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Approfondimenti | 07/08/2018

Arianna addormentata, Arte romana

Arianna addormentata, Arte romana

Arianna Addormentata

Arte romana, II sec. d. C. 

226x129x103 cm 
Inv. MAF n. 13728

 

Inventario e materiali

Gallerie degli Uffizi-Galleria delle Statue e delle Pitture, inv. MAF 13728. La parte antica è realizzata in marmo docimeno. In marmo docimeno sono anche la testa “Milani” e la parte inferiore del corpo, cioè le integrazioni risalenti al XVI secolo, mentre sono riconducibili alla famiglia dei marmi apuani la testa attuale e la base.

 

Misure

 Lungh. 226 cm.; h. 129 cm.; prof. 103 cm 

 

Provenienza, Fortuna e vicende collezionistiche

 Gli studi più recenti dedicati alla statua dell’Arianna fiorentina, per lungo tempo nota come Cleopatra, sono concordi nell’indicare un’originaria appartenenza di questo marmo alla raccolta Del Bufalo, da cui, dopo un effimero passaggio attraverso la collezione del cardinale Ippolito d’Este nel 1572, l’opera sarebbe poi entrata nel serraglio delle sculture antiche che Ferdinando dei Medici stava allestendo nella sua Villa del Pincio (Sthäli 2001, p. 383, nota 11; Cecchi-Gasparri 2009, p. 296). Claudia Marie Wolf (2002, p. 88) ha, però, giustamente sottolineato come il mancato ricordo di una Cleopatra fra le sculture acquistate da Ippolito d’Este dalla collezione del Bufalo renda questa ipotesi ricostruttiva verosimile, ma non certa. Come correttamente ebbe già a sottolineare Clelia Laviosa (1958, p. 171), Ulisse Aldovrandi nella sua trattazione sulle sculture antiche di Roma edita nella metà del XVI secolo, ricorda altre tre Cleopatre oltre a quella del Bufalo. Fra queste, la scultura appartenuta al cardinale Rodolfo Pio da Carpi costituisce una candidata altrettanto plausibile, tenuto conto che anche da questa prestigiosa collezione, al pari di quella d’Este, giunsero nelle raccolte medicee importanti opere come l’Alessandro morente (Gasparri 2004, p. 51) e il Pothos oggi nel terzo corridoio della Galleria degli Uffizi (Paolucci 2007, pp. 29 s.). Se a questa considerazione, come suggerisce sempre la Wolf, si aggiungono altre eventualità, ancora non dimostrabili ma ugualmente possibili, come il ritrovamento della Cleopatra fiorentina in anni successivi a quelli della descrizione dell’Aldovrandi, magari anche grazie alle ricerche condotte in seguito al permesso concesso nel 1576 allo stesso Ferdinando di eseguire scavi a Roma e a Tivoli (Wolf 2002, p. 88, nota 311), appare più prudente lasciare aperta la questione su quali siano state le vicende collezionistiche della Cleopatra fiorentina anteriori al suo ingresso nella villa del Pincio. Lì il marmo fu sistemato in un padiglione ricavato in una delle torri della cinta aureliana noto da allora come la «Loggia della Cleopatra»,dove è ricordato per la prima volta negli inventari del 1588 (ASF, Guardaroba Medicea 79, inv. 1588, n. 1171). Fra queste testimonianze, peraltro assai succinte come quella di Francesco Valesio (AStC, Archivio Storico Notarile. Iscrizioni e memorie di antichità. Cred. XIV, tomo 39, c. 330r. ), agli inizi del Settecento, e di Luigi Lanzi (AGU, ms. Lanzi 36.3, fol. 45r.), nel 1782, meritano una particolare considerazione le osservazioni che, a più riprese, fece Johann Wincklemann a proposito della scultura sul Pincio. Come è noto, la collezione medicea fu la prima raccolta di antichità che lo studioso tedesco visitò una volta giunto a Roma nell’autunno del 1755 (Schröter 1990, p. 379) e la Cleopatra, l’opera più celebre ospitata nella villa dopo i Niobidi, non poteva che essere fra le sculture che più suscitarono l’interesse dello studioso. Inevitabile, già nella Geschichte (Winckelmann 1764, p. 386), il confronto con la sorella vaticana, rispetto alla quale la statua medicea vantava, a suo giudizio, una testa di gran lunga superiore, degna addirittura di essere paragonata alle teste più belle dell’Antichità, se non fosse stata indubbiamente moderna. L’entusiastico giudizio sulla testa di integrazione sembra ridimensionarsi nella Storia delle arti e del disegno (Winckelmann 1783, p. 367), dove è ricordata come esempio di un maldestro tentativo di uno scultore moderno di imitare la βοώπις omerica. Inoltre, a più riprese sia nella Geschichte (Winckelmann 1764, p. 386) che nella Storia delle arti (Winckelmann 1783, pp. 406, 435 s.), Winckelmann mostra apertamente il suo scetticismo sull’interpretazione tradizionale dell’iconografia come Cleopatra, erroneamente suggerita, a suo parere, dalla presenza del bracciale serpentiforme e preferendo vedervi una Ninfa o una Venere addormentata. La Cleopatra fece il suo ingresso nella Galleria degli Uffizi tardivamente, solo nel 1790, e fu sistemata in una sala affacciata sul terzo corridoio (l’attuale 41), dove la ricordano le guide dell’epoca (Zacchiroli 1790, p. 287; Cambiagi 1793, p. 249). La stagione della scultura nel museo fiorentino fu però assai effimera. Confermando l’aspro giudizio che Puccini darà nella relazione di pochi anni dopo, già nell’autunno del 1794 il direttore da poco insediato aveva chiesto e ottenuto la rimozione della statua dagli Uffizi ritenuta indegna delle collezioni museali «per quel poco che ha d’antico» (AGU 1793-1794, Filza XL). Trasferita nella Villa di Poggio Imperiale l’8 marzo del 1796 (AGU 1796-1797, Filza XXVI, ins. 40), lì la scultura rimase probabilmente sino al 1865, quando, in concomitanza dell’elevazione di Firenze a capitale (Dütschke 1875, p. 25), l’opera fu scelta come ornamento di un pubblico ufficio, la Direzione delle Gabelle, all’epoca ospitata nell’edificio annesso alla stazione ferroviaria granducale ancor oggi nota come “Leopolda”. Questa sistemazione, assolutamente inadeguata per quella che era stata una delle nobilia opera della collezione granducale, fortunatamente non durò a lungo. Il 20 maggio del 1870, infatti, la statua è registrata a Palazzo Pitti (AGU, Inventario Oggetti d’Arte di Palazzo Pitti, vol. 2, numero d’ordine 234) dove fu collocata nei saloni affrescati da Giovanni da San Giovanni e dove, probabilmente nel 1873, ebbe modo di vederla H. Dütschke. Con la sua minuziosa e articolata descrizione (Dütschke 1875, pp. 25 s.) lo studioso tedesco, oltre a constatare la presenza della testa attuale, sembra avallare uno stato di conservazione del marmo piuttosto buono, privo di mancanze o stati di degrado tali da giustificare le note dell’autore. Negli anni ottanta dell’Ottocento ancora si discuteva sulla collocazione definitiva della statua nella quale, ormai, non si riconosceva più Cleopatra, bensì Arianna addormentata. Enrico Ridolfi, direttore degli Uffizi in quel torno di tempo, nel dicembre del 1888 (AGU 1888, Galleria degli Uffizi, n. 56) formulò una richiesta ufficiale per riaccogliere la statua in Galleria (in una «nuova sala delle sculture antiche» che, in effetti, non vide mai la luce), e per procedere alla sostituzione della testa carradoriana con quella precedente, trovata nel 1883 da Adriano Milani nei depositi del Bargello (Milani 1912, p. 313, n. 40). Riemerse così la testa cinquecentesca dell’Arianna (inv. MAF 13727; Romualdi 2004, pp. 191 s., n. 77), tanto ammirata da Winckelmann, le cui vicende, dopo la rimozione dal resto del corpo effettuata da Carradori fra il 1788 e il 1790, possono essere ricostruite solo in via ipotetica. Con ogni probabilità questa integrazione rimase nei depositi degli Uffizi sino a quando, dopo il 1865, con la costituzione del Museo Nazionale del Bargello, il marmo, correttamente giudicato moderno, fu trasferito insieme alle altre opere scultoree rinascimentali o barocche di Galleria nella nuova istituzione. Confinata ancora una volta nei depositi, la testa lì rimase sino alla riscoperta del Milani che la giudicò opera di «stile attico del IV sec. a.C.»( Milani 1912, p. 313, n. 40), prevedendone addirittura uno studio specifico, di cui dà anticipazione nella guida del 1912 (Milani 1912, p. 313, n. 40), che però non sarà mai pubblicato forse per l’avvenuta presa di coscienza della modernità del marmo. Dell’antichità della testa era convinto anche Ridolfi al momento di inviare la sua lettera all’Intendente della Casa Reale e proprio su questo argomento si basava la sua richiesta di una sostituzione della testa carradoriana. Il desiderio del Ridolfi fu esaudito solo in parte. L’Arianna lasciò effettivamente Palazzo Pitti all’inizio del gennaio del 1889 (AGU, Inventario Oggetti d’Arte di Palazzo Pitti, vol. 2, numero d’ordine 234), ma, ammesso che sia transitata dai depositi degli Uffizi, non dovette rimanervi a lungo e, sicuramente, il restauro tanto auspicato dal direttore non ebbe mai luogo. Già sul finire dell’Ottocento, infatti, l’Arianna, con la sua testa cinquecentesca esposta a fianco, doveva aver trovato il suo posto sotto la quinta arcata del giardino di Palazzo della Crocetta (Romualdi 2000, p. 16), ormai divenuto sede del Regio Museo Archeologico da oltre un decennio. Questa sistemazione, attestataci anche dalle foto dell’inizio del XX secolo (Romualdi 2000, p. 18), fu, però, ancora una volta transitoria. A partire dal 1929, in seguito alla costruzione del Corridoio del Topografico che metteva in comunicazione il Palazzo della Crocetta con il fabbricato degli Innocenti inglobando le arcate sino ad allora affacciate sul giardino (Romualdi 2000, pp. 22 s.), i marmi furono riallocati in nuovi spazi. Le opere più significative, fra cui l’Arianna, furono sistemate nel salone del Nicchio, all’ingresso del Museo, e lì i marmi saranno sorpresi dall’alluvione del 1966. La collezione di statuaria di antica collezione, rimossa dai percorsi espositivi in vista di un loro radicale riordino, prese così la via dei depositi, prima nello stesso Palazzo della Crocetta e poi, nel 1984, a Villa Corsini a Castello, complesso demaniale posto alla periferia di Firenze divenuto in quegli anni il collettore di tutto il materiale lapideo del Museo Archeologico di Firenze (Romualdi 2004, pp. 14 s.). Nel 2001 Antonella Romualdi, nel quadro di una parziale sistemazione museale della villa con i materiali in essa contenuti, restituì la scultura alla fruizione del pubblico, sistemandola in un resede del salone principale della villa barocca, direttamente affacciato su un giardino all’italiana. Questo allestimento, che riecheggiava l’originaria Loggia di Villa Medici, sopravvisse sino al 2012, quando, nel novembre di quell’anno, la statua fu riportata, su iniziativa di chi scrive, nel complesso vasariano per ornare il centro della riallestita sala di Michelangelo, posta a breve distanza da quella sala 41 dove, sul finire del XVIII secolo, l’Arianna aveva vissuto la sua brevissima stagione museale. Nel gennaio del 2018 la statua è stata riposizionata in un ambiente del piano terra del complesso degli Uffizi.

 

Disegni, Calchi e incisioni

La piccola tela dipinta da Diego Velásquez nel suo viaggio del 1649-1651, oggi al Museo del Prado, costituisce la raffigurazione più antica della scultura (Schröder 2004, p. 396, fig. 88). Nonostante l’interesse del pittore sia dedicato principalmente al contenitore architettonico e nonostante la rapidità del tocco con cui è resa la figura della Cleopatra, la rotazione della testa e la postura del braccio destro sono comunque descritte con chiarezza sufficiente da consentire l’identificazione con la “Testa Milani”, cioè con la testa di integrazione cinquecentesca oggi separata dal resto della statua di cui tratteremo nel dettaglio più oltre. Dibattuta è, invece, la questione relativa a quale Cleopatra, se quella vaticana o quella medicea, sia servita da modello per la replica marmorea realizzata da Corneille van Clève per Versailles fra il 1684 e il 1688 (Müller 1935, fig. 5). Secondo Laviosa, seguita in questo anche da parte della letteratura più recente(Rausa 2000, p. 187), ad essere riprodotta è la Cleopatra di Villa Medici, ma, come rilevato da Adrian Sthähli (2001, p. 383, nota 11), alcuni dettagli, come la frangia del mantello sotto il fianco sinistro della donna presente solo sul marmo vaticano, sembrano senz’altro indicare come modello la statua romana, mediata probabilmente dalla replica bronzea che ne aveva ricavato Primaticcio per Francesco I. Se la resa rocciosa del piano su cui poggia la statua di Versailles può essere effettivamente stata suggerita dalla scelta già del Primaticcio di integrare con una superficie analoga la replica bronzea, altri dettagli, come l’andamento plastico e mosso delle pieghe della veste fra i piedi della donna, mostrano oggettive affinità con quanto vediamo nella statua fiorentina. Si potrebbe, forse, pensare ad una sorta di compendio operato dal van Clève, che ricompose, nella versione francese, spunti dedotti dalle due Cleopatre, a lui ben note grazie al suo prolungato soggiorno romano come ospite dell’Accademia di Francia. Sicuramente derivato dalla replica romana, invece, è il gesso madrileno realizzato da Velásquez all’epoca del suo secondo viaggio italiano (Harris 1981, p. 537). E’ da ricordare, infine, anche la piccola incisione della scultura raffigurata nell’opera Le statue di Firenze, edita non oltre il dicembre del 1794 (Le statue di Firenze 1790-1794, II, tav. 31), che, per l’inclinazione della testa e la presenza del panneggio sul braccio destro, dimostra di replicare la testa attuale.

 

Stato di conservazione e restauri

Pochi anni dopo il sopralluogo del Winckelmann, nel 1759, la Cleopatra medicea fu oggetto, nell’ambito di un intervento di riallestimento della Loggia, di un restauro da parte del Sibilla che comportò l’integrazione di alcune dita mancanti (Cecchi-Gasparri 2009, p. 296). Trasferita a Firenze nel giugno del 1787 (Capecchi-Paoletti 2002, p. 155, doc. VI ), la scultura fu affidata a Francesco Carradori per un restauro che lo terrà impegnato a lungo. Al settembre 1788 risale l’invio da parte dello scultore di un ordine alla cave di Carrara per un blocco necessario alla «nota statua della Cleopatra» di metri 2,27 x 1,51 x 0,29 (Capecchi-Paoletti 2002, p. 169, doc. XXI ). Dalla documentazione sappiamo, però, che nel febbraio 1789 non fu consegnata soltanto questa lastra, destinata evidentemente a servire da base alla figura come dimostrano le misure, ma anche un secondo blocco marmoreo di qualità differente (Capecchi-Paoletti 2002, p. 40, nota 172) nel quale si è già ragionevolmente supposto che sia stata realizzata la testa attuale. A dimostrare la paternità carradoriana della testa, messa in dubbio a più riprese in letteratura (Gasparri 1999, p. 168; Stähli 2001, p. 384, n. 15) a causa della firma datata al 1877 del restauratore Ludovico Colivicchi incisa sul piano roccioso della scultura e sulla quale ritorneremo più oltre, concorrono numerosi elementi.  In primo luogo si deve ricordare la relazione di Tommaso Puccini da inoltrarsi a Francesco Carradori, datata al 20 dicembre 1797 (AGU, Filza XXVIII (1796-1797), n. 47), con la quale il direttore della Galleria stabilisce con rigore i criteri ai quali lo scultore avrebbe dovuto attenersi nel restauro del gruppo di Aiace sotto la Loggia dei Lanzi. Puccini, fortemente avverso alle integrazioni estetiche di gusto barocco, tanto da non esitare a farle rimuovere radicalmente come dimostra il caso esemplare della Venus Victrix (Paolucci 2013, pp. 518 s.), e convinto fautore di interventi filologici, raccomandava che lo scultore mettesse mano all’opera solo dopo aver studiato l’altro gruppo di Aiace presente in città, quello di Palazzo Pitti, assai meglio conservato. Nella relazione del direttore, Carradori avrebbe dovuto procedere traendo calchi della parti antiche dell’altra replica e riportare fedelmente questi elementi sulla statua della Loggia evitando le «sue poco felici invenzioni quali sono i restauri dell’Apollo e della Cleopatra». È del tutto ragionevole concludere che gli inopportuni restauri ai quali fa riferimento Puccini non possano limitarsi all’inserzione della base marmorea ancor oggi esistente, ma debbano necessariamente riferirsi a un intervento invasivo come la sostituzione della testa. Fra il 1788 e il 1789, dunque, Francesco Carradori operò un restauro significativo sulla statua volto sia ad assicurarne la stabilità, grazie all’inserzione di una lastra marmorea di base, sia ad “aggiornarne” l’aspetto con l’inserimento di una nuova testa dal carattere marcatamente patetico e dalla posa teatrale che andò a sostituire la precedente integrazione cinquecentesca realizzata sul modello della replica vaticana. Incerti, invece, sono la natura e l’entità dell’intervento realizzato da Ludovico Colivicchi che incise sulla roccia su cui poggia la testa Arianna la firma «L.o Colivicchi scul. Restaurò 1877» . Il nome e l’attività di Colivicchi, uscito dai ranghi dell’Accademia fiorentina, sono testimoniati esplicitamente in una sua proposta alla Direzione delle Gallerie, inviata nel 1875 ma non accolta, di effettuare una ripulitura del gruppo di Ercole e Caco di Piazza della Signoria (AGU 1875, Filza C,  Direzione delle Regie Gallerie, ins. 7). Tenendo conto di questo precedente e constatata l’impossibilità di riferire al 1877 la sostituzione della testa o l’inserimento della lastra di base marmorea, entrambe da ricondurre alla mano di Carradori, si potrebbe forse ipotizzare che l’intervento di Colivicchi si sia limitato a una pulitura delle superfici e a una sostituzione delle stuccature preesistenti. Il restauro, ricordato in forma così magniloquente, sarebbe stato, in realtà, quella che oggi definiremmo una manutenzione approfondita, dettata, probabilmente, dall’esigenza estetica di adattare l’aspetto del marmo alla sua nuova sistemazione in un ambiente aulico come quello delle sale affrescate di Palazzo Pitti. A corroborare una simile ricostruzione, peraltro ipotizzata già da Milani (1912 p. 313), si potrebbero addurre anche le foto di fine XIX secolo che mostrano la scultura nel giardino di Palazzo della Crocetta ancora caratterizzata da una sostanziale unità cromatica, poi perduta nei decenni successivi, come è evidente dalle riproduzioni realizzate alla metà del XX secolo per l’articolo di Clelia Laviosa, a causa della caduta di quelle stuccature che sembra probabile far risalire all’intervento del 1877. Nell’estate del 2012 la scultura è stata anche oggetto di un sistematico intervento di manutenzione che ha consentito di mettere a punto una completa mappatura della scultura, grazie alla quale è stato possibile circoscrivere con chiarezza l’entità della parte antica e ricondurre a due distinte fasi (quella cinquecentesca e quella tardo settecentesca) le numerose integrazioni. In questa occasione si è proceduto anche ad analisi petrografiche condotte su cinque rilievi prelevati dalla testa carradoriana, da quella “Milani”, dalla porzione antica della statua, dalle integrazioni delle parti inferiore del corpo riferibili a restauri cinquecenteschi e dalla base marmorea carradoriana. I risultati delle analisi, conservati nell’Archivio Restauri delle Gallerie degli Uffizi ed esaminati in spettrometria di massa dall’Istituto di Geologia Ambientale e Geoingegneria del CNR di Roma per conto del laboratorio di analisi del dott. Marcello Spampinato, hanno classificato come marmo docimeno quello col quale è realizzata la parte antica. Sorprendentemente è risultato essere docimeno anche il marmo nel quale sono scolpite la testa “Milani” e la parte inferiore del corpo, cioè le integrazioni risalenti al XVI secolo, mentre, come prevedibile, sono riconducibili alla famiglia dei marmi apuani i campioni prelevati dalla testa e dalla base. Non ci si può non domandare come i restauratori cinquecenteschi possano aver selezionato proprio un marmo docimeno, ad occhio nudo pressoché indistinguibile da molti altri marmi bianchi a grana fine, per integrare un frammento di scultura realizzato nello stesso materiale. Nel caso della testa, le dimensioni relativamente ridotte, rendono plausibile l’ipotesi che i restauratori si siano serviti di una parte non più recuperabile della stessa statua, secondo una procedura ben nota all’epoca, ma questa ricostruzione sembra difficile da applicare nel caso delle integrazioni della parte inferiore del corpo, la cui lunghezza è maggiore di quella della parte antica sopravvissuta.

 

Analisi

La dipendenza delle integrazioni dell’Arianna fiorentina dal modello offerto dalla sorella vaticana, offrono un importante post quem per la loro datazione. La resa della parte anteriore dei calzari della statua oggi agli Uffizi replica puntualmente lo schema di quelli che vediamo indossati dalla statua vaticana, che fu integrata di questi elementi entro il 1538-1540, quando i piedi della scultura sono raffigurati interi per la prima volta in un disegno di Francisco de Hollanda. Tra gli anni quaranta del XVI e gli anni ottanta dello stesso secolo, quando la statua entrò, verosimilmente integrata di ogni parte mancante nelle collezioni medicee, si devono, quindi, datare le integrazioni della testa con il braccio destro, della parte inferiore del corpo, di parte del braccio sinistro, delle gambe a partire da poco sotto il bacino e di quasi tutta la superficie rocciosa su cui è sdraiata Arianna. I restauri fiorentini, dunque, conservano dettagli che, in alcuni casi, sono stati eliminati nella statua vaticana dagli interventi settecenteschi del Sibilla. È questo, probabilmente, il caso della ricaduta ad andamento rettangolare dell’himation sul lato anteriore in corrispondenza della gamba sinistra, punto dove, sulla statua vaticana, oggi vediamo invece una ricaduta semicircolare dovuta ai restauri del XVIII secolo. Altrove, invece, si nota una maggiore libertà rispetto al modello, come nella resa del rabbocco sotto la coscia sinistra o nella ricaduta delle pieghe della veste fra i piedi, dove il tessuto acquista una volumetria e una complessità che non ritroviamo sulla replica romana.

Importanti elementi per una rilettura della qualità formale della scultura e del suo rapporto nei confronti dell’Arianna vaticana vengono anche dall’analisi di quanto di antico sopravvive. Già Clelia Laviosa sottolineò come la replica fiorentina offrisse importanti indizi sia sulla corretta posizione del corpo, assai più sdraiato e portato all’indietro che nella replica romana, sia sulla natura del terreno, che nella sola versione fiorentina appare caratterizzato come roccioso (Laviosa 1958, p. 165). Neppure è sfuggita agli studiosi la grande cura riservata, nell’Arianna medicea, alla descrizione del panneggio del chitone e dell’himation, attentamente definito anche sul lato posteriore, a differenza di quanto è possibile constatare sulla sorella vaticana (Wolf 2002, p. 91). Inoltre, come è stato giustamente osservato da C.M. Wolf, è indubbio che la porzione antica del torso dell’Arianna degli Uffizi sia caratterizzata da un’accentuata ricerca di effetti coloristici delle superfici, ottenuti con un’insistita plissettatura del chitone e con l’indicazione, nelle ricadute dell’himation sul retro delle figura, anche delle “pieghe d’armadio”. Degna di nota, infine, è anche la lavorazione quasi virtuosistica del panneggio, dotato di sottosquadri che, in alcuni punti come al di sotto del seno destro, raggiungono i cinque centimetri di profondità. Nel complesso, sembra difficile sfuggire all’impressione di trovarsi dinanzi a una replica realizzata con una cura e un’attenzione che si stentano a riconoscere nella copia romana e che fanno rimpiangere l’esiguità della parte antica conservatasi nella statua di Galleria. Alcune peculiarità, come le pieghe d’armadio o la marcata plissettatura, potrebbero, infatti, convincentemente essere interpretate come indizi di una lectio difficilior, suggerendo per la replica fiorentina la possibilità di una sua maggiore fedeltà all’archetipo, ricondotto a maestranze pergamenee del II secolo a.C. (Romualdi 2004, pp. 189 s., nota 12 ) ed attestatoci, oltre che dalla replica vaticana e del Prado (Schröder 2004, pp. 392-397, n. 187), ora anche da una terza copia da Perge (Christine Özgan di prossima pubblicazione). A questa maggiore aderenza al prototipo potrebbe essere ricondotta anche la foggia dell’acconciatura, che non doveva coincidere puntualmente con quella vaticana, come dimostrano le due ciocche (e non una come nella statua romana) che, ricadendo sul petto, raggiungono quasi il seno sinistro. Proprio la resa di queste ciocche, distinte fra di loro da solchi profondi e continui di trapano e caratterizzate al loro interno solo da pochi e sottili incisioni, sembrano trovare echi piuttosto convincenti nella scultura di età antonina, come suggerisce il confronto con una testa femminile dalle terme adrianee di Afrodisia databile ai decenni centrali del II secolo (Therkildsen 2012, p. 49, fig. 1). Questo orizzonte cronologico, che ben si adatta ai convincenti confronti già proposti dalla Wolf per la resa del panneggio (2002, p. 92), non discorda neppure con l’uso di un marmo bianco proveniente dal bacino docimeno, il cui periodo di massima fortuna e sfruttamento, come è noto, si colloca proprio nel pieno II secolo d.C. (Pensabene 2013, p. 372) .

 

 

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