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Ara in onore di Giunia Procula. Retro

Arte romana

Data
Età flavia (69-96 d.C.)
Collezione
Scultura
Collocazione
San Pier Scheraggio
Tecnica
Marmo lunense
Dimensioni
99 cm (altezza); 63 cm (larghezza); 51 cm (spessore); 0,7-1,5 cm (altezza lettere)
Inventario
1914 n. 950

È il retro dell’ara dedicata alla piccola Giunia Procula, lasciato originariamente grezzo perché non destinato alla vista. Ospita la parte più sorprendente di questo monumento, la maledizione lanciata dal marito, M. Giunio Eufrosino, contro la moglie, Giunia Atte, che era stata sua schiava e poi liberata proprio in vista del matrimonio, un testo che, per la sua singolarità, merita di essere riportato per esteso (CIL VI 20905):

Hic stigmata aeterna Acte libertae scripta sunt vene=/nariae et perfidae dolosae duri pectoris: clavom(:clavos) et restem / sparteam, ut sibi collum alliget, et picem candentem / pectus malum commurat(:comburat) suum. Manumissa gratis / secuta adulterum, patronum circumscripsit et / ministros, ancillam et puerum, lecto iacenti / patrono abduxit, ut animo(s) desponderet solus / relictus spoliatus senex. E(t) Hymno ffade(:eadem) sti(g)m(a)ta / secutis / Zosimum.

“Quanto è scritto valga a perenne infamia della liberta Atte, avvelenatrice ed ingannatrice perfida e senza cuore: dei chiodi e una fune di sparto le leghino il collo e pece bollente le bruci il petto malvagio. Fu manomessa gratis e se ne andò con l'amante; raggirò il padrone e mentre questi giaceva a letto, malato, gli portò via l'ancella e il giovane schiavo che l'assistevano, tanto da far perder d’animo il vecchio rimasto solo, abbandonato e derubato. La medesima infamia ricada anche su Imno e su coloro che hanno seguito Zosimo”.

La figlia defunta, nell’intenzione di Eufrosino, diventa dunque la latrice verso il mondo degli Inferi delle parole dirette contro la moglie, in una variazione della pratica che vedeva le maledizioni iscritte su tavolette di piombo e interrate in contesti funerari. Particolarmente interessanti le colpe imputate ad Atte, la cui gravità è sottolineata dalla terribile morte che le viene augurata, nella quale l’impiccagione si somma al finire arsa nella pece bollente, e dal dimax che definisce la condizione del marito solus / relictus spoliatus senex. Alle accuse di infedeltà, aggravate nel caso di Atte dal fatto che ella, oltre a violare il patto coniugale, aveva anche rotto il legame di clientela che legava il liberto al patrono, una delle basi della società romana, si sommano quelle di veneficio, non è chiaro se per le pratiche magiche con cui avrebbe sedotto il marito o per i filtri con cui l’avrebbe fatto ammalare, completando così lo spettro delle accuse tradizionalmente rivolte alle donne a Roma.

Considerato il monumento nel suo insieme, Giunia Atte appare dunque rappresentata secondo due modelli femminili opposti: l’ideale matronale raggiunto nel ruolo di sposa e di madre come raccontato nel testo principale e l’esempio negativo per eccellenza, quale traditrice e avvelenatrice, nell’iscrizione posteriore.

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