi del Regno d’Etruria. Le due statue dei Daci (LINK SCHEDA PAOLUCCI) furono inoltre posizionate all’inizio del viale che sale all’Anfiteatro, palcoscenico di feste grandiose come quella organizzata per celebrare la vittoria napoleonica di Wagram con fuochi di bengala e un pallone aereostatico ornato dall’aquila imperiale.

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    Sezione 4. Elisa Baciocchi e la sua corte fiorentina

    Daci di Boboli

    Qualunque cittadino della Firenze dell’anno 1810, nell’ammirare la fantasia di marmi romani appena ultimata per monumentalizzare l’ingresso principale del giardino di Boboli, avrebbe immediatamente pensato a Napoleone. In nessun punto campeggiava la N dell’imperatore dei Francesi, ma sarebbe stato comunque spontaneo, anche per il più distratto, paragonare quelle immagini di trionfi antichi alla incredibile serie di vittorie che il corso aveva ottenuto in meno di quindici anni in Europa e Africa. Le statue in porfido dei Daci, concepite per ornare il Foro di Traiano (eretto fra il 107 e il 112 d.C.) e per celebrare le vittorie di quel sovrano oltre il Danubio, divenivano adesso metafora di tutti quei popoli europei che godevano di nuova pace e prosperità all’interno dei confini napoleonici. Anche i rilievi dell’Arcus Novus murati sulla base, potente espressione dell’arte ufficiale di età tetrarchica (fine del III secolo d.C.), con le loro raffigurazioni di barbari germani e orientali condotti in catene, sembravano essere il presagio di un ritorno all’universalità dell’impero della Città Eterna, che, nel 1811, avrebbe salutato nel figlio di Napoleone il suo nuovo re.

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    Sezione 4. Elisa Baciocchi e la sua corte fiorentina

    I platani di Boboli

    Elisa Baciocchi amava la vita all’aperto e, divertitasi alla tradizionale Festa del Grillo organizzata nel 1809 al Parco delle Cascine, lo aprì regolarmente al pubblico rendendolo abituale luogo di ritrovo dei fiorentini.

    A Boboli, la moda del passeggio, che richiedeva percorsi ombreggiati, ispirò nel 1813 l’inserimento di molti platani per disegnare l’arioso viale in asse con la Limonaia e ornare il Prato delle colonne. Queste alberature arricchirono il giardino con scenografiche visuali prospettiche e cromatismi che, al variare delle stagioni, ne avrebbero stemperato il volto per lo più sempreverde impressogli nel corso del XVIII secolo.

    Disperse dal vento autunnale, le loro foglie annunciarono l’imminente tramonto del sogno napoleonico. La granduchessa lasciò Firenze appena l’anno successivo, nel febbraio 1814, senza poter vedere i suoi platani rivestirsi a primavera e meditando, forse, sulle parole riservatele dal poeta e fedele amico Louis de Fontanes:

    “Questa crisi passerà. Se la sorte fosse sempre favorevole, sarebbe troppo facile essere eroe. È quando essa è incostante che si possono giudicare coloro che son degni di tal nome”.

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    Sezione 5. Il culto di Napoleone a Firenze: i Demidoff

    A seguito del crollo dell’impero napoleonico, nel 1815 il Congresso di Vienna restituì la Toscana al precedente sovrano, Ferdinando III di Lorena, che si insediò nuovamente nella reggia di Pitti. Negli anni della Restaurazione, i russi Demidoff rimasero convinti sostenitori di Napoleone, al quale li legava un vincolo di parentela, in quanto Matilde, figlia di Gerolamo, fratello minore del Bonaparte, aveva sposato il principe Anatolio Demidoff. Le effigi ed i cimeli napoleonici, presenti con grande risalto nel sontuoso allestimento delle collezioni Demidoff nella spettacolare residenza di San Donato, testimoniavano quest’ambita parentela imperiale.

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    Sezione 5. Il culto di Napoleone a Firenze: i Demidoff

    Bottega carrarese

    Ritratto di Girolamo Bonaparte

    1801 ca.
    olio su tela
    in basso, incisa a scalpello “Jerome”
    Gallerie degli Uffizi, Palazzo Pitti, Galleria d’Arte Moderna, Inv. Giornale Gam n. 2256

    Girolamo Bonaparte, fratello minore di Napoleone, e da quest’ultimo insignito del titolo di re di Westfalia, dopo la caduta dell’impero napoleonico fu nominato Duca di Montfort e durante la Restaurazione scelse come sua dimora proprio Firenze dove visse a lungo, tra Palazzo Orlandini e la Villa di Quarto.

    L’erma ritratto, di manifattura carrarese, è connotata da una forte idealizzazione, evidente nella resa levigata del volto, quasi privo di particolari caratteristiche fisionomiche, e caratterizzata da un tono aulico che evoca le effigi degli antichi busti romani. Una simile assenza di caratterizzazione conferma la derivazione di questo busto dal prototipo dello scultore francese François Joseph Bosio. Sappiamo che Gerolamo, evidentemente soddisfatto dall’alto livello di eroicizzazione raggiunto, ordinò un gran numero di copie del suo ritratto ricavate da quel modello, allo scopo di promuovere la propria immagine in tutto il territorio dell’impero, secondo quella medesima diffusione seriale delle effigi di Napoleone e dei Napoleonidi che impegnava ormai da anni non soltanto l’attività di maestri come Canova, Bartolini, Bosio e Chaudet, ma anche quella delle botteghe di scultori carraresi meno celebri. Quest’ultimi erano infatti incaricati di eseguire repliche marmoree o anche in biscuit dei busti della famiglia Bonaparte, allo scopo di distribuirle tra i membri della casata imperiale, come nel caso del presente ritratto, originariamente appartenuto a Matilde, figlia di Gerolamo e poi moglie di Anatolio Demidoff.

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    Sezione 5. Il culto di Napoleone a Firenze: i Demidoff

    Ary Scheffer (Dordrecht 1795 – Argenteuil 1858)

    Ritratto di Matilde Bonaparte Demidoff

    1844
    olio su tela
    Palazzo Pitti, Galleria d'Arte Moderna, Giorn. 2366

    Raffinato ritrattista, oltre che autore di scene sacre e temi storici di gusto romantico, Ary Scheffer, pittore olandese attivo in Francia, fu definito “peintres des ames” per la sottile attenzione alle sfumature espressive tradotte in sguardi e pose che esplicitavano attitudini personali, oltre che ruoli sociali. Così la principessa Matilde Bonaparte Demidoff viene ritratta altera e pensosa con un disegno regolare che richiama le forme elette di Jean-Auguste-Dominque Ingres. L'ambiente monumentale in cui posa richiama il gusto della villa di San Donato in Polverosa, nei pressi di Firenze, detta in suo onore Villa Matilde, dove era ospitata un'importante collezione di dipinti, bacino di ispirazione e studio per i pittori toscani di metà Ottocento.

    Matilde (1820-1904), figlia di Gerolamo, fratello di Napoleone, nel 1840 sposò a Firenze il conte Anatolio Demidoff (1813-1870), per l'occasione nominato principe di San Donato dal granduca Leopoldo II. L'unione tra la Bonaparte e il figlio del ricco industriale e filantropo russo Nicola Demidoff si mostrava conveniente per entrambe le parti: Matilde acquisì una posizione economica di tutto rispetto e Anatolio una parentela più che illustre.

    Il ritratto, dipinto a Parigi nel 1844, si configura come un omaggio al bonapartismo imperante a Villa Demidoff, in particolare per l'importante cornice realizzata a Firenze dalla bottega dei Fratelli Pacetti, con il monogramma di Matilde e l'aquila imperiale.

    Purtroppo il matrimonio ebbe scarsa fortuna: la coppia si separò presto e due anni dopo Matilde si spostò a Parigi, dove animò un frequentato salotto letterario.

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    Sezione 5. Il culto di Napoleone a Firenze: i Demidoff

    Jean Baptiste Fortuné De Fournier (Francia, Ajaccio 1798 - Parigi 1864)

    Due vedute del salone di villa Demidoff a San Donato in Polverosa

    1841
    gouache su carta telata
    in basso, iscrizione “Florenz 1841”
    Gallerie degli Uffizi, Galleria d’Arte Moderna, Inv. Giornale Gam nn. 2475-2476

    I due dipinti conservati nella Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti, furono eseguiti nel 1841 da Jean Baptiste Fortuné de Fournier, apprezzato acquarellista, miniaturista e incisore, formatosi a Firenze in un ambiente ancora di stretta osservanza neoclassica. Negli anni Quaranta De Fournier raggiunse una certa notorietà, grazie alle sue vedute di appartamenti di stato e ambienti fastosi resi con dovizia di particolari e spesso esposte al Salon di Parigi. I due acquerelli, che offrono due diversi punti di vista del Salone della Villa Demidoff di San Donato, erano stati commissionati al pittore assieme ad un’altra coppia di vedute, raffiguranti la biblioteca e la cappella e, dopo essere rimasti a lungo presso i discendenti di Paolo e Anatolio Demidoff a Pratolino, furono acquistati dalle Gallerie Fiorentine nell’aprile del 1869.

    Le due gouache illustrano la raffinatezza e lo sfarzo dell’ambiente, sovrastato dalla grande cupola, decorata con le Storie di Cupido e Psiche dal pittore romano Carlo Morelli, uno dei rari artisti italiani apprezzati da Anatolio Demidoff, il quale gli commissionò anche due ritratti di Leopoldo II e della seconda moglie, Maria Antonietta. Come dimostra la profusione di cimeli napoleonici, quadri e statue esposti nel salone, molti dei quali ritraenti la famiglia Bonaparte, Anatolio Demidoff, figlio del magnate industriale e filantropo russo Niccolò, era un fervente sostenitore di Napoleone e mantenne la sua fede bonapartista anche dopo il divorzio dalla moglie, Matilde Bonaparte (1820-1904), avvenuto nel 1846, quando quest’ultima partì per Parigi.

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    Sezione 5. Il culto di Napoleone a Firenze: i Demidoff

    Le due gouache illustrano la raffinatezza e lo sfarzo dell’ambiente, sovrastato dalla grande cupola, decorata con le Storie di Cupido e Psiche dal pittore romano Carlo Morelli, uno dei rari artisti italiani apprezzati da Anatolio Demidoff, il quale gli commissionò anche due ritratti di Leopoldo II e della seconda moglie, Maria Antonietta. Come dimostra la profusione di cimeli napoleonici, quadri e statue esposti nel salone, molti dei quali ritraenti la famiglia Bonaparte, Anatolio Demidoff, figlio del magnate industriale e filantropo russo Niccolò, era un fervente sostenitore di Napoleone e mantenne la sua fede bonapartista anche dopo il divorzio dalla moglie, Matilde Bonaparte (1820-1904), avvenuto nel 1846, quando quest’ultima partì per Parigi

Gli Uffizi e Napoleone

Opere, luoghi e memorie nelle collezioni delle Gallerie

Ideazione e curatela scientifica: Alessandra Griffo, Elena Marconi

Testi: Daniele Angelotti, Rita Balleri, Andrea Cartia, Liletta Fornasari, Vanessa Gavioli, Alessandra Griffo, Elena Marconi, Fabrizio Paolucci, Giuseppe Rizzo, Chiara Ulivi

Coordinamento organizzativo: Francesca Sborgi

Editing dei testi e web: Patrizia Naldini, Andrea Biotti

Traduzioni: Eurotrad srl

Crediti fotografici:

Per le opere nelle collezioni delle Gallerie degli Uffizi: Andrea Biotti, Francesco Del Vecchio, Roberto Palermo; per il dipinto di Pietro Benvenuti Elisa Baciocchi e la sua corte© RMN-Grand Palais (Château de Versailles), Daniel Arnaudet.

 

Data di pubblicazione: 5 maggio 2021

Nota: Ogni immagine della mostra virtuale può essere ingrandita per una visione più dettagliata.

 

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