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Documentazione dei danni dell'alluvione del 1966 al patrimonio artistico fiorentino

Tra i fondi del Gabinetto Fotografico che documentano la storia di Firenze e del suo patrimonio artistico, quello relativo all'alluvione del 1966 riveste particolare importanza. Si tratta di più di 1000 scatti realizzati durante un'emergenza che colpì anche lo stesso Gabinetto Fotografico.

 Dopo giorni di pioggia intensa, la notte del 4 novembre alle ore 2.30 l'Arno straripò nella zona periferica della Nave a Rovezzano, dove il fiume entra in città, per poi distribuirsi con grande violenza sulle campagne e nel quartiere di Gavinana che resterà sotto un livello di oltre 5 metri di acqua. Alle 7.00 più di un metro d'acqua sommergeva il quartiere centrale di Santo Spirito. Le spallette dell'Arno verso le 6.30 venivano scavalcate dalla marea d'acqua e fango davanti alla Biblioteca Nazionale per dilagare in tutto il quartiere di Santa Croce, producendo mille correnti che si incrociavano tra loro, e giungere fino al Museo Archeologico in piazza Santissima Annunziata. La corrente sui lungarni era fortissima; il fiume travolse anche le spallette di Ponte Vecchio, sventrando molte botteghe e lasciando una giungla di detriti, rami e tronchi. In piazza del Duomo l'acqua raggiunse i 3 metri facendo spalancare con violenza la Porta del Paradiso del Battistero, da cui si staccarono 5 formelle.
La pioggia continuò a cadere e le famiglie del centro storico e dei quartieri allagati rimasero bloccate in casa, ai piani alti, ad osservare il fiume che nelle vie trasportava auto e materiale di ogni genere. A sera l'acqua cominciò a calare e la mattina del giorno successivo il fiume rientrò nel suo alveo lasciando alcune zone allagate e tutta la città infangata e intrisa di nafta. Le vittime ad oggi dichiarate sono 35, tra Firenze e i comuni limitrofi.

Dirigeva la Soprintendenza alle Gallerie (così allora si chiamava l’istituzione ministeriale) Ugo Procacci che quel mattino si recò molto presto agli Uffizi insieme ad alcuni funzionari e custodi, tutti accorsi per tentare di salvare quante più opere possibile. Al piano terra nello spazio della cosiddetta Vecchia Posta risiedevano all'epoca i laboratori di restauro e il Gabinetto Fotografico; a San Pier Scheraggio, sempre a piano terra, c'era un importante deposito di opere, e il Corridoio Vasariano ospitava la collezione di autoritratti: nella concitazione delle ore in cui l'Arno s'impadroniva della città, agli Uffizi ci si adoperò per portare ai piani superiori più opere possibile e togliere dal Vasariano i dipinti lì conservati perché sembrava che Ponte Vecchio dovesse crollare.
I danni al patrimonio culturale come alla città tutta furono enormi, inferti prima dalla furia dell'acqua e da materiali pesanti che sfondarono portali, recinzioni e vetrine, poi dal fango e dalla nafta degli impianti di riscaldamento che si depositarono ovunque.
La tragica vicenda del crocifisso di Cimabue in Santa Croce divenne simbolo della devastazione del patrimonio fiorentino alluvionato. Dopo essere stato esposto agli Uffizi nel dopoguerra, era stato riportato nella basilica fiorentina in occasione del riallestimento del Museo dell'Opera di Santa Croce inaugurato nel 1959. Travolto dall'acqua che raggiunse i 6 metri di altezza, non si staccò dal suo ancoraggio, ma si impregnò completamente di acqua, nafta e fango, e il 60% della superficie pittorica andò perduto.
Migliaia di volontari vennero da tutto il mondo per aiutare Firenze a liberarsi dal fango e attivare le operazioni di recupero del patrimonio in pericolo. La macchina organizzativa fu coordinata da Procacci, che già aveva affrontato i danni che la guerra aveva inferto al patrimonio. La rinascita di Firenze passò dalla reazione e dalla solidarietà internazionale che con sforzo di mezzi e persone fece sì che quasi tutte le opere rimanessero in città dove si concentrò l'azione per il loro recupero e ripristino.

 L'alluvione aveva colpito anche gli ambienti del Gabinetto Fotografico degli Uffizi causando la rovina di apparecchiature, attrezzature e di un cospicuo numero di fotografie e negativi, tra cui proprio quelle del fondo “Danni di guerra”: gli scaffali dell'archivio furono sommersi fino ad un'altezza di 1 metro e mezzo. Se fu possibile recuperare una buona parte degli oltre 20.000 negativi finiti sott'acqua, lo si deve al pronto intervento del personale del Gabinetto Fotografico, allora diretto da Umberto Baldini, anche responsabile del laboratorio di restauro.
In questo drammatico frangente furono comunque realizzati più di 1.000 scatti per documentare lo stato delle opere colpite nei musei e sul territorio, e la situazione dei luoghi interessati. Si tratta di negativi su pellicola 6x6cm, formato che consentiva buona maneggevolezza dell'apparecchiatura e quindi maggior speditezza d'esecuzione.
Dopo gli scatti di documentazione dei danni, si incontrano quelli dedicati ai primi interventi in loco, al trasporto delle opere verso luoghi più idonei e locali approntati allo scopo. Il racconto prosegue negli anni successivi con i restauri e la ricollocazione delle opere nei luoghi d'origine.
 Tra i luoghi di ricovero approntati per le opere danneggiate vediamo la serra degli agrumi di Boboli, la Limonaia appunto, luogo ideale per mantenere i dipinti su tavola a temperatura e umidità costanti, così da evitare un'asciugatura troppo rapida, alcuni ambienti di Palazzo Pitti e della Villa della Petraia per i mobili, il salone della Galleria dell'Accademia per le tele, Forte Belvedere per i libri, e Palazzo Davanzati per le sculture e le opere di arte applicata.
Dopo mesi di monitoraggio, molte opere furono sottoposte a restauro presso il laboratorio dell'Opificio delle Pietre Dure, costruito per l'occasione alla Fortezza da Basso. 

Ad integrazione del fondo si segnala un nucleo di stampe donate al Gabinetto Fotografico dal fotografo David Lees ed eseguite per la rivista "Life".

 

Bibliografia

E. Detti, Firenze scomparsa, Firenze 1970

Firenze 1944-1945: danni di guerra, a c. di M. Tamassia, Livorno 2007

4 novembre 1966. Fotografie dell'alluvione a Firenze, a cura di M. Tamassia, Livorno 2010.

Testo di
Chiara Ulivi
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