Piccarda Donati fatta rapire dal convento di Santa Chiara dal fratello Corso
Raffaello Sorbi (Firenze1844-1931)
Questo dipinto di argomento dantesco narra la tragica vicenda della sfortunata Piccarda, che fu rapita dal monastero dove viveva con le consorelle, per ordine del fratello Corso Donati, deciso ad imporle, contro la sua volontà, il matrimonio con il suo compagno di bagordi, il ricco Rossellino della Tosa. Con una sensibilità molto affine ai melodrammi ottocenteschi ispirati al medesimo episodio, Raffaello Sorbi rappresenta il momento culminante della narrazione, quando Il malvagio Corso irrompe senza alcun rispetto all’interno del convento e stando in piedi con la mano sulla spada, pronto all’azione, mentre tiene la porta spalancata, osserva i suoi sgherri che afferrano con inaudita violenza la sorella strappandola letteralmente dalle braccia della madre superiora. Quest’ultima col braccio alzato indica con un gesto di severo monito il crocifisso alle sue spalle, quasi prefigurando la punizione che toccherà al malvagio artefice di quell’atto sacrilego. La teatralizzazione dell’episodio è evidente nel sapiente impiego della luce, che illumina sia la parte centrale e fulcro della composizione, dove sono assiepati sui gradini i soldati all’assalto della protagonista, sia il gruppo di monache in fuga, enfatizzandone le espressioni atterrite e la vivace gestualità. Sorbi si rivela così aggiornato sui moderni criteri della pittura di storia, autorevolmente dettati da Giuseppe Mazzini, il quale raccomandava agli artisti di evitare la centralità nelle composizioni, ma piuttosto di accentuarne la coralità, dispiegando le azioni e i dettagli un po’ in tutte le direzioni: così in questo quadro lo scompiglio provocato dall’irruzione del manipolo di uomini armati è descritto attraverso molteplici direttrici ed anche i minimi particolari acquistano un significato nell’economia del racconto, come il rosario che giace spezzato a terra, quasi calpestato da uno dei soldati, ad indicare il senso di profanazione che domina l’intera scena e che culminerà – secondo le fonti – nella morte di Piccarda.
La tela, commissionata da Vittorio Emanuele nel 1863 e completata dall’artista tre anni più tardi, rispecchia fedelmente i canoni della pittura storica di tradizione romantica, specie nell’intento di convogliare contenuti moralmente edificanti e fortemente patetici, come il tema della donna virtuosa costretta con la forza ad un legame ingiusto, alimentando la formazione di una moderna coscienza nazionale. Il perdurante legame con la tradizione romantica in un’epoca in cui il gusto moderno già coincideva con la pittura dei macchiaioli, non poteva essere apprezzato dai critici come Camillo Boito e Telemaco Signorini. Quest’ultimo non risparmiò commenti severi al dipinto, che a suo dire non rispecchiava lo stile di un giovane promettente, ma quello di “un vecchio maestro in decadenza”.
Eppure questo pittore, allievo di Antonio Ciseri ed oggi ancora poco noto, era risultato vincitore, appena diciottenne, al concorso triennale del 1861 dell’Accademia di Belle Arti di Firenze, presentando al pubblico l’episodio successivo ispirato allo stesso tema, ovvero Corso Donati ferito dai Catalani al convento di San Salvi e trasportato alla Badia dai monaci di quel convento dove muore da essi assistito. Anche in quell’occasione aveva sfruttato le stesse fonti storiche, da Dante a Landino, che gli avevano ispirato la tragica vicenda di Piccarda.