Stendardo di San Sebastiano. Martirio di San Sebastiano (recto); Madonna con Bambino in gloria San Sigismondo, San Rocco, Madonna e membri della confraternita di San Sebastiano (verso)
Giovanni Antonio Bazzi, detto il Sodoma
Dipinto su entrambi i lati, in relazione alla funzione d’uso che ne richiedeva la visione sul fronte e sul retro, il gonfalone processionale fu ordinato al Sodoma nel 1525 dai membri della compagnia di San Sebastiano, uno dei numerosi sodalizi di pietà e assistenza ai malati che si raccoglievano nella zona di Porta Camollia a Siena. La tradizione riconosce a Sebastiano, pretoriano dell’esercito romano di fede cristiana condannato a morte da Diocleziano, il ruolo di protettore contro le malattie epidemiche, morbi che per molti secoli, e in particolare fra Tre e Settecento, flagellarono ripetutamente le terre europee. La passione del santo, condotto sul colle Palatino, legato a un albero e infilzato di frecce, trova la sua definizione iconografica dal Rinascimento in poi, quando Sebastiano incarna un ideale di bellezza forte e giovanile, vittoriosa anche sui tormenti più cruenti come potevano essere quelli inflitti da malattie sconosciute e fatali in quei secoli, ma con le quali pure gli uomini avevano imparato a convivere sviluppando intorno ad esse una rete di solidarietà sociale, come erano le confraternite. Sodoma fissa il protagonista in primo piano con una pittura luminosa e delicatamente chiaroscurata, su un fondo di paesaggio punteggiato di rovine antiche, di quelli che aveva imparato a conoscere a Roma, guardando l’esempio di Raffaello e dei suoi allievi. Il mito del santo, che gli agiografi definivano “athleta Christi”, coincideva- specialmente nella sensibilità rinascimentale- con il richiamo a un corpo perfetto e atletico, che si torce nel dolore seguendo la forma del tronco che lo vincola. Per trovare il giusto punto di perfezione formale e al tempo stesso incarnare l’espressione del dramma, Sodoma, come i suoi contemporanei, aveva a disposizione la vasta gamma di statuaria antica greco romana, inesausto serbatoio di modelli e forme. Più di tutte valeva il richiamo alla scultura più celebrata e copiata a Roma nel Cinquecento: il Laocoonte, il gruppo in marmo ritrovato nel 1506 sul colle Oppio e subito investito di una formidabile e duratura fortuna iconografica. L’icona del santo, languido nella sofferenza, il volto bellissimo solcato dalle lacrime mentre riceve dall’angelo la corona del martirio, era la prima ad apparire ai fedeli nel corso delle processioni, sollecitandone i più emozionati sensi di pietà e di fede. Ma la funzione dello stendardo, e il suo messaggio, trovano completamento nella scena raffigurata nella faccia posteriore, un’immagine più solenne e ufficiale, celebrativa della Vergine protettrice di Siena, che posa lo sguardo sul gruppo di devoti inginocchiati in basso. Al centro sono San Sigismondo e San Rocco, contitolari della compagnia, essi stessi annoverati tra i primi martiri cristiani. In particolare San Rocco (Montepellier 1345/1350- Angera?, Varese 1376/79) è un’altra figura tradizionalmente legata al contesto delle guarigioni per il suo ruolo di protettore contro la peste. La leggenda vuole che Rocco, in pellegrinaggio verso Roma, dopo aver donato tutti i suoi beni ai poveri, sostò ad Acquapendente, presso Viterbo, dedicandosi all’assistenza degli ammalati e operando guarigioni miracolose che diffusero la sua fama. Ammalatosi lui stesso di peste, guarì e riprese il suo cammino e le sue opere di bene. Rocco sarebbe morto in prigione, dopo essere stato arrestato presso Angera da alcuni soldati, perchè persona sospetta. Il suo culto si diffuse straordinariamente nell’Italia del nord, specialmente in Lombardia. Sodoma raffigura il Santo col bastone da pellegrino e l’angelo suoi tradizionali attributi, mentre indica sulla gamba destra il ‘bubbone’, il gonfiore tumefatto marchio della terribile peste nera. Ai lati di Sigismondo e Rocco, vestiti di tunica e cappuccio bianchi, si dispongono i confratelli di Porta Cammolia, ministri di quel conforto morale e corporale sentito come un dovere civico e che ancora oggi sopravvive nella tradizione assistenziale toscana.
Il valore identitario e di funzione d’uso di quest’opera sopravvisse al tempo e ai rinnovamenti dell’oratorio: i confratelli rifiutarono infatti di venderla a mercanti lucchesi per una cifra considerevole, pur di conservarla nel suo luogo di origine. Ma nulla poterono a fronte della richiesta del granduca Pietro Leopoldo, che l’acquisì per le gallerie fiorentine nel 1784.