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Armida

Francesco Montelatici, detto Cecco Bravo (Firenze 1607- 1661)

Data
1650 c.
Collezione
Pittura
Collocazione
D31. Caravaggio - La Medusa
Tecnica
Olio su tela
Dimensioni
127 x 80 cm
Inventario
1890 n. 10723

Presentata per la prima volta al pubblico con l’attribuzione a Cecco Bravo nel 1986, in occasione della grande rassegna sul Seicento fiorentino, e più volte commentata dagli studi specialistici, l’Armida è entrata a far parte delle collezioni fiorentine nel 2017. La protagonista è una delle figure più intense e commoventi della Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso; principessa musulmana, bellissima e abilissima nell’arte della magia, viene inviata dallo zio presso l’esercito cristiano col compito di distrare le milizie con astuzie e seduzioni. Perdutamente innamorata del crociato Rinaldo, Armida lo rapisce per portarlo sulle Isole Fortunate, dove crea magicamente un palazzo e un giardino incantati allo scopo di trattenerlo. Carlo e Ubaldo, compagni di Rinaldo, riescono a penetrare in quel regno di favola e a ritrovare il giovane, convincendolo a tornare al suo esercito. Ormai abbandonata, Armida cade in preda alla disperazione e alla furia. Sale sulla vetta della montagna, chiama a raccolta gli spiriti infernali e parte, decisa a unirsi alle schiere egiziane per trovare la sua vendetta. E’ questa l’immagine prescelta nel dipinto di Cecco Bravo, dove la sensualità spiccata della giovane viene accentuata dalle trasparenze della veste e dall’apparecchiatura di perle e nastri che la ornano. Il profilo regolare del volto, come quello di un cammeo antico, è acceso dal broncio delle labbra carnose, lo sguardo si perde all’orizzonte mentre il braccio si solleva a brandire lo scettro magico. Un’impressionante varietà animale le si avviluppa intorno, corrispondente ai draghi, ai serpenti, ai demoni saltati fuori dai gironi infernali descritti dal Tasso. Mai realmente paurosi, piuttosto bizzarri e ossequienti a quella vena satirica e burlesca che scorre nella pittura fiorentina degli anni centrali del Seicento costituendone un tratto peculiare, questi mostri sembrano ispirati anche dall’inesausto campionario di invenzioni desunte dalle grottesche antiche, e dalle varianti che di esse aveva offerto tutta la generazione manierista e oltre, fino alle folgoranti stregonerie di Salvator Rosa.La scena non è completa, poiché sul lato sinistro la tela è resecata e manca una porzione corrispondente forse a un brano di paesaggio, nel quale erano ricomprese altre apparizioni fantastiche. Il dipinto doveva dunque avere un formato più largo di quello attuale.

La datazione sugli anni ’50 del secolo, proposta dagli studiosi, è indotta dalla critica dal punto di stile che conviene con quello della coeva produzione di Cecco. Dopo la sua prima fase di formazione esercitata tra le botteghe di Rosselli e Bilivert, il pittore cerca una strada originale anche attraverso i viaggi di studio al nord, le riflessioni sulla cultura veneziana, l’adesione alle istanze più libere della pittura contemporanea di Francesco Furini. Ricerche che esitano nella sua caratteristica pittura effusa, costruita su pennellate di colore sfaldato, sui contrasti fra trasparenze e colpi di materia più corposa, tra bagliori ed effetti di controluce. Negli anni a cavallo della metà del secolo il Montelatici abbandona definitivamente la vena di naturalismo che qualificava la sua produzione fino agli anni ’40, e cede a composizioni dove lo spazio è meno tridimensionale, la scena principale è sospinta sui primi piani e gli sfondi si perdono in paesaggi lontani e sfocati, velati di tonalità grigie

Acquisto dei Friends of the Uffizi Gallery 2017

Testo di
Anna Bisceglia
Video
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