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On Being Present - vol. II

  • On Being Present - vol. II

    La figura africana nelle collezioni delle Gallerie degli Uffizi

    On Being Present - vol. II
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    Intro

    L’archivio è stato un luogo centrale per me. Considero lo spazio come uno spazio vivo fra ricerca e attivismo…

    Dr. Deborah Willis
    The Art of Black Visual Archives-Who Has Them? Where Are They?, The History Makers

     

    Le collezioni dei musei svolgono spesso il ruolo di archivio, conservando e narrando ciò che è stato registrato, raccolto e custodito in passato. Queste istituzioni hanno un compito che va ben oltre il restauro, la salvaguardia e la manutenzione degli oggetti che contengono e delle storie che sono incorporate al loro interno; svolgono anche il ruolo di mediazione tra queste tracce di storia e un pubblico che è in continuo mutamento. Il processo decisionale che ha guidato i primi passi di molti spazi museali, spesso sulla scia dei saccheggi in campagne di espansione o finanziate da tali azioni, non è necessariamente ciò che i musei narrano. Come la scrittura della storia, la narrazione che siamo invitati a intraprendere all'interno dei musei è quella che può sembrare costruita consapevolmente per noi, con una comprensione specifica dei protagonisti, delle opere e la loro allusione a quelle persone che le commissionarono o le collezionarono in primo luogo. Eppure, rimangono una serie di tracce che circondano queste idee, sia come figure di supporto in un racconto, che come protagonisti, e questi frammenti che abbiamo raccontano in realtà molto sia degli artisti, che dei loro soggetti. La funzione di una figura in un dipinto è spesso correlata alla funzione del dipinto stesso, al contesto in cui doveva essere inserita e al pubblico con cui intendeva interloquire. Eppure abbiamo una coscienza del passato che il passato non potrebbe avere di se stesso. Da questa coscienza deriva una grande responsabilità di prestare attenzione non solo al suo passato, ma ai suoi valori, significati e continuità contemporanei.

    Le immagini e i testi di questa seconda edizione di On Being Present sono il frutto di una collaborazione di due anni con le Gallerie degli Uffizi e trovano la loro ragion d’essere proprio nella storia per cui la città di Firenze è massimamente nota, per quanto, rispetto a questa storia, le figure passate in rassegna vengano considerate marginali, quando non siano del tutto ignorate. 
    Se si parla di spazio museale come luogo di ricerca e attivismo, è ben comprensibile l’urgenza di far luce su tutta una serie di “presenze”, che sono sempre state sotto gli occhi di tutti ma che hanno lottato per emergere tra l’evacuazione dei canoni storico-artistici e l’ambito della speculazione accademica. Hanno senz’altro lottato per uscire dai circoli dotti e dai convegni che hanno fatto un lavoro encomiabile nell’elaborazione di una cornice critica volta ad apprezzare ciò che è stato a lungo trascurato, fondamentale per sollevare domande che vogliono trovare risposta e cruciale nel riconsiderare le molte teorie scaturite dalla miopia contemporanea. Questa seconda edizione vuole essere un invito per tutti ad unirsi a questa cerchia ristretta, di cui tutti noi dobbiamo sentirci parte se l’intenzione è quella di parlare con onestà del passato, comprendere ognuno quale sia il proprio ruolo ogniqualvolta si dà voce alle opere d’arte che ci circondano, e apprezzare l’assoluta eccezionalità con cui ogni individuo è ed è stato ricordato nell’arte. Questo apprezzamento ci consente di cogliere una straordinaria opportunità insieme alla responsabilità che ognuno di noi ha nel fare, in modo che tutte le istituzioni che ci circondano si impegnino nel loro ruolo di mediatori, raccontandoci – e noi a loro – una storia, la più completa possibile.

    Justin Randolph Thompson

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    Bartolomeo Passerotti

    L’enigma di Omero

    Ante 1584
    Gli Uffizi
    inv. 1890 n. 10784

    La recente acquisizione dal titolo L’enigma di Omero (anche nota come Omero e i pescatori) è un enigmatico dipinto di ampie dimensioni ultimato prima del 1584 da un eccentrico ma influente artista bolognese: Bartolomeo Passerotti. L’opera raffigura un racconto apocrifo, iconograficamente citato nel quadro stesso, sulla morte del cantore ellenico, risalente a un diffusissimo testo antico la cui paternità era in passato (ora non più) attribuita al biografo greco Plutarco. Questo bizzarro aneddoto riferisce che Omero, ormai privo della vista, fosse così scosso dalla propria incapacità nel risolvere un indovinello sottopostogli da un gruppo di pescatori – le lagnanze dei quali riguardavano i pidocchi, mentre il poeta riteneva che i pescatori parlassero di pesci – da sprofondare in uno stato di depressione terminale. La storia non fu rappresentata da nessun altro artista coevo, ma Passerotti mostra una certa predilezione per le variazioni umoristiche sui temi classici, un gusto verosimilmente condiviso dal committente dell’opera, il fiorentino Giovan Battista Deti. Una fonte coeva degli anni ottanta del XVI secolo, ci dice che Passerotti ritrasse Omero con le proprie fattezze (sulla sinistra) in una scena dominata dai pescatori seminudi collocati al centro, ma la figura più imponente del dipinto – e quella più riccamente abbigliata – è una donna dalla pelle scura collocata sulla destra, con il figlio in braccio. Labbra e naso rispecchiano i tratti con cui si identificava convenzionalmente i soggetti dall’Africa Nera nell’arte rinascimentale.

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    Bartolomeo Passerotti

    L’enigma di Omero

    Oltre a due disegni preparatori realizzati per il dipinto (in cui la donna africana risulta persino più curata) Passerotti realizzò una serie di studi di teste probabilmente riconducibili al personaggio in questione.

    Il pittore raffigurò personaggi di pelle nera anche in altri suoi dipinti, fra cui l’Adorazione dei magi, col suo Re Nero piuttosto convenzionale, e la così detta Allegra compagnia, dove, tra i popolani grotteschi e festaioli, ma con sfumature classicheggianti, si ravvisano un uomo e una donna di pelle nera. Come la donna raffigurata in quest’ultimo licenzioso dipinto, la madre raffigurata da Passerotti nel dipinto Omero sfoggia un orecchino di perla, alla stregua di numerosi altri africani e africane ritratti all’epoca. Quanto a capigliatura e abbigliamento, la scelta iconografica di Passerotti ricorda però, più da vicino, una tipizzazione degli “zingari” diffusa in Europa all’inizio dell’era moderna. Tale termine identifica, ai nostri giorni, la popolazione comunemente nota come rom, così come altri gruppi, migranti di origine nord indiana, ma che ai tempi di Passerotti erano ritenuti originari dell’Egitto; venivano anche iconograficamente associati all’uso degli orecchini. Di notevole rilievo e ancor più convincente è quanto rivela la sunnominata fonte tardo cinquecentesca, definendo zingara la nera statuaria nel dipinto. Il dato indica che i contemporanei la percepivano come zingara, e di certo in età tardo-rinascimentale e barocca, la pelle scura costituiva un loro marchio connotativo, così come, in alcuni casi, lo erano i lineamenti del volto tipicamente africani. Nella società italiana dell’epoca, entrambi i gruppi erano senz’altro percepiti come outsider (la carnagione degli zingari è tuttavia abbastanza variabile nelle opere d’arte europee, come ad esempio la donna bianca che allatta il bambino nella Tempesta di Giorgione, la quale veniva, senza esitazione, identificata come zingara in una primissima nota testuale). La donna ritratta nell’Omero di Passerotti non ha la capigliatura crespa di norma associata con i subsahariani (presente invece sulla testa del bambino che tiene in braccio), i suoi capelli appaiono infatti più lisci e lunghi. Un segno che rivela maggiormente le sue presunte origini è nel vestiario: un manto fermato alla spalla da una fibbia e un cappello di foggia caratteristica. L’interpolazione della zingara nera in questo episodio della vita di Omero costituisce l’aspetto più intrigante del quadro. A cosa si deve la sua presenza nel dipinto? Fra le possibili spiegazioni, va considerata l’esperienza condivisa di una vita errabonda e nomadica o, in alternativa, la convinzione che gli zingari primeggiassero nel risolvere enigmi. Che sia testimone, semplice astante o co-risolutrice di rompicapi, resta certo che questa figura sposta l’attenzione dello spettatore dal centro al margine.

    Paul Kaplan e Kate Lowe

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    Andrea Mantegna

    Giuditta e l’ancella con la testa di Oloferne

    1492
    Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi
    Inv. F 404 E

    La produzione di un pittore influente come Andrea Mantegna (ca. 1431-1506) è costellata dalla presenza frequente di personaggi africani neri. Già negli affreschi realizzati dall’artista a Padova negli anni cinquanta del Quattrocento si nota, in effetti, la rappresentazione di un uomo di pelle scura che assiste al martirio di San Giacomo; egli fu uno dei primi artisti italiani a dipingere uno dei Magi con tratti da nero africano, nella fattispecie in un dipinto (anch’esso agli Uffizi) realizzato negli anni sessanta dopo il trasferimento a Mantova, dove il maestro approda per ricoprire l’incarico di pittore ufficiale dei Gonzaga.

    Verso il 1470, l’artista affresca inoltre, sul soffitto della celebre Camera Picta di Palazzo Gonzaga, una figura dalla pelle nera (probabilmente di sesso femminile) del seguito di alcune giovani aristocratiche. Avendo per cornice il presente anziché un passato di matrice sacra, la scena testimonia la crescente presenza, nei palazzi dell’élite italiana, di servi e serve di colore ridotti in schiavitù (o affrancati).

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    Andrea Mantegna

    Giuditta e l’ancella con la testa di Oloferne

    Il dato ha un suo rilievo per l’interpretazione di uno dei più celebri disegni dell’autore: quello raffigurante la storia dell’eroina veterotestamentaria Giuditta, vergato con la firma calligrafica del Mantegna e che reca la data del febbraio 1491 (corrispondente al 1492 secondo le attuali convenzioni cronologiche). Non si tratta di un abbozzo di getto, bensì di un’opera di estrema raffinatezza, del tipo con cui gli artisti del Rinascimento amavano omaggiare i propri amici e mecenati. Vi scorgiamo Giuditta, che, vedova e ancora giovane, in nome e per conto della sua gente, gli ebrei, si fa carico dell’ardua missione di eseguire il verdetto di morte pronunciato da Dio contro il generale assiro Oloferne, il quale minacciava il suo popolo. Secondo la Bibbia, la donna avrebbe coinvolto nell’impresa quell’ancella per altro quasi mai rappresentata dagli artisti precedenti, e comunque, mai con le fattezze e la capigliatura africane riprodotte, invece, nella raffigurazione di Mantegna. Benché la caratterizzazione della pelle nera sia qui assente – nei disegni a inchiostro di questo tipo, chiaro e scuro servono solo a suggerire forme e ombreggiature –, l’africanità dell’ancella adolescente è inequivocabile. E così è, purtroppo, il suo ruolo di subalterna. Rispetto all’elegante Giuditta, appare, infatti, di statura più modesta, è più marginale nella composizione e indossa abiti più dimessi. Mentre Giuditta sorregge ancora la spada con cui ha decapitato la vittima, la serva,che indossa orecchini, le porge il sacco dove riporre il capo mozzato. Mentre Giuditta contempla il trofeo dall’alto in basso, lo sguardo dell’ancella si leva a cogliere i suoi ordini. L’intesa fra le due donne alleate è però certa, e le loro labbra dischiuse – poco frequenti nella pittura dell’epoca – alludono a una conversazione sul fatto e sul da farsi.

    Perché Mantegna fa di questa serva un’africana? La spiegazione più probabile è che l’opera fosse un omaggio per Isabella d’Este, giovane consorte di Francesco Gonzaga, Marchese di Mantova. La vicina Ferrara, luogo di provenienza della sposa, ospitava una corte in cui la servitù di pelle nera era molto ricercata; quando nel 1491, Isabella riuscì infine ad avere una serva nera per sè, ebbe a dire sul suo conto: “de negreza e de fateze ne satisfa più che non haveressimo saputo desiderare”. La crudezza di simili toni rivela fino a qual punto i servi svolgessero allora la funzione di “accessori” umani da esibire a conferma dei propri privilegi di classe; l’intento di Mantegna era insomma, quello di adulare Isabella accostandola alla figura di Giuditta. Tuttavia, l’invenzione dell’ancella nera, inaugurata da Mantegna, fece presa, e artisti come Tiziano e Veronese contribuirono ad consolidare questo nuovo ruolo della donna nera nell’arte europea.

    Paul Kaplan

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    Albrecht Dürer

    Katherina

    1521
    Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi
    inv. 1060 E

    Questo disegno dall’intensa carica emotiva e speculativa raffigura la ventenne Katherina, con ogni probabilità schiava e non solo serva del portoghese João Brandão, agente o rappresentante commerciale del re del Portogallo ad Anversa. L’anno di esecuzione, il 1521, lo consacra come il primo ritratto rinascimentale dal vivo di una nera africana di cui sia citato il nome. La schiavitù era comune e diffusa nell'Europa dell'epoca, e coinvolgeva persone di disparata provenienza, sia bianchi che neri; nel caso del Portogallo, la maggior parte di loro aveva comunque origini subsahariane – si stima, infatti, che la componente nera costituisse, a Lisbona, il 10% dei residenti. Quanto a Katherina, l’ipotesi più attendibile è che Brandão l’avesse condotta con sé quando lasciò la propria capitale per Anversa. La sua giovane età rende altamente improbabile un affrancamento già concesso dal padrone e, con ciò, la possibilità che essa fosse allora solo una serva. Il disegno dell’artista tedesco Albrecht Dürer, assai celebrato,tra l’altro,per le sue doti di ritrattista, è straordinario per la sua capacità di cogliere al contempo l’aspetto esteriore e l’intima condizione di Katherina. Per disegnarla, lasciò da parte inchiostro, matita e carboncino a favore della più rarefatta punta d’argento, una tecnica che richiedeva un’attenta premeditazione, poiché la carta doveva essere preparata in precedenza. Dürer si destreggiava da maestro nel disegno a punta d’argento, tecnica che aveva abbracciato con entusiasmo nel periodo trascorso nei Paesi Bassi tra il 1520 e il 1521; ne è prova, innanzi tutto, quella celebre raccolta di bozzetti da cui è comunque escluso il ritratto di Katharina, realizzato su un foglio a sé stante. Si ritiene che quest’ultimo sia stato compiuto da Dürer per sé, come esercizio artistico a proprio arbitrio. Eccezionale è anche la sopravvivenza del diario tenuto da Dürer durante il suo soggiorno olandese, testimonianza a metà strada tra un diario delle proprie attività e un rendiconto delle spese, cui dobbiamo anche il riferimento alla ‘mora’ o africana del Subsahara appartenuta a Brandão e da lui disegnata. Il nome di Katherina compare accanto a quello di altre due figure del seguito di Brandão che Dürer ritrasse a disegno in una stessa tornata. Gli altri due soggetti sono due bianchi portoghesi, ma i tre disegni furono realizzati con media diversi: contro ogni attesa, a Katherina fu riservata la punta d’argento, ovvero la soluzione più dispendiosa in termini sia di tempo che di denaro; il segretario di Brandão fu invece ritratto a carboncino; a Rodrigo Fernandez d’Almada, agente attivo in seguito, toccò infine la matita. Se è vero che il registro la lascia anonima, un terzo elemento d’eccezione è la nota autografa apposta da Dürer sul disegno, nel quale, oltre al nome (portoghese) di Katherina, compaiono la sua età e la data di esecuzione rendendone l’identificazione inattaccabile.

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    Albrecht Dürer

    Katherina

    In quanto componente della servitù domestica di Brandão, Katherina sfoggia indumenti di pregio che riflettono il rango del padrone; benché ridotta in schiavitù, il suo livello di agio dev’essere appunto stato elevato. Gli incisivi e sobri tratti di Dürer bastano a suggerire tanto le seriche marezzature di quel vestito a collo alto, quanto la sagoma di un’aquila monocefala o bicipite che spiega le ali al sommo di un gioiello – o, com’è ben più probabile, di una moneta – nella parte centrale anteriore della sua cuffietta. Simili monete sormontate da un emblema aquilino erano piuttosto in voga, poiché riproducevano lo stemma del Sacro Romano Impero e degli Asburgo. Può darsi che Katherina abbia adornato di una moneta il velo che le copriva il capo a imitazione di quelle donne del Nord Europa che si cingevano il collo di catene d’oro impreziosite da monete d’oro per vantare la loro ricchezza? Data la sistematicità con cui Dürer soleva elargire mance ai servi, uso attestato dall’inizio alla fine del registro, non è da escludere che Dürer stesso le abbia donato la moneta in occasione di un precedente incontro. La persona con cui Dürer intratteneva i contatti più frequenti ad Anversa era infatti Brandão, padrone di quella Katherina che il pittore deve avere incontrato in tante occasioni. Qualunque sia la ragione, il fatto stesso di indossare una moneta costituisce di per sé un gesto straordinariamente significativo. Oggi il ritratto richiama però l’attenzione dello spettatore in primo luogo per il modo in cui rivela lo stato d’animo di Katherina. L’interiorizzazione di un senso di profonda malinconia traspare infatti dal volto e dalla mimica della giovane donna, ribadita dalle ombreggiature a croce tratteggiate sulle tempie, sotto gli occhi, lungo una guancia e tutto intorno alla bocca, con chiara sottolineatura dei lineamenti. L’emozione della giovane emerge sia da quell’accenno di asimmetria nello sguardo con gli occhi lievemente strizzati come in vari altri ritratti di Dürer, sia dalla turgida espressività delle labbra. Più che la modestia, a farle abbassare gli occhi, sembra piuttosto un sentimento di malinconia o rassegnazione. Cinque secoli fa esatti, quando la schiavitù era la norma, Dürer coglie e traspone in concreto quel che oggi possiamo intendere non solo come un tentativo di rappresentazione altamente realistica di un individuo, ma anche come l’espressione delle implicazioni conseguenti alla mercificazione degli essere umani.

    Kate Lowe

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    Filippino Lippi

    Adorazione dei Magi

    1495-96
    Gli Uffizi
    Inv. 1890 n. 1566

    Come molti altri conservati agli Uffizi, questo dipinto rappresenta l’Epifania: il racconto biblico dei tre re Magi, giunti da lontano per adorare il Bambino Gesù appena nato. Soprattutto nell’Europa del Nord, a partire dal XV secolo, artisti come Albrecht Dürer iniziarono a raffigurare uno dei tre come africano. Tale scelta è un riflesso del crescente apprezzamento per l’imperatore etiope da parte degli europei, convinti che quel monarca cristiano discendesse da uno dei Magi. Figure di neri assai raramente ricoprono il ruolo di Magi nella pittura fiorentina, dove più frequentemente essi rappresentano umili servitori. La figura dalla pelle scura sulla destra della versione di Filippino Lippi probabilmente stava a rappresentare gli africani pagani convertiti al cristianesimo. La pala d’altare dapprima era stata commissionata a Leonardo da Vinci, che aveva lasciato incompiuta la tavola oggi agli Uffizi. Filippino assunse la commissione dell’opera, firmandola sul retro e apponendovi la data del 1496, prima di collocarla nella Chiesa di San Donato a Scopeto.

  • 9/22
    Filippino Lippi

    Adorazione dei Magi

    Nel 1568 Giorgio Vasari elogiava Filippino per i costumi bizzarri di quei ‘mori’ e ‘indiani’; si tratta di termini a cui ricorre con frequenza nei suoi scritti per riferirsi a gente di carnagione scura proveniente da un territorio imprecisato a sud dell’Europa. La pala di Filippino mostra alcuni di questi stranieri adornati di turbanti dai colori vivaci; a sfoggiare un orecchino d’oro e una perla che pende da un nastro è però solo il nero africano. Nonostante le fonti più antiche non menzionino l’uso di orecchini tra gli uomini africani, spesso i pittori del Rinascimento, Dürer incluso, impiegavano quel tipo di monile come marchio identificativo dell’‘altro’.

    Poiché Filippino ricevette l’ingaggio dai canonici regolari di Sant'Agostino, gli scritti di quel padre della Chiesa forniscono una base per interpretare il dipinto. Alle spalle di Maria e Giuseppe l’uomo dal copricapo nero bombato, alla cui cintura è appesa una scarsella, allude alle parole di condanna scagliate da Agostino contro gli ebrei, i quali voltarono la schiena alla rivelazione divina, come costui la volta a Cristo nel dipinto. In varie occasioni il santo oppose agli ebrei l’esempio dei pagani, pronti a tributare al Bambino l’adorazione che li rese cristiani. Agostino precisava la provenienza dei pagani perfino dai più remoti ‘estremi confini del mondo’, espressione usata sovente per indicare l’Etiopia o l’Africa. Per sottolineare la devozione di questi stranieri, Filippino ne ritrasse uno, riconoscibile per il turbante azzurro con le mani giunte in preghiera. Il pubblico di riferimento (quello dei canonici regolari) certo avrebbe potuto collegare la figura solenne e carica di rispetto dell’africano, collocata in prossimità dello spettatore, alle riflessioni di sant’Agostino sul senso metaforico di ‘nero’. Nel suo sermone sul Salmo 71, il santo illustrava la natura universale della Chiesa cattolica, che «dovrà estendersi in tutto il mondo, sin presso gli etiopi, i più lontani e brutti tra gli uomini». L’opera di Filippino accoglie, dunque, e rilancia il carattere inclusivo di questa interpretazione dei neri come ‘pagani’, distinguendosi così dal filone rinascimentale propenso, invece, a servirsi di loro come metafore del male. Tuttavia, Filippino non suggeriva un’uguaglianza tra questi stranieri e gli europei. Sulla destra, in primo piano, il pittore mette in evidenza una figura maschile, probabilmente un notabile fiorentino, il quale sembra mostrare la via a personaggi che Vasari avrebbe definito ‘mori’ e ‘indiani’. Sebbene presto anch’essi avrebbero abbracciato il Cristianesimo, appaiono letteralmente come figure marginali. Nel Rinascimento un motto come “black lives matter” valeva fino a un certo punto. Per i bianchi, committenti e spettatori della pala di Filippino, i neri contavano entro i limiti in cui avrebbero contribuito a celebrare l’importanza del Cristianesimo nel mondo.

    Jonathan K. Nelson

  • 10/22
    Baldassarre Franceschini detto il Volterrano

    Allegoria dell’America

    1650-1670
    Gli Uffizi
    Inv. 1890 n. 2688

    La raffinata tela del Volterrano rappresentante una giovane donna e il suo accompagnatore nero offre un esempio suggestivo delle complesse dinamiche razziali implicate da un simile abbinamento di personaggi nella ritrattistica europea. Attivo nella pittura, nel disegno e nell’affresco, Baldassarre Franceschini detto il Volterrano fu un artista fiorentino beneficiario del mecenatismo dei Medici e destinato a conquistarsi un posto fra le principali individualità creative della Firenze barocca. La sua Allegoria dell’America (1650-1670) fu commissionata dal Marchese Ferrante Capponi. L’arte figurativa del XVII secolo vide affermarsi la voga delle allegorie personificate dei quattro continenti. La così detta “scoperta” del Nuovo Mondo inaugurò a fine Quattrocento un’età di esplorazioni che avrebbe risvegliato negli europei una consapevolezza globale. Le notizie che giungevano da angoli prima ignoti della Terra, spinsero gli europei a desiderare di definirsi distinguendosi da un mondo sempre più multiforme ed “esotico”. La nuova, articolata immagine dell’America si aggiunse allora ai concetti ormai consolidati di Europa, Asia ed Africa, completando il quadro totalizzante del mondo come somma di queste quattro macro unità. Tipico delle correlate allegorie fu l’accostamento a una figura femminile di qualità o accessori convenzionalmente attribuiti a ciascuno dei quattro continenti. Codificati nel XVI secolo, questi simboli rimasero in pratica gli stessi fino a tutto il XIX secolo. Quanto all’America, gli emblemi più diffusi comprendevano arco e faretra, abiti piumati e un alligatore o un armadillo. Le donne scelte in rappresentanza di questo continente comparivano perlopiù nude o con indosso gonna e copricapo ornati di piume, ostentando la carnagione corrispondente alla rappresentazione di persone bianche, “rosse” o nere. In assenza di coerenza razziale, le insegne distintive acquisirono un valore essenziale in termini di identificazione dell’America. Questa Allegoria dell’America inscena una curiosa rivisitazione del tema dato, giacché dal repertorio simbolico acquisito, attinge appena a due ingredienti: oltre alla faretra, il pappagallo, uccello esotico che richiama sia l’Africa che il Sud America. Pur rappresentando il suo attributo forse più vistoso, il valletto nero non rientra fra gli elementi caratteristici dell’allegoria in questione. Cionondimeno, la sua figura è onnipresente nella cultura figurativa della prima età moderna.

  • 11/22
    Baldassarre Franceschini detto il Volterrano

    Allegoria dell’America

    Nella sua America, presentata come una donna dai tratti bianchi, il Volterrano ricorre al fanciullo nero che sorregge il pappagallo per razzializzare e esoticizzare la protagonista, sottolineando le credenze diffuse in Europa sulla natura selvaggia e indomita del Nuovo Mondo. Si tratta in ogni modo di un elemento insolito e instabile, appunto perché soggetto a convogliare molteplici concetti diversi. Affiancare a una donna bianca un paggio personale nero significava riproporre un topos pittorico popolarissimo nel Seicento, presente in raffigurazioni bibliche, mitologiche, allegoriche, storiche e non solo. L’abbinamento raggiunge, tuttavia, il culmine come gesto di auto-rappresentazione in chiave elitaria. In origine, l’Allegoria dell’America, realizzata dal Volterrano, era nota sotto il titolo di Donna Turca con Moretto. Il ritratto delle signore accanto ai loro valletti “mori” era frequente presso le corti nobiliari. Questi quadri rispecchiavano la presenza a corte di neri dai diversi ruoli e l’esigenza, da parte delle nobili, di apparire cosmopolite, agiate, vezzeggiate ed esotiche. Le corti italiane rappresentavano, in effetti, un luogo dove la presenza di neri era ricorrente. Nel corso del Seicento, la pratica di circondarsi di schiavi neri, notoriamente consolidata nel mondo islamico, era ben conosciuta in Italia dove l’approdo di schiavi subsahariani, spesso giunti dal Nordafrica, arrivava attraverso la tratta araba degli esseri umani.

    L’approccio degli europei dell’epoca alle popolazioni dell’Africa Nera e l’immagine di queste che si affermò, passarono quindi, per il filtro del così detto “Oriente” e delle civiltà intorno al Mediterraneo. Agghindato di uno sfarzoso giubbetto, impreziosito da un motivo orientaleggiante di largo impiego in Italia per decorare le stoffe, il giovinetto nero sottolinea l’origine levantina della dama turca. Si tratta, insomma, di una tela che conferma l’irrequieto polimorfismo della figura africana, così come riflesso nella pittura della prima età moderna, soprattutto se posto a confronto con una figura femminile di pelle bianca. Questo dipinto del Volterrano evidenzia la precarietà che s’innesca con la presenza di queste immagini rare di persone nere spogliate di un nome e di un’identità individuali. La sua Allegoria dell’America punta l’indice a Levante, in direzione del Vecchio Mondo, e a Occidente, verso il Mondo Nuovo. A sottrarsi all’ambiguità è però l’urgenza che spinge gli europei a puntare sull’immagine di un inserviente nero, loro suddito, per definire la loro precipua identità culturale, in forza di un contrasto con altre etnie dall’aspetto più scuro.

    Adrienne L. Childs

  • 12/22
    Artemisia Gentileschi

    David e Betsabea

    1650 c.
    Palazzo Pitti, Galleria Palatina
    Inv. Oggetti d’Arte (1911) n.1803

    Betsabea si sta preparando. Re David le ha inviato un messaggio: gli piacerebbe incontrarla. L’ha scorta dalla scura loggia del proprio palazzo, al di là del muro di alberi, e la passione è divampata. La giovane si fa bella, assistita dalle ancelle. Una le porta dell’acqua. Un’altra sorregge uno specchio per permetterle di aggiustarsi i capelli. Una terza solleva una collana di perle, strabiliata dal loro scintillio: ha gli occhi umidi e le labbra dischiuse a mostrare i denti, a cui le perle sono spesso accostate nelle poesie dell’epoca. La cameriera con lo specchio prende nota.

    Nell’Italia del Seicento non mancano raffigurazioni di toilette che trasformano un momento di cura estetica in uno spettacolo da scoprire. Qui vediamo quanta attenzione stia dietro ad un’acconciatura tenuta da una coroncina gemmata, che Betsabea sta legando. Ma fare attenzione significa anche riflettere. La fede cristiana sosteneva che la bellezza, per essere riconosciuta tale, dovesse dimostrare un certo senso di controllo. Predicatori e confessori, infatti, insistevano che l’avvenenza femminile fosse ammissibile solo se chi vi aspirava sapesse contenersi, misurando le proprie premure in modo da comunicare sì il proprio stato sociale e compiacere allo sguardo del marito, ma non certo per dare esca al desiderio. È questo vaglio morale a spiegarci perché Artemisia Gentileschi abbia assegnato fattezze africane alla terza ancella, sedotta dalle perle. È rapita: il che dimostra come sia stata conquistata dalla vanità. L’altra serva, quella bianca con lo specchio, se n’è accorta. Che sia virtuosa è dimostrato da come distoglie lo sguardo dall’oggetto che ha in mano e che tratta per quello che è: uno strumento d’uso. A differenza della compagna nera, lei non cede alle lusinghe dell’effimero.

  • 13/22
    Artemisia Gentileschi

    David e Betsabea

    Non era raro incontrare cameriere africane al servizio di donne bianche nella Napoli del 1650, ovvero nel luogo e nell’anno a cui è riconducibile l’esecuzione di questo quadro. A Napoli, le domestiche venivano fatte sfilare per strada come ostentazione di ricchezza, ed è probabilmente per questo motivo che Artemisia aveva cominciato a includerle nei suoi dipinti a soggetto aristocratico. Sappiamo, inoltre, che nel 1650 la pittrice era in contatto epistolare col mercante Antonio Ruffo, coinvolto nella tratta degli africani, che lui definiva come merci. (L’aberrante sottovalutazione era prassi. È infatti risaputo che Caravaggio, idolo di Artemisia, ne ottenne due in pagamento per una tela che lasciò a Malta). In questo quadro, però, Artemisia non si contenta di registrare un fatto di vita, ma include la fantesca nera per evidenziare il monito edificante sotteso alla vicenda.

    Per capire come, basta leggere una fiaba compresa nella raccolta napoletana nota come Lo cunto de li cunti (molto in voga nel 1650, un quindicennio dopo la prima edizione a stampa), in cui una serva nera tenta di uccidere una fata bianca con una forcina per capelli. La storia presenta la domestica come una sprovveduta (talmente tanto da prendere per proprio il riflesso della fata in una pozzanghera e convincersi di poterle sottrarre il posto e così sposare il principe del luogo). La favola presenta la serva anche come una stupida vanitosa, che è lo stereotipo che Artemisia traspone in immagine.

    In una versione anteriore, un quadro attualmente conservato in Ohio, Artemisia aveva dipinto l'addetta alle perle con la carnagione bianca. Lì la domestica passa la collana a Betsabea sotto lo sguardo di una compagna genuflessa, che, per quanto attenta, non si scompone più di tanto. È solo quando Artemesia scurisce il colore della pelle e configura l’ancella come africana che scatta la reazione di condanna. Questa modifica dimostra la dimensione razziale del pregiudizio. Inoltre, trasforma l’assetto dell’opera: il gesto della serva nera, infatti, assume tratti teatrali e il disdegno della cameriera virtuosa diventa patetico. Per ribadirne la centralità, Artemisia la colloca in mezzo al quadro, così da sottolineare la questione morale di ogni premura estetica e che è qui inscenata come una pantomima in bianco e nero.

    Emanuele Lugli

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    Filippo Napoletano

    Caccia del Persiano

    1620 c.
    Gli Uffizi
    Inv. 1890 nn. 5035, 5036

    Cosa c’è dietro un nome?

    I poco noti ma ragguardevoli pannelli di Filippo Napoletano esibiti in due mostre precedenti come Cacciatori Orientali e Cacciatori Persiani recavano in origine il titolo di Caccia del Persiano [1], definizione che non descrive le figure ritratte, bensì l’attività da loro svolta. Questi dipinti rappresentano due distinte spedizioni venatorie che avanzano in direzione est; una si avvale di falconi, l’altra di ghepardi, emblema di regalità presso le corti persianeggianti. La realizzazione di tali scene coincide con un periodo in cui l’autorità medicea ambisce intensamente a identificarsi con la monarchia persiana, nel quadro sia di un profondo interesse per la cultura letteraria che fiorì sotto i suoi auspici, sia di un debole per la loro calligrafia [2] e anche per le battute di caccia reali, intese dai Medici come occasione per atteggiarsi a monarchi ereditari in una città dalle spiccate tradizioni repubblicane [3].

    Il Granduca Cosimo II, patrono del Napoletano, raccolse il lascito di relazioni diplomatiche privilegiate con lo Scià safavide della Persia Abbas I il Grande contro il comune nemico ottomano. Tale scenario geopolitico dettò in buona parte l’agenda artistico-culturale della corte medicea a partire dall’ultimo quarto del XVI secolo. Il governo di Cosimo fu contrassegnato dalla costante accoglienza riservata agli emissari persiani; non a caso, una statua dello Scià Abbas in tenuta corazzata da cavaliere, sorreggente lo scudo di Medusa del Caravaggio, si stagliava contro un altro armigero orientale fra ali di cavalleria moresca nel cuore delle Sale dell’Armeria volute da Ferdinando I [4]. L’eredità di Cosimo comprendeva anche un nutrito repertorio di feste coinvolgenti personaggi confluiti dai quattro angoli del mondo, con la figura del nero africano regolarmente presente, nella cornice delle quali, il Granduca, ammantato di splendore levantino, vestiva gli abiti del cavaliere o del monarca persiano [5]. Con richiamo immediato ai pannelli venatori d’ispirazione persiana, i festeggiamenti di corte del 1616, animati dalla finta battaglia della “Guerra d’Amore”, vedevano Cosimo II nei panni di un fantomatico re persianeggiante di nome Indomoro; costui troneggiava su un carro allegorico trascinato da due veri cammelli del vasto serraglio granducale, affiancato dal carro del re africano procedente al traino di due elefanti meccanici [6].

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    Filippo Napoletano

    Caccia del Persiano (inv. 1890 n. 5035)

    La tavola 5035 illustra un rientro trionfale dalla caccia salutato da suonatori di corno d’ariete (boogh) e di tamburo; questi musici, ritratti in groppa a dromedari, trasportano un bottino di cervi e di leoni. Lo stuolo segue un signore dal contegno principesco che avanza a piedi, adorno di una cappa di ermellino reale e scortato dal fido falcone, mentre è intento a istruire un giovane valletto con un copricapo ispirato a quello del Safavide e una muta di segugi al seguito. Ritmate dal rullìo dei tamburi e dal clangore dei corni, le battute di caccia reali che affidano a una schiera di dromedari il trasporto delle prede colpite, animano l’arte persiana dall’antichità. Fra gli esempi più celebri, si annoverano le scene di età sasanide ambientate sullo fondo di Taq-e Bostan. Il rimando è, insomma, a quel tratto della Via della Seta compreso tra Hamadan e Baghdad, già battuto da Giovanni Battista Vecchietti, Pietro della Valle e Robert Shirley, che è in rapporto diretto con la pittura del Napoletano ed è indicato nei manoscritti illustrati trasferiti a Firenze da quest’ultimo.

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    Filippo Napoletano

    Caccia del Persiano (inv. 1890 n. 5035)

    Due musici neri seduti su gualdrappe di velluto impreziosite da ricami calligrafici persiani hanno sul capo la kofia e, alle orecchie, pendagli di perle. Formano un gruppo con un’altra figura di nero in piedi, dagli orecchini a cerchio e dal turbante bianco e verde. Se alla corte di Cosimo II i valletti di origine subsahariana erano associati alla pratica musicale, lo sfondo in cui compaiono queste figure evoca piuttosto la rete commerciale dell’Oceano Indiano, con le sue propaggini estese fino alla costa orientale dell’Africa e al Golfo Persico.

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    Filippo Napoletano

    Caccia del Persiano (inv. 1890 n. 5036)

    La tavola 5036 mostra, pronto allo svago di una battuta alla lepre e alla gazzella, un corteo di nobili cavalieri dal cappello di ermellino ornato di piume, i cui ghepardi addestrati si accovacciano sulla groppa equina al seguito di due elefanti asiatici accuditi da un addetto (o mahut) di origine indiana. Agghindato come un re, un nano dalla corona di corallo fissa lo spettatore con lo scettro in pugno, in groppa a un elefante, su una gualdrappa fregiata di finti segni calligrafici persiani all’uso degli atti devozionali musulmani (tahil), dietro a un servitore asiatico con un ramoscello di rosa di gusto persiano. Il drappello di struzzi rende ancor più godibile la scena burlesca.

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    Filippo Napoletano

    Caccia del Persiano (inv. 1890 n. 5036)

    In mezzo al primo piano, il paggio africano in piedi, che indossa due orecchini di perle bianche, volge il capo per spingere in giro lo sguardo dello spettatore finché questo non raggiunge un cortigiano che, sotto gli occhi del suo ghepardo ammaestrato, è intento a conversare con una donna. L’inserimento di un personaggio nero tra le schiere cortesi e simili immagini di ghepardi da caccia, fungevano da cifra emblematica dei Medici già dall’epoca in cui Benozzo Gozzoli realizzò il Corteo dei Magi nella Cappella loro intitolata, ovvero dalla prima occasione offerta al loro casato per associare il proprio nome alle virtù della Persia antica [7]. Le tinte squillanti che spiccano sui costumi dei cavalieri, il giallo delle sete e le tonalità dell’oro che danno risalto ai giubbetti di velluto in un tripudio di copricapi piumati, richiamano la descrizione delle finte battaglie disputate nel 1616 sullo sfondo festivo della “Guerra d’Amore”. A imprimere alla scena toni faceti e caricaturali intervengono poi altri tocchi, come il nano, che il mondo artistico e conviviale mediceo vuole nudo, ma qui compare in abiti regali, o la contraffazione calligrafica indosso agli elefanti.

    Mahnaz Yousefzadeh

     

    Note

    [1] Guardaroba Medici 373, c. 177 Cat. Dipinto n. 77.  Le opere furono presentate, rispettivamente, sotto il titolo di Cacciatori Orientali nell’ambito della mostra allestita nel 2004 presso il Sakip Sabanki Museum di Istanbul e come Cacciatori Persiani contestualmente a quella di Palazzo Pitti del 2007.

    [2] Nel 1619, Cosimo II fu dedicatario, da parte di Giovanni Battista Vecchietti, di sonetti che ritraggono espressamente il Granduca e la sua Dama in versi che si vogliono ispirati all’uso dei poeti di Persia, attivi presso le corti principesche di quella nazione. In quello stesso 1619, una nuova accademia sorta a Firenze prevede di eleggere a proprio emblema un’iscrizione calligrafica persiana.  Cfr. Yousefzadeh, “Exile and Writing Between Florence and Persianate Worlds”, I Tatti Studies, settembre 2021.

    [3] Angelica Groom, Exotic Animals in the Art and Culture of the Medici Court in Florence, Brill, 2018. Marco Massetti, “New World and other Exotic Animals in the Italian Renaissance: The Menageries of Lorenzo il Magnifico and his son, Pope Leo X” (Brill, 2018). Angelica Broom, 2018.

    [4] Yousefzadeh, “Sea of Oman: Ferdinand I, G.B. Vecchietti and the Armour of Shah Abbas of Persia”, Rivista Degli Studi Orientali, 2018.

    [5] Per una descrizione delle nozze di Francesco I nel 1578, cfr. Mahnaz Yousefzadeh, “The Burrato of the Bargello” in Toscano and Ampkaedts., ReSignifacation, 2017. Nel quadro della tradizionale Battaglia del Ponte inscenata nel 1608 per celebrare le nozze di Cosimo II, un personaggio che incarnava lo Scià Abbās di Persia (annunciato solennemente, expressis verbis, col titolo di monarca dell’Oriente e vero erede e successore di Ciro) fa segno al proprio esercito tanto utile a corte che sul fronte, suggellando l’alleanza col Granduca. Descrizione delle feste fatte nelle reali nozze de' Serenissimi principi di Toscana d. Cosimo de' Medici, e Maria Maddalena arciduchessa d'Austria (1608)

    [6] Angelica Groom, Exotic Animals in the Art and Culture of the Medici Court in Florence, Brill, 2018.

    [7] Richard Trexler, Journey of the Magi, Princeton University Press, 1997.

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    Jacopo Ligozzi

    Moro di Barbaria con giraffa

    1580 c.
    Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi, Inv. 2966 F

    Il personaggio definito dall’artista “Moro di Barbaria”, con ovvio riferimento alla sua provenienza dalla Costa Berbera (vale a dire dal Maghreb nordafricano), fissa costernato una giraffa dal collo serpentino. A concepirlo fu l’estro inesauribile di Jacopo Ligozzi da Verona, giunto a Firenze nel 1577 perché ingaggiato dal Granduca Francesco I de’ Medici. La sottigliezza e la vivacità del gioco tra linea e colore che contrassegna le serie dei bozzetti di costumi (tutti, all’apparenza, riconducibili a un gusto ottomano tipico di Istanbul, capitale dell’Impero) devono la loro impronta artistica ai più noti studi di storia naturale, attualmente agli Uffizi, eseguiti anch’essi da Ligozzi per il Granduca ad acquarello e a guazzo. Se ha senso riconoscere a un pesce il merito di stupirci per la sua bellezza, quel pesce è certo quello di Ligozzi.

    Attualmente, conosciamo ventinove di questi studi di costume, ravvivati da particolari in oro. La raccolta originale, parzialmente dispersa e di ignota motivazione, si ritiene fosse stata eseguita per il collezionista fiorentino Niccolò Gaddi, che l’artista incontrò nel 1577. I fogli identificati comprendono personaggi dell’ambiente cortigiano, urbano e militare. Le loro origini sono varie e disparate: vi ravvisiamo infatti turchi, magiari, arabi, greci, slavi e africani. Ma non ce n’è uno che non sia affiancato da animali. Questi ultimi sono agilmente riconducibili allo stato sociale della persona rappresentata, come i cavalli guidati dai mozzi di stalla o espressione di una bizzarria, come la giraffa qui trattata o il ghepardo a fianco di un arciere della marina ottomana.

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    Jacopo Ligozzi

    Moro di Barbaria con giraffa

    Questo graduato africano è uno dei tre personaggi neri. La pelle “nera” degli altri, una balia e uno stalliere, dipende solo da una scelta cromatica: le fonti su cui Ligozzi si basò per ritrarre queste umili figure non forniscono indicazioni sulla loro carnagione, tanto da indurci a leggere la preferenza di Ligozzi come indizio di un gusto per la varietà. Risulta comprovato come Ligozzi solesse abbinare spunti tratti da varie illustrazioni a stampa sui costumi, in primo luogo da quelle pubblicate nel 1580 a corredo del testo di Nicolas de Nicolay Le Navigationi et viaggi, fatti nella Turchia. Novamente tradotto di Francese in italiano (in questo caso, si tratta del “Capitano d’Arabi”), nonché dalle argute interpretazioni offerte da Jost Amman nel suo Trachtenbuch/Habitus del 1577 (galante e ostentatamente nero, un bell’esempio è rappresentato dal suo “Mauritanus ex Arabia/Mohr aus Arabien”). Fra i modelli, spiccano però due punti di contrasto. Le gambe possenti del moro sono scoperte. L’onnipresenza dei gambali in ogni altro contesto rivela l’intenzionalità della scelta. Ciò è tanto più vero quando, a un’attenta osservazione, scopriamo che il collo e il braccio sinistro del personaggio sono avvinti da un doppio giro di catena inteso a evidenziarne la muscolatura. Dal suo bel volto, incorniciato da ciocche di ricci crespi sfuggite dalla falda del turbante, traspare un umore imbronciato che infrange la consueta inespressività, lasciando presupporre uno studio dal vivo.

    Poi c’è la giraffa, specie di cui all’epoca non circolavano esemplari né a Firenze né in Europa in genere. Sfogliando l’album illustrato, il ricordo degli ospiti di Niccolò Gaddi può essere andato alla celebre giraffa giunta col suo guardiano a Firenze nel 1487 quale omaggio del Sultano d’Egitto a Lorenzo de’ Medici. In ogni modo, l’animale che Ligozzi riprodusse da un modello ignoto è slegato, e l’uomo che l’osserva è un guerriero, non un guardiano. Ciononostante l’espressione individuale trasmessa dal personaggio non deve far dimenticare come il “moro” di Ligozzi resti comunque una figura esotica che osserva un’altra creatura esotizzante per appagare la curiosità dei bianchi.

    Joaneath Spicer



    BIBLIOGRAFIA

    Williams, Hayden, “Additional Printed Sources for Ligozzi’s Series of Figures of the Ottoman Empire,” Master Drawings, v. 51/2 (2013): 195-220. 

    Conigliello, Lucilla, “Figure in costume orientale,” in Jacopo Ligozzi: pittore universalisimo, ed. by Cecchi, Alessandro, Lucilla Conigiello and Marzia Faietti; exh. cat. Palazzo Pitti (Livorno 2014): 92-93 (critical overview).

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    Justus Suttermans

    Ritratto di Francesco di Cosimo II de’ Medici

    1631-32 c.
    Palazzo Pitti, Appartamenti Imperiali e Reali
    inv. Poggio a Caiano 137

    In basso a sinistra del ritratto di Justus Sustermans di Francesco di Cosimo de' Medici del 1631-32, scorgiamo un giovane nero che imbraccia un elmo. Indossa una camicia a strisce rosse e verdi e guarda attentamente verso destra in alto. Sembra scrutare un oggetto esterno al quadro, in un'attitudine che conferisce casualità alla sua presenza. Considerato che quest’opera a figura intera è di grandezza superiore al naturale [1], la statura del personaggio è quella di un giovane adulto. Il contrasto che s’instaura fra questi e il soggetto che tiene il centro della scena ha lo scopo di ribadire e rimarcare i rapporti gerarchici, tanto è vero che l’anonimo modello nero sembra aggiunto dal pittore quale mero accessorio della tenuta militare di Francesco di Cosimo II de' Medici (1614-1634), qui raffigurato come membro dell’esercito imperiale. Da un antico inventario possiamo inoltre dedurre che la scelta di far tenere un elmo (o ‘morena’) a un uomo di pelle nera (noto in italiano come ‘moro’) intendesse suggerire una sorta di ironico gioco di parole [2].

    Fin dall’antichità, i pittori hanno fatto proprio il concetto che un ritratto debba riprodurre innanzitutto l’aspetto esteriore di un individuo. Ritrarne la personalità o lo stato sociale comportava qui l’aggiunta di oggetti di scena [3]. Nell’arte europea del Settecento il paggio nero divenne frequentemente un “oggetto di scena”. In molti casi i modelli non possedevano né impiegavano servitori neri, ma farli rappresentare nei ritratti divenne un modo per gli Europei bianchi di esaltare la ricchezza, la nobiltà e l'agio della loro vita di corte [4].

    Il servo nero fa la propria comparsa nella pittura italiana grazie al ritratto di Laura Dianti, eseguito da Tiziano fra 1520 e 1525; di lì alla prima metà del Seicento, la produzione di ritratti ufficiali in cui figurano paggi neri diviene cospicua in Italia. Gli esempi iconografici precoci mostrano servitori neri dai tratti individualizzati, finemente abbigliati per esaltare il rango del casato e inseriti nel contesto pittorico come “membri della famiglia”. Le tracce della presenza di quei primi africani rappresentati in dipinti italiani possono essere ricercate in inventari e archivi di famiglia [5]. Ma la svolta è già matura intorno al 1623, anno di esecuzione del ritratto della Marchesa Elena Grimaldi Cattaneo che Antoon van Dyck arricchisce di una presenza africana. Il paggio è all’opera: in piedi alle spalle di Elena, sostiene un parasole rosso sul capo della signora.

  • 22/22
    Justus Suttermans

    Ritratto di Francesco di Cosimo II de’ Medici

    Non siamo certi se Sustermans, che operava in Italia, conoscesse questa nuova tendenza pittorica, anche se la sua composizione suggerisce, forse, un’influenza derivata da parte del ritratto di Cattaneo di Van Dyck. Anche il paggio di Sustermans è attivo e posizionato sullo sfondo dietro e in basso coposizionalmente rispetto al protagonista. Ma si discosta anche dalla tradizione pittorica italiana dove il paggio nero ammirerebbe il protagonista con sguardo incantato per portarvi l’attenzione dello spettatore.

    Simili presupposti hanno talora alimentato l’idea che l’inclusione del servitore nella pittura di Sustermans fosse stata solo una trovata dell’artista. Uno sguardo più attento alla forte caratterizzazione del volto basterebbe però a contestare questa ipotesi. L’attorcigliarsi dei ricci mostra l’ondulazione irregolare che è tipica dei capelli crespi. Non meno scrupolosamente sono resi l’incarnato e la sua permeabilità luminosa: descritti con estrema minuzia, i riflessi vi si propagano infatti dalla fronte, al naso, alla guancia fino a coinvolgere il collo. Justus Sustermans vanta in effetti un'ampia esperienza nel ritratto di servitori dal vivo [6]. Un’eventuale disamina degli archivi potrebbe forse dissipare il mistero intorno all’apparizione “casuale” del modello nero con cui ci stiamo confrontando.

    Stephanie Archangel

    Note
    [1] Langedijk 1983, volume II, n. 43/10, p 190.
    [2] Kaplan 2011, p 181.
    [3] Langedijk 1983, volume I, p 190.
    [4] Bindman 2010, p 228.
    [5] Bindman 2010, p 222-225.
    [6] Giusto Sustermans, Domenica delle Cascine, la Cecca di Pratolino e Piero moro, 1634. Firenze, Galleria degli Uffizi.

    Bibliografia
    The European scene, in D. Bindman en Henry Louis Gates (ed), The Image of The Black in Western Art III, part 2, London 2011, pp. 213- 260.
    P. Kaplan, Italy, 1490 –1700, in D. Bindman en Henry Louis Gates (ed), The Image of The Black in Western Art III, part 1, London 2010, pp. 93-190.
    E.Kolfin et. Al., Black in Rembrandts time, 2020.
    Karla Langedijk, The portraits of the Medici: 15th-18th centuries, 1983, vol. I.
    Karla Langedijk, The portraits of the Medici: 15th-18th centuries, 1983, vol. II.

     

     

On Being Present - vol. II

La figura africana nelle collezioni delle Gallerie degli Uffizi

L'iperVisione si inserisce nell'ambito della rassegna Black History Month Florence 2021
www.blackhistorymonthflorence.com

Progetto ideato e curato da Justin Randolph Thompson in collaborazione con le Gallerie degli Uffizi

Coordinamento scientifico e organizzativo per le Gallerie degli Uffizi: Chiara Toti, Francesca Sborgi
Consiglieri: Paul Kaplan, Kate Lowe 

Testi: Justin Randolph Thompson; Paul Kaplan; Kate Lowe; Jonathan K. Nelson; Adrienne Childs; Emanuele Lugli; Mahnaz Yousefzadeh; Joaneath Spicer; Stephanie Archangel

Editing web: Andrea Biotti (Dipartimento di Informatica e Strategie Digitali, Gallerie degli Uffizi)
Editing dei testi: Patrizia Naldini, Chiara Ulivi (Dipartimento di Informatica e Strategie Digitali, Gallerie degli Uffizi)
Elaborazione grafica immagini: Jacopo Mazzoni (Black History Month Florence)
Traduzioni: Eurotrad snc.
Crediti fotografici: Francesco del Vecchio e Roberto Palermo 

Data di pubblicazione: 19 febbraio 2021

Visita l'Ipervisione On being present - vol. I

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