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Non per foco ma per divin’arte

  • Non per foco ma per divin’arte

    Immagini dantesche dalle Gallerie degli Uffizi

    Non per foco ma per divin’arte
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    Dante e l'arte /1

    Introduzione

    Paolo Procaccioli

     

    Il mondo dell’arte ha fatto i conti per tempo con la persona e con l’opera di Dante. Se a Firenze da Giotto in poi a imporsi all’attenzione insieme al poeta è stato il Dante uomo, e cioè il cittadino e il protagonista della vita politica, nel resto d’Italia è stato l’autore della Commedia. Lo è stato in grazia di una parola poetica che si è rivelata da subito impregnata come nessun’altra di una tensione figurativa che per dispiegarsi – e anche, concretamente, per spiegarsi – ha richiesto al lettore un impegno non riducibile alle forme convenzionali dell’esegesi. Una narrazione e un’argomentazione come quelle messe in campo nel poema, sostanziate di immagini di grande suggestione, di scenografie sorprendenti e spettacolari, di ritratti di rara potenza espressiva e evocativa, sono state uno stimolo colto per tempo da un lettore che – lo dimostra la lunga tradizione dei codici miniati, dal Dante del Musée Condé di Chantilly all’Holkham 48 della Bodleiana al ms. Yates Thompson 36 – non si è mai sottratto al confronto con quella poesia e ha risposto costantemente alla sollecitazione a dare corpo e figura a quanto evocato dalle terzine.

    Del resto una narrazione incentrata sulla metafora fondamentale del viaggio non poteva non tradursi in una successione che prima ancora che di personaggi era di mondi e di paesaggi. Paesaggi grandiosi o vere e proprie miniature, scenari apocalittici o idilliaci, animati da folle vaganti o statiche, ora gementi ora invece purganti o gaudenti, e personaggi scolpiti a tutto tondo accanto a altri destinati a rimanere impressi per sempre grazie alla potenza di un dettaglio o anche solo di un singolo gesto. Scene, atmosfere, volti che hanno trovato prima nei miniatori e poi negli incisori interpreti in grado di cogliere e tradurre in immagine tanto l’enàrgheia della loro rappresentazione, e dunque il loro realismo, quanto la loro valenza ideale e morale. La lettera e la sua allegoria.

    A fronte di tali fatti non meraviglia che la Commedia abbia non solo intercettato temi fondamentali della tradizione figurativa a cominciare da quello dei novissimi ma che ne abbia anche orientato e condizionato l’interpretazione. Non a caso per l’Apocalisse giottesca del monastero napoletano di Santa Chiara Vasari arriva a ipotizzare una collaborazione di Dante:

     

    le storie de l’Apocalisse […] furono, per quanto si dice, invenzione di Dante, come per avventura furono anco quelle tanto lodate d’Ascesi […]. E se ben Dante in questo tempo era morto, potevano averne avuto, come spesso avviene fra gl’amici, ragionamento.

     

    E con Giotto e sulla sua scia Orcagna, Signorelli, Michelangelo, tutti artisti che, non bastasse l’evidenza delle immagini, sempre Vasari dice essere stati lettori di Dante. Allo stesso modo non meraviglia che per qualche tempo, tra Quattro e Cinquecento, il tema della rappresentazione e della misurazione del mondo infero sia stato al centro dell’attenzione di una pattuglia di esegeti d’eccezione, aperta da Brunelleschi e chiusa da Galileo.

    Tutto questo ha fatto sì che non si saprebbe indicare nessun’altra opera letteraria, né antica né moderna, che abbia stimolato un impegno figurativo analogo. E non solo a guardare alle cose dal punto di vista quantitativo: nelle carte del poema – miniate, disegnate o incise che fossero – le immagini non hanno mai avuto una funzione puramente esornativa ma sono state sempre parte integrante dello sforzo di penetrazione dell’opera, un esercizio strenuo e continuato di traduzione in immagine della potenza argomentativa e dell’efficacia evocativa della parola.

     

    Immagine: Federico Zuccari (copia da), Ritratto di Dante, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi

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    Dante e l'arte /2

    I fatti dicono che il ‘Dante’ – così, non a caso, con la sovrapposizione di autore e opera – è stato un tema figurativo ricorrente. Il Dante personaggio storico lo è stato a partire dal primo Trecento. Prima nei tratti inconfondibili segnati sulle pareti della cappella del Bargello (e poco importa se a tracciarli sia stato direttamente il contemporaneo e amico Giotto o qualcuno della sua scuola), poi ripresi di stagione in stagione, dal Tre al Cinquecento, dai vari Nardo di Cione nella Cappella Strozzi di Santa Maria Novella, da Niccolò Gerini nel Palazzo dell’Arte dei Giudici e Notai, da Andrea del Castagno per la Villa Carducci a Legnaia, da Benozzo Gozzoli in San Francesco a Montefalco, da Domenico di Michelino nella tavola notissima di Santa Maria del Fiore, e poi ancora da Giusto di Gand, da Giuliano da Maiano in tarsia, da Pietro Lombardo nel bassorilievo marmoreo di Ravenna, da Botticelli, Signorelli, fino al Raffaello delle Stanze. Quel Raffaello che si fa carico degli approdi più significativi tanto della tradizione figurativa quanto di quella critica e che nella Stanza della segnatura non esita a duplicare il ritratto di Dante: nella Disputa del Sacramento quello del Dante teologo, nel Parnaso quello del poeta. Un doppio riconoscimento che rimane un unicum e che prefigura i destini futuri del personaggio, quegli stessi che ne alimenteranno il mito a prescindere dalle eclissi conseguenti agli alti e bassi delle dispute di lingua e di poetica.

    È vero che di lì a poco molti letterati, impegnati in quelle dispute, avrebbero accantonato la celebrazione prestando orecchio alle riserve di Bembo e dei bembisti, così come è vero che ne seguì un raffreddamento evidente della passione per la Commedia e per il suo autore a favore della lingua e delle sonorità di Petrarca, il poeta di Laura. Ma questo non a Firenze, dove nonostante l’asprezza delle prese di posizione del Machiavelli del Discorso intorno alla nostra lingua si continuò a guardare a Dante come al coronamento della tradizione cittadina. Una situazione che trova la sua dichiarazione più nitida proprio in ambito artistico, nei Sei poeti toscani del Vasari (ora nel museo di Minneapolis), dove Dante occupa lo stesso posto che in un’ipotetica tavola dedicata agli artisti sarebbe toccato a Michelangelo.

     

    Immagine: Cristofano dell'Altissimo, Ritratto di Dante, Uffizi

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    Dante e l'arte /3

    Il discorso, e nei termini nei quali lo si è visto impostato per un verso da Raffaello e per l’altro da Vasari (ma nella serie vanno compresi anche Bronzino, Zuccari e Giovanni Stradano), era solo sospeso. Della sospensione risentì ancora il Seicento, dove opere di argomento dantesco come quelle di Filippo Napoletano, di Livio Mehus o di Giovanni da San Giovanni rimasero relativamente isolate, mentre discorso e materia sarebbero stati ripresi nel secolo successivo, con altra enfasi e soprattutto fuori d’Italia. Sarebbe stato l’avvio di una marcia trionfale che avrebbe portato all’apoteosi romantica, al punto che a metà Ottocento uno storico come Cesare Balbo senza tema di essere smentito poteva aprire la sua Vita di Dante Alighieri affermando che «Dante è gran parte della storia d'Italia». Del tutto naturale allora che alla celebrazione del mondo dantesco si siano dedicati artisti tra i più rappresentativi delle varie culture e tradizioni, da Sir Joshua Reynolds a Füssli a Flaxman, da Blake a Koch, Delacroix, Cornelius e i Nazareni, Rossetti, con Gustave Doré che avrebbe fissato nelle sue lastre il Dante della nuova vulgata.

    Quello romantico sarebbe stato il secolo che in Italia e nel mondo avrebbe abbattuto le barriere che avevano contenuto la parola di Dante entro i margini della letteratura. Il pathos politico del poeta divenne un lievito di cui si alimentarono tanto il patriottismo quanto i sentimenti di rivalsa contro una società e una morale sentite ormai anacronistiche. Non meraviglia che figure come Francesca, la Pia o Piccarda, che l’esegesi fino a allora aveva degnato di un interesse relativo, siano diventate sempre più significative nell’economia del poema fino a vivere di vita propria anche al di fuori dell’orizzonte dantesco, nell’arte come nel teatro e nella musica popolare. In una stagione tesa al generale recupero della materia storica pittori e scultori fecero dei personaggi della Commedia e di episodi improntati alla biografia del poeta gli emblemi delle nuove idealità, di quelle propriamente politiche e civili e di quelle morali. Episodi rappresentativi furono così, per esempio, il Buonconte di Montefeltro di Gabriele Smargiassi, La barca della vita di Domenico Morelli, o le rivisitazioni delle vicende delle eroine sopra richiamate, Francesca, la Pia, Piccarda Donati.

    Immagine: Domenico Petarlini, Dante in esilio, Palazzo Pitti, Galleria d'Arte Moderna

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    Dante e l'arte /4

    È sempre coll’Ottocento che si assiste alla nascita di un fenomeno nuovo come la celebrazione del centenario del poeta. E se quello del 1865 è rimasto nella memoria per i molti monumenti innalzati nelle piazze più note d’Italia (piazza Santa Croce a Firenze, piazza dei Signori a Verona), quelli del 1921 e del 1965 furono segnati soprattutto da importanti iniziative editoriali (le Opere di Dante della Società Dantesca Italiana nel 1921 e la Commedia curata da Giorgio Petrocchi nel 1965). È facile ipotizzare che quello che ci accingiamo a celebrare non sarà meno fruttuoso.

    Commemorazioni, toponomastica, statue e edizioni a parte, a segnare la praesentia Dantis del secolo che si era aperto con il fervore di Auguste Rodin intorno alla Porte de l’Enfer (Parigi, Musée Rodin) fu l’avvio di programmi figurativi che prevedevano l’illustrazione sistematica della Commedia. Un modo di accostarsi al poema che Doré e i suoi editori avevano riesumato dalla tradizione antica (l’ultimo Dante illustrato era stato quello edito da Marcolini nel 1544) e nel quale si impegnarono prima Alberto Martini (che però sarebbe morto nel 1954 senza che potesse vederlo realizzato dal momento che la pubblicazione sarebbe arrivata solo nel 2008), e poi, e con maggiore fortuna, l’Amos Nattini delle Imagini (1923-1941), Salvador Dalì (1964), Renato Guttuso (1969) e Aligi Sassu (1991). A riprova dell’urgenza non solo di riprendere ma di rilanciare un dialogo – quello degli artisti con Dante – che sette secoli non solo non avevano esaurito ma del quale avevano confermato vitalità e necessità.

     

    Immagine: Emilio Demi, Dante, Piazzale degli Uffizi

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    I. Dante e la pittura del suo tempo

    Cimabue

    Maestà

    1290-1300 c.

    tempera su tavola, cm 384 x 223

    Gallerie degli Uffizi, Galleria delle Statue e delle Pitture

    inv. 1890 n. 8343

     

    Giotto

    Maestà

    1305 c.

    tempera su tavola, cm 356 x 229

    Gallerie degli Uffizi, Galleria delle Statue e delle Pitture

    inv. 1890 n. 8344

     

    Credette Cimabue ne la pittura
    tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,
    sì che la fama di colui è scura.

    Purgatorio, Canto XI, vv. 94-96

     

    La celebre frase è pronunciata dal miniatore Oderisi da Gubbio, che Dante incontra in Purgatorio nel girone di coloro che hanno peccato di superbia per aver ricercato, attraverso l’ingegno, la gloria terrena, la vana gloria. È una riflessione sulla temporaneità del successo e della fama, destinati ad esaurirsi in breve tempo per essere sostituiti da nuovi protagonisti e nuovi linguaggi.

    Madonna col Bambino in trono e profeti (Maestà di Santa Trinita)
    Architettura | Gli Uffizi
    Scheda opera
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    I. Dante e la pittura del suo tempo

    Il paragone fra Cimabue e Giotto evidenzia la piena comprensione da parte di Dante e dei suoi contemporanei dell’innovazione della pittura giottesca, razionale e orientata verso il vero e il naturale rispetto al linguaggio di Cimabue e in generale della pittura di ascendenza bizantina, tendente all’astrazione e basata su moduli convenzionali. Dante introduce significativamente anche un parallelo fra pittori e letterati osservando l’analoga svalutazione della poesia di Guido Guinizelli rispetto al nuovo linguaggio di Guido Cavalcanti, a sua volta destinato al superamento in favore dell’idioma dantesco.

    Come Dante conosceva, almeno di fama, Giotto, così Giotto conosceva Dante. Al pittore fiorentino si deve infatti il più antico ritratto di Dante pervenutoci, inserito fra i beati nella scena del Giudizio Universale  che orna la parete di fondo della cappella del palazzo del Podestà a Firenze (oggi Museo Nazionale del Bargello). Questa pittura costituì probabilmente il modello di riferimento per molte delle effigi del sommo poeta dipinte successivamente.

    Madonna col Bambino in trono, angeli e santi (Maestà di Ognissanti)
    Architettura | Gli Uffizi
    Scheda opera
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    II. Il volto di Dante

    Andrea del Castagno

    Dante

    1448-1449 c.

    affresco staccato, cm 247 x 153

    inv. San Marco e Cenacoli n. 167

    Gallerie degli Uffizi, Galleria delle Statue e delle Pitture, San Pier Scheraggio

     

    Fu adunque questo nostro poeta di mediocre statura, e, poi che alla matura età fu pervenuto, andò alquanto curvetto, e era il suo andare grave e mansueto, d’onestissimi panni sempre vestito in quell’abito che era alla sua maturità convenevole. Il suo volto fu lungo, e il naso aquilino, e gli occhi anzi grossi che piccioli, le mascelle grandi, e dal labbro di sotto era quel di sopra avanzato; e il colore era bruno, e i capelli e la barba spessi, neri e crespi, e sempre nella faccia malinconico e pensoso.

    Boccaccio, Trattatello in laude di Dante, 1362, XX

     

    Fra i più antichi ritratti di Dante Alighieri pervenuti fino ad oggi, questa raffigurazione presenta molti degli attributi divenuti nei secoli peculiari dell’iconografia del poeta. Dante indossa una lunga e ampia sopravveste rossa, l’abito accademico che contraddistingueva i dotti e gli uomini di elevata estrazione sociale. Ha la testa coperta da una cuffia su cui indossa il berretto foderato di pelliccia, chiuso dietro da un corto becchetto secondo la moda d’inizio Trecento. Il volto maturo, solcato da rughe, è caratterizzato dal naso leggermente aquilino e dal mento prominente. Tali tratti somatici trovano riscontro nella descrizione del sommo poeta tracciata da Giovanni Boccaccio nel Trattatello in laude di Dante, possibile fonte di ispirazione per la pittura di Andrea del Castagno insieme alle effigi dell’Alighieri che fin dal Trecento trovavano posto nelle decorazioni sulle pareti di edifici pubblici e privati a Firenze.

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    II. Il volto di Dante

    L’identificazione del poeta è sancita dal libro semiaperto che sorregge e dall’iscrizione nel basamento: DANTES DI ALEGIERIS FLORETINI.

    La pittura murale fa parte di un ciclo pittorico raffigurante un gruppo di uomini e donne illustri proveniente dalla villa Carducci-Pandolfini nei sobborghi di Firenze. Le pitture murali, che ornavano la loggia della villa, furono commissionate probabilmente dal gonfaloniere di giustizia Filippo Carducci entro il 1450. Dante vi è raffigurato insieme ad altri due poeti toscani, Giovanni Boccaccio e Francesco Petrarca. Le raffigurazioni di personaggi illustri che non di rado ornavano le dimore signorili avevano in genere il duplice scopo di spronare all’esercizio della virtù e di celebrare le glorie patrie, di cui Dante era ormai considerato, in ambito fiorentino, uno dei più illustri esponenti.

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    III. Una lingua ‘italiana’ per l’arte e la fede

    Sandro Botticelli

    Pala di San Barnaba

    1480-1482 c.

    tempera su tavola, cm 268 x 280

    Gallerie degli Uffizi, Galleria delle Statue e delle Pitture

    Inv. 1890 n. 8361

     

    Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
    umile e alta più che creatura,
    termine fisso d'etterno consiglio...

    Paradiso, Canto XXXIII, vv. 1-3

     

    La preghiera, rivolta da san Bernardo alla Vergine Maria, introduce l’ultimo canto della Commedia che racconta dell’incontro di Dante con Dio e che segna la fine del suo viaggio. Il mistico Bernardo di Chiaravalle, che nell’empireo guida il poeta in sostituzione di Beatrice, canta le lodi di Maria attraverso ossimori (“Vergine Madre”) e antitesi (“figlia del tuo figlio, umile e alta”) che esaltano l’eccezionalità della madre di Dio. Segue poi la richiesta di Bernardo affinchè Maria interceda e consenta a Dante di contemplare Dio.

    La preghiera di Bernardo dunque è una devota lode alla Vergine e, allo stesso tempo, una invocazione affinché Maria si faccia intermediaria tra Dio e gli uomini.

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    III. Una lingua ‘italiana’ per l’arte e la fede

    Nel dipinto di Sandro Botticelli, come nella visione di Dante, angeli e alcuni santi circondano la Madonna, intercedendo per i devoti come Bernardo in favore del poeta. La grande pala sormontava l’altare maggiore della chiesa di San Barnaba a Firenze, chiesa fondata per celebrare la vittoria dei guelfi a Campaldino, nel 1289, nel giorno della festa di san Barnaba. L’Arte dei Medici e Speziali aveva il patronato della chiesa, la cui cura spettava ai frati agostiniani. Nel dipinto sono rappresentati, da sinistra, Caterina d’Alessandria, Agostino, Barnaba, Giovanni Battista, Ignazio d’Antiochia e Michele, santi legati non solo ai committenti ma anche alla devozione cittadina. Il dipinto di Botticelli attesta la fortuna della preghiera dantesca, entrata a far parte del repertorio di litanie dedicate alla Vergine. Lo stesso passo “Vergine madre, figlia del tuo figlio” accompagna l’effigie della Madonna in altri dipinti fiorentini del XV secolo, come l’Adorazione del Bambino del Maestro di Città di Castello al Museo civico di Villa Mimbelli a Livorno.

    Negli stessi anni in cui eseguiva la pala per l’altare maggiore della chiesa di San Barnaba a Firenze, all’inizio degli anni Ottanta del XV secolo, Botticelli si cimentava anche nell’illustrazione della Commedia, fornendo i disegni incisi da Baccio Baldini per l’edizione a stampa commentata da Cristoforo Landino edita nel 1481. Rimangono inoltre i suoi disegni della Divina Commedia su cartapecora commissionatigli da Lorenzo di Pierfrancesco de’Medici, oggi divisi fra la Biblioteca Vaticana a Roma e i musei statali di Berlino.

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    IV. Fortuna del mito di Dante nel Seicento

    Giovanni da San Giovanni

    Le Muse con i poeti e i filosofi scacciate dal Parnaso

    1635

    affresco

    Palazzo Pitti, Tesoro dei Granduchi, Salone di Giovanni da San Giovanni

     

    Io venni men così com'io morisse.
    E caddi come corpo morto cade.

    Inferno, Canto V, vv. 141-142

     

    Siamo a Palazzo Pitti, nella prima sala dell’Appartamento d’estate che il Granduca Ferdinando de’Medici volle dedicare al mecenatismo della sua casata tramite un ciclo di affreschi affidato, per il progetto, al bibliotecario di corte Francesco Rondinelli e, per l’esecuzione, al pittore Giovanni Mannozzi, che dal nome della sua città natale fu chiamato Giovanni da San Giovanni. L’affrescatura degli ambienti era stata avviata nel 1635 nella parete sud, suddivisa in tre lunettoni raffiguranti la distruzione della civiltà classica, la cacciata di poeti e filosofi dal Parnaso e il loro esodo nella novella Atene, ovvero la Firenze di Lorenzo il Magnifico. La scena principale, con l’assalto di satiri e arpie, è intrisa del beffardo spirito toscano del Mannozzi, indubbiamente l’artista più irriverente ed anticonformista del suo tempo. Il biografo Filippo Baldinucci tramanda i detti arguti, le burle e le stravaganze di un uomo tutto dedito alla pittura e al disegno, ma che vestiva trasandato come se “i panni gli fossero stati gettati addosso dalla finestra”. Nella scena Dante appare in secondo piano e di spalle, una presenza che non passa inosservata poiché il pittore ferma in una immagine vivissima la sua rovinosa caduta dalle scale del Parnaso.

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    IV. Fortuna del mito di Dante nel Seicento

    L’ironia di Giovanni da San Giovanni non risparmia nemmeno gli altri personaggi: il Pegaso viene atterrato e morsicato da grottesche arpie e Omero, cieco e barcollante, procede a tentoni, dirigendosi addirittura fuori dallo spazio dipinto. Fuggono dal Parnaso anche Platone, Aristotele, Saffo ed Empedocle, figure tratte dalla Scuola di Atene di Raffaello nelle Stanze vaticane. Il ciclo proseguì, dopo la morte di Giovanni, nel 1636, per mano di altri pittori chiamati ad illustrare l’apoteosi di Lorenzo il Magnifico, mecenate e fondatore dell’Accademia Neoplatonica, attorniato dai suoi artisti, poeti e filosofi del Rinascimento. L’ambizione di Firenze di farsi erede della cultura greca e romana trova esempi nell’arte fin dalla fine del Trecento, quando Coluccio Salutati, cancelliere della Repubblica, si fece promotore in città di un doppio progetto: in Palazzo della Signoria volle un affresco, andato perduto, ispirato al “De Viribus Illustribus” del Petrarca raffigurante 22 glorie dell’antichità greca e romana, mentre promosse in Santa Maria del Fiore la celebrazione delle maggiori glorie toscane, tra cui Dante, Petrarca e Boccaccio, con l’intento di far rientrare in patria la salma del sommo poeta. Quest’ultimo progetto fallì, ma trovò esito, entro la fine del secolo, nel Palazzo dei Giudici e Notai, che custodiva fin dalla metà del Trecento sulle sue pareti affrescate uno dei più antichi ritratti di Dante. Com’è ovvio non esiste alcun nesso iconografico tra il Dante in veste di fiero e illustre letterato, codificato tra Tre e Quattrocento, con il Dante del Mannozzi. Tuttavia l’artista, in piena licenza d’autore, per il suo Dante in caduta libera può aver tratto ispirazione dai tanti passi nella Commedia in cui il poeta manifesta timore, smarrimento e paura dinanzi a diavoli e creature mostruose, come qui con le arpie e i satiri. Un Dante fragile che ci ricorda come sia necessario superare ogni sorta di ostacolo per conseguire la salvezza.

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    V. Dante in parole e immagini

    Federico Zuccari

    La selva oscura (illustrazione dal Dante historiato da Federigo Zuccaro)

    1587 c.

    matita rossa e nera su carta gialletta, cm 57 x 42

    Gallerie degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe

    inv. 3474

     

    Nel mezzo del cammin di nostra vita
    mi ritrovai per una selva oscura,
    ché la diritta via era smarrita.

    Inferno, Canto I, vv. 1-3

     

    La fortuna cinquecentesca della Commedia è affidata alle numerose pubblicazioni che a partire dal 1481- anno dell’edizione fiorentina commentata da Cristoforo Landino e corredata da incisioni di Baccio Baldini- segnano la storia della letteratura e della stampa dell’epoca. Le Terze Rime di Bembo, edite a Venezia da Aldo Manuzio (1502), le edizioni commentate da Girolamo Benivieni e da Alessandro Vellutello, rispettivamente pubblicate da Giunti a Firenze (1506) e da Marcolini a Venezia (1544), e ancora quella di Ludovico Dolce (Giolito, Venezia 1555) premettono la più importante iniziativa di fine Cinquecento a Firenze, allorché l’Accademia della Crusca, riconoscendo la necessità di un testo “ridotto a miglior lezione”, curò una nuova  pubblicazione della Commedia uscita nel 1595 per i tipi di Domenico Manzani. L’attenzione all’opera dantesca interessa parallelamente anche gli artisti, determinando la nascita di serie figurative tra le quali spiccano in particolare quelle di Giovanni Stradano e Federico Zuccari. Quest’ultimo, che già aveva affrontato tra il 1576 e il 1579 la raffigurazione dell’Inferno nella cupola di Santa Maria del Fiore, realizzò nel corso del suo soggiorno spagnolo un apparato di ottantotto tavole, riunite al principio del Settecento in un album dal titolo Dantehistoriato da Federico Zuccari. I fogli, eseguiti in parte a matita rossa e nera e in parte a penna e inchiostro bruno, illustrano le tre cantiche intersecando il testo dantesco- non integralmente riprodotto- con brevi annotazioni esplicative del pittore stesso.

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    V. Dante in parole e immagini

    Questo disegno raffigura simultaneamente gli episodi principali del I canto dell’Inferno e il primo avvio del viaggio di Dante che si ritrova, smarrito e spaventato, nella selva oscura (vv. 1-12). A sinistra il poeta è infatti avvinghiato a un albero mentre subito accanto osserva il colle rischiarato dai raggi del sole (vv. 13-18). Rincuoratosi, prova a scalare la roccia ma incrocia le tre terribili fiere, la lonza, la lupa e il leone, simboli rispettivamente dei peccati di lussuria, avarizia e superbia che ne ostacolano il cammino (vv. 32-33; 54-51).

    La parte centrale del foglio è consacrata all’incontro decisivo con Virgilio, collocato in piena evidenza anche se cronologicamente segue l’episodio delle bestie, per sottolineare il significato morale dell’intera epopea dantesca e il ruolo di “Duca e padre” impersonato dall’antico poeta latino.

    L’uso delle due matite, rossa per le figure e nera per il paesaggio (con la sola eccezione della lupa, le cui fattezze di colore scuro evidenziano probabilmente la particolare pericolosità rispetto alle altre due fiere), anima una composizione ordinata e di facile leggibilità, nella quale il pittore intende tradurre in immagini tutta la gamma di emozioni trasmesse dai versi danteschi. La scena è completata dalla piccola cartella in basso a destra con la didascalia: gioventù male incamminata. Zuccari la inserisce con un intento istruttivo, riferendosi a un Dante che, diversamente dal testo originale, è qui rappresentato come un giovane, e diviene così simbolo di una età ancora inconsapevole, esposta alle insidie di quei peccati che allontanano dalla “diritta via”. Il pittore marchigiano non concepì la sua raccolta con intenti editoriali: ne fece invece largo uso nel corso delle sue lezioni accademiche, per educare i suoi allievi sia alle tecniche grafiche che al rispetto dei principi morali.

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    VI. Immagini dantesche dalle collezioni dei Medici. L’ingresso nell’Ade

    Livio Mehus

    Crescenzio Onofri

    Dante e Virgilio all’Inferno

    1690 c.

    olio tu tela, cm 100 x 99

    Gallerie degli Uffizi, Palazzo Pitti, Galleria Palatina

    inv. 1890 n. 5388

     

    "Qui si convien lasciare ogne sospetto;
    ogne viltà convien che qui sia morta.
    Noi siam venuti al loco ov’i’ t’ ho detto
    che tu vedrai le genti dolorose
    c’ hanno perduto il ben de l’intelletto".
    E poi che la sua mano a la mia puose
    con lieto volto, ond’io mi confortai,
    mi mise dentro a le segrete cose.

    Inferno, Canto III, vv. 14-21

     

    Ed ecco verso noi venir per nave
    un vecchio, bianco per antico pelo,
    gridando: "Guai a voi, anime prave!
    Non isperate mai veder lo cielo:
    i’ vegno per menarvi a l’altra riva
    ne le tenebre etterne, in caldo e ’n gelo.

    Inferno, Canto III, vv. 82-87

     

    Ed ei mi disse: "Il foco etterno
    ch’entro l’affoca le dimostra rosse,
    come tu vedi in questo basso inferno".

    Inferno, Canto VIII, vv. 73-75

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    VI. Immagini dantesche dalle collezioni dei Medici. L’ingresso nell’Ade

    Un ampio squarcio nella roccia scura introduce, come un sipario, nel pieno di una animatissima scena teatrale. Sull’angolo in basso, Virgilio e Dante sostano di fonte alla prima, drammatica visione dell’Inferno, narrata nella seconda parte del III canto. Qui le rocce altissime e di vario colore, dai profili inquietanti di maschere diaboliche, nascondono ricetti popolati da creature mostruose. Sulle acque ribollenti del fiume Acheronte appare Caronte, il tremendo demone dagli occhi fiammeggianti che attende il suo carico di anime dannate per traghettarle verso la pena a loro assegnata. Sullo sfondo, la spettacolare esplosione di fuoco anticipa un momento ulteriore nel cammino dei due poeti, narrato nel canto VIII: l’arrivo alla citta di Dite, tra le cui mura roventi e ferree custodite dai diavoli sono riuniti i peccatori per eresia. Il tema del viaggio di Dante e Virgilio agli Inferi appassionò molto la committenza fiorentina nel Seicento, perché la straordinaria suggestione del testo ben si prestava alla traduzione in immagini ricche di dettagli fantasiosi e grotteschi, come dimostrano le versioni di Filippo Napoletano, di Francesco Ligozzi, di Jaques Callot e di altri ancora. In questo dipinto il fiammingo Livio Mehus espresse appieno le qualità della sua pittura veloce e densa, animata da vivaci contrasti di luci e di colore, avvalendosi della collaborazione del paesaggista romano Crescenzo Onofri, anch’egli attivo alla corte medicea negli ultimi anni del secolo.

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    VII. Immagini dantesche dalle collezioni dei Medici. La città di Dite

    Filippo Napoletano

    Dante e Virgilio all’Inferno

    1618-1620 c.

    olio su tavola, cm 44 x 67 

    Gallerie degli Uffizi, Galleria delle Statue e delle Pitture

    inv. 1890 n. 1254

     

    Ormai, figliuolo, s’appressa la città c’ha nome Dite, coi gravi cittadin, col grande stuolo

    Inferno, Canto VIII, vv. 67-69

     

    Ed ei mi disse: “Il foco etterno ch’entro l’affoca le dimostra rosse, come tu vedi in questo basso inferno"

    Inferno, Canto VIII,  vv. 73-75

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    VII. Immagini dantesche dalle collezioni dei Medici. La città di Dite

    Un’ambientazione notturna squarciata da fuochi illumina una città da riconoscersi forse in quella di Dite, sullo sfondo un’architettura in rovina. Virgilio con Dante incede da sinistra e gli indica la moltitudine di dannati torturati da un variegato repertorio di creature mostruose che si dispiegano in terra e in aria. Non una narrazione puntuale della Commedia dunque, ma un compendio di episodi di dannazione che vede tra l’altro riuniti sullo stesso palcoscenico, come in una sorta di bestiario medievale, i principali demoni dell’Inferno dantesco tra cui Caronte (Inferno, III), Cerbero (Inferno, VI), i Centauri (Inferno, XII), le Arpie e le Cagne infernali (Inferno, XIII), i Draghi e i Serpenti (Inferno, XXIV-XXV). L’iconografia attinge a un repertorio consolidato ma Filippo Napoletano non rinuncia ad alcuni spunti originali come il grande astice, quasi un prelievo da una natura morta fiamminga, o gli scheletri di animali volanti e della morte a cavallo, che costituiscono un talento particolare di questo pittore, riconosciutogli dal contemporaneo Giulio Mancini e suggellato dalla serie degli Scheletri incisa per Johanness Faber.  Il dipinto rispecchia gli interessi maturati dall’artista negli anni fiorentini (1617-1621) a contatto con il gusto di Cosimo II de’ Medici, particolarmente attento alle tematiche tratte dalla Divina Commedia e in particolare dalla cantica dell’Inferno in quanto foriere di significati moraleggianti consoni ai dettami della Chiesa controriformata. Un filone ‘macabro’ di cui Filippo Napoletano si fa qui felice interprete sia attraverso l’adozione di modelli nordici amati dallo stesso Granduca – e in particolare Enea e la Sibilla agli Inferi di Jan Brueghel ‘dei Velluti’ – sia nell’invenzione compositiva che in analogia con i bestiari medievali dispiega con forza il suo valore esemplare.

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    VIII. Figure femminili nella Commedia: Pia dei Tolomei

    "Deh, quando tu sarai tornato al mondo
    e riposato de la lunga via",
    seguitò 'l terzo spirito al secondo

    "ricorditi di me, che son la Pia;
    Siena mi fé, disfecemi Maremma:
    salsi colui che ’nnanellata pria

    disposando m’avea con la sua gemma".

    Purgatorio, Canto V, vv. 130-136

     

    La vicenda della Pia di dantesca memoria, qui esemplificata attraverso i dipinti di Vincenzo Cabianca, Enrico Pollastrini e il gruppo scultoreo di Pio Fedi, è avvolta nel mistero perché non si hanno dati certi su quale fosse il personaggio realmente esistito a cui Dante si riferisce nel Canto V del Purgatorio e alcune notizie, peraltro contraddittorie, si traggono solo dai commenti posteriori al testo.

    Alla base della fortuna, sia artistica che letteraria, che il tema avrà nei secoli vi sono certamente i versi del Purgatorio: Dante incontra Pia nell’Antipurgatorio tra i morti per forza (uccisi), peccatori pentitisi all’ultima ora e in attesa di poter essere ammessi a scontare le pene nelle cornici. Le preghiere dei vivi possono accorciare l’attesa, per questo Pia si raccomanda a Dante. La poesia evocata dall’incontro con questa gentile figura femminile, risiede probabilmente proprio nella brevità e nella suggestione che, come una scia, accenna ad una vicenda tragica senza meglio dettagliarla.

    Sono state formulate numerose ipotesi su quali potessero essere la vicenda e i personaggi occorsi a Dante per costruire questa fuggevole eppure potente apparizione. Il personaggio dantesco è stato tradizionalmente identificato con Pia de’ Tolomei, di antica famiglia senese, moglie di Nello d’Inghiramo de’ Pannocchieschi, signore del Castel di Pietra in Maremma. Tra le rovine del castello, presso Gavorrano (Grosseto), il cosiddetto Salto della Contessa reca tutt'oggi memoria della truce vicenda secondo cui la donna sarebbe stata gettata da una finestra del castello per volere del marito che doveva, in seconde nozze, congiungersi con un’appartenente alla famiglia degli Aldobrandeschi.

    La vicenda nel corso dei secoli si è arricchita di elementi diversi: dall’infedeltà di Pia nei confronti di Nello nella versione di Matteo Bandello, al dramma di stampo shakespeariano raccontato dalle opere qui scelte e secondo il quale Nello, ingelosito per la bellezza della moglie e istigato da un cattivo consigliere, sospettandola infedele, la rinchiuse nel castello in Maremma, dove la donna si sarebbe lasciata morire di disperazione. Questa versione si diffuse oralmente, così come accadeva del resto alle stesse terzine dantesche che venivano recitate a memoria nelle campagne e nelle feste popolari. Nel 1822 Bartolomeo Sestini pubblicò La Pia de' Tolomei: leggenda romantica, fissando sulla pagina la tradizione orale: il poema fu lo spunto per numerose opere d'arte e per un dramma di Gaetano Donizetti, Pia de' Tolomei (1837). Pia, che si rivolge al poeta appellandosi in maniera familiare (“ricordati di me che son la Pia”), appare comunque sempre vittima della brutalità del marito, mossa da rancore, sospetto o altrui macchinazione.

    Dice Sestini nella sua prefazione che la tragica vicenda medievale merita di esser raccontata con i mezzi poetici, pienamente ottocenteschi e potentemente romantici, di cui il secolo dispone: “per questo io publico la Pia, soggetto per sé medesimo caro a chiunque ha letti i quattro misteriosi versi della Divina Commedia, che ne fanno menzione, e che tessuto su quanto nelle Maremme ho raccolto da vecchie tradizioni e da altri documenti degni di fede, mi ha dato campo di descrivere alla foggia dei Greci alcuni celebri casi e luoghi della Patria, e gli antichi castelli feudali, e gli abiti e le esequie, e i costumi dei nostri antenati, e di presentare una catastrofe d’onde si può trarre alquanta morale, e finalmente d’onorare e difendere l’ancor giacente memoria di quella bell’anima che affettuosamente raccomandavasi nel Purgatorio al troppo avaro Poeta, acciocché di lei si ricordasse ritornando sulla terra ov’ella a torto avea perduta la vita e la fama” (B. Sestini, La Pia de' Tolomei: leggenda romantica, Milano 1848, p. 6).

    Pia de’ Tolomei e Nello della Pietra
    Architettura | Gli Uffizi
    Scheda opera
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    VIII. Figure femminili nella Commedia: Pia dei Tolomei

    Vincenzo Cabianca

    Pia dei Tolomei condotta al castello di Maremma

    1860 c.

    olio su tela, cm 57 x 75

    Gallerie degli Uffizi, Palazzo Pitti, Galleria d’Arte Moderna

    inv. Galleria d'Arte Moderna - Giornale n. 4873

     

    Occultando la fredda gelosia

    ond'era morso, a quel temuto ostello

    ti conducea, mal capitata Pia,

    il tuo consorte sire del castello:

    per far men grave la penosa via

    a lui volgevi il volto onesto e bello,

    trattenendol con bei ragionamenti

    che avean risposta d'interrotti accenti […]

    Entran la bella donna e il cavaliero

    Nel limitar della magion ferale;

    non travagliata da verun pensiero

    ella ricerca i voti atrii e le sale.

    Bartolomeo Sestini, Pia de’ Tolomei, 1822

     

    Vincenzo Cabianca rappresenta l’arrivo dell'ignara donna a Castel di Pietra, condottavi dal marito. La pittura che impiega è quella che nell’Ottocento gli artisti d’Accademia riservavano al bozzetto: una rapida sintesi di macchie di colore che aveva il fine di concentrare l’attenzione su volumi e rapporti di luce e di tono, più che sull’esattezza del disegno. Questa condotta pittorica divenne linguaggio prediletto nella cerchia dei Macchiaioli che a Firenze studiavano la pittura dei maestri del passato rinnovandola con un’attenzione moderna al dato naturale e abbandonando le convenzioni teatrali della pittura accademica. Si è ritenuto a lungo che questa tela fosse il bozzetto per un dipinto, oggi in collezione privata, che ha lo stesso soggetto e la stessa impostazione, ma presenta un’esecuzione molto più minuta. La critica recente ha però restituito autonomia a questa prova che appare come un esercizio di stile su un tema letterario, condotto con il linguaggio moderno che Cabianca sperimentava mentre frequentava le animate discussioni del ritrovo macchiaiolo del Caffè Michelangelo. Lo stesso Adriano Cecioni, tra i teorici del gruppo, oltre che artista egli stesso, dichiarava che la modernità di un’opera non consisteva necessariamente nell’abbandono del tema tradizionale, ma nell’innovazione della sua forma.

    Pia dei Tolomei condotta al castello di Maremma
    Architettura | Gli Uffizi
    Scheda opera
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    VIII. Figure femminili nella Commedia: Pia dei Tolomei

    Pio Fedi

    Nello con la Pia

    1861

    marmo, cm 84

    Gallerie degli Uffizi, Palazzo Pitti, Appartamenti Imperiali e Reali

    inv. Oggetti d'arte Pitti 1911 n. 725

     

    Intanto il suo signor con bassa testa

    Di qua, di là, di su, di giù va ratto;

    Or si batte la fronte, ed or si arresta,

    e fissa gli occhi e par di pietra fatto,

    com’uom non uso al fallo, e che si appresta

    meditato a compir nuovo misfatto.

    Ma ormai la notte il sol nel manto ascoso,

    ciascun, tranne costui, chiama al riposo.

    A mensa ei siede muto e turbolento;

    stagli incontro la donna, e fissa i rai

    più che nei cibi in lui, ché il turbamento

    mal celato ne ha scorto; e poi che assai

    stette in silenzio, grazioso accento

    movendo, gli dicea: - Sposo, che hai? –

    Nulla, ei rispose, ed un amaro riso

    Chiamò sul labbro, e non fé lieto il viso.

    Ma poi che il castellan la mensa tolse

    e restar soli nella chiusa stanza,

    le bianche braccia al collo ella gli avvolse

    siccome avea di far sovente usanza:

    poi nelle mani sue la man gli accolse,

    e con ingenua e tenera sembianza

    la strinse e ne sperò bel cambio invano;

    qual di persona morta era la mano.

    Bartolomeo Sestini, Pia de’ Tolomei, 1822

     

    Pio Fedi rappresenta il momento in cui Pia, con fare premuroso, chiede al marito il motivo del suo umore ombroso. L'attenzione ai dettagli di costume veniva allo scultore da un attento studio dell'arte del passato, più volte presa a modello e reinterpretata con una dedizione speciale alla naturalezza dei gesti e alla efficacia delle espressioni, come per un'accuratezza nel modellato che rimanda alla sua formazione accademica. L'attenzione al dato naturale diventa infatti qui fedele rappresentazione dello spirito della scena, nelle sue sfumature psicologiche più sottili.

    Già nel 1846 il granduca Leopoldo II aveva commissionato a Pio Fedi un gruppo raffigurante Nello della Pietra e Pia de' Tolomei: l'opera piacque molto e il Granduca ne chiese una versione più piccola in marmo. Il soggetto ebbe quindi molta fortuna e fu replicato in numerose edizioni e varianti. Il piccolo gruppo che si conserva agli Appartamenti Reali fu presentato nel 1861 all'Esposizione italiana di Firenze e venne acquistato dal re d'Italia “per la sua particolare galleria”, gli appartamenti privati di Vittorio Emanuele II alla Palazzina della Meridiana di Palazzo Pitti. Nel 1865, anno delle celebrazioni dantesche, Firenze diveniva Capitale d'Italia, ma già da un paio di decenni Dante era tra le glorie patrie che venivano celebrate come esempio di virtù e alto ingegno, salda radice dell'identità nazionale in epoca risorgimentale.

    Pia de’ Tolomei e Nello della Pietra
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    Scheda opera
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    VIII. Figure femminili nella Commedia: Pia dei Tolomei

    Enrico Pollastrini

    Nello alla tomba della Pia

    1851

    olio su tela, cm 147 x 185

    Gallerie degli Uffizi, Palazzo Pitti, Galleria d'Arte Moderna

    inv. Galleria d'Arte Moderna - Catalogo Generale n. 560

     

    Qui la sua Pia riconosciuta avea

    ricoperta di terra insino al mento

    morte nel volto suo bella parea,

    e lui che stava a seppellirla intento,

    quasi rapito dalla vaga idea,

    ove un gemino sol vedeasi spento,

    le caste membra avea coperte, e il viso

    di offender colle zolle era indeciso.

    Ella giacea, qual mandorlo fiorito

    nell'anno giovinetto in riva all'acque;

    venne la piena, e ruinando il lito,

    sull'arenoso letto il tronco giacque;

    lo sbarbicato ceppo è seppellito

    dal fango, e il fusto che si schietto nacque

    sol fuor sovrastan le ramose spoglie

    mostrando aridi fior, squallide foglie.

    Bartolomeo Sestini, Pia de’ Tolomei, 1822

     

    Come sul proscenio di un dramma d'opera, Nello troppo tardi giunge al sepolcro della Pia che giace defunta nella tomba scenograficamente ancora aperta. Le posizioni plateali, gli sguardi e i gesti degli astanti, coerenti con il ruolo di ognuno, assecondano la narrazione. La giovane e bella signora, morta a causa del sospetto e della menzogna, fa da immobile contrappunto al dinamismo dell'ingresso di Nello che, sconvolto, si trova protagonista della tragedia da lui medesimo causata.

    Leopoldo II, granduca lorenese in Toscana, commissionò il dipinto per portare l'attenzione alle terre di Maremma da lui avviate verso la bonifica. Questo incarico si inserisce nel percorso intrapreso dal granduca per scongiurare il pericolo di rivolta con il diffondersi di ideologie democratiche e risorgimentali: la celebrazione del genio italiano, l'avvio di opere pubbliche e l'attuazione di riforme, dovevano sostenere infatti la credibilità e popolarità del sovrano. Il dipinto dal “pietoso argomento”, esempio di Romanticismo storico per la fedeltà nella resa dei dettagli di costume e ambientazione, e per la verità nel rendere emozioni e sentimenti, commosse il pubblico che lo poté ammirare nel 1852 nello studio del pittore.

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    IX. Figure femminili nella Commedia: Piccarda Donati

    I’ fui nel mondo vergine sorella;
    e se la mente tua ben sé riguarda,
    non mi ti celerà l’esser più bella,
    ma riconoscerai ch’i’ son Piccarda,
    che, posta qui con questi altri beati,
    beata sono in la spera più tarda.

    Paradiso, Canto III, vv. 46-51

     

    È il primo pomeriggio del 30 marzo 1300, Dante visita il Primo Cielo della Luna. Qui trovano posto gli Spiriti Difettivi, relegati ad un grado inferiore di beatitudine perché in vita non poterono adempiere ai voti pronunciati.

    Il poeta si rivolge all'anima che sembra più desiderosa di parlare: Piccarda Donati, cugina della moglie Gemma e sorella di Forese, amico di gioventù che compare nel Canto XXIV del Purgatorio. La donna era dunque legata personalmente a Dante, che conosce quindi bene la sua dolorosa vicenda umana; brutalmente rapita dal convento di Santa Chiara, fra il 1283 ed il 1293, fu costretta dal fratello Corso, capo dei Guelfi Neri, a sposare il nobile fiorentino Rossellino della Tosa per ragioni politiche.

    Busto di Piccarda Donati
    Architettura | Gli Uffizi
    Scheda opera
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    IX. Figure femminili nella Commedia: Piccarda Donati

    Raffaello Sorbi

    Piccarda Donati fatta rapire dal convento di Santa Chiara dal fratello Corso

    1866

    olio su tela, cm 175 x 230

    Gallerie degli Uffizi, Palazzo Pitti, Appartamenti Imperiali e Reali

    Inv. Oggetti d'Arte Pitti 1911 n. 893

     

    Dal mondo, per seguirla, giovinetta
    fuggi’ mi, e nel suo abito mi chiusi
    e promisi la via de la sua setta.
    Uomini poi, a mal più ch’a bene usi,
    fuor mi rapiron de la dolce chiostra:
    Iddio si sa qual poi mia vita fusi.

    Paradiso, Canto III, vv. 103-108

     

    Raffaello Sorbi rappresenta il culmine dello scontro tra due volontà opposte: da una parte la vocazione alla vita claustrale di Piccarda, dall’altra la bieca ragione politica del fratello. La carica espressiva, accentuata dalla contrapposizione tra gruppo maschile e femminile, si concentra nell’enfasi teatrale delle braccia tese e nella gestualità eloquente delle mani: alcune suore implorano Dio, altre si proteggono, la madre superiora ammonisce gli usurpatori mentre Piccarda si aggrappa invano a lei e cerca di divincolarsi dalla morsa violenta degli sgherri, sotto gli occhi di Corso, che impugna saldo una spada e le impone con superbo disprezzo la sua volontà. Il rosario spezzato e calpestato è il simbolo della vocazione mortificata di Piccarda, che accanto all’amore represso di Francesca da Rimini e alla malinconica rassegnazione di Pia de’ Tolomei compone una trilogia femminile, tragicamente attuale e perfettamente coerente con gli ideali del Romanticismo storico che ispiravano arte e letteratura poco oltre la metà dell’Ottocento.

    È questo il contesto nel quale inquadrare l’opera di Raffaello Sorbi. Noto per i suoi dipinti di genere storico, pochi anni prima egli aveva realizzato un quadro di soggetto affine, Corso Donati ferito dai Catalani a San Salvi, con cui giovanissimo vinse un concorso accademico nel 1861, anno dell'Unità d'Italia. In virtù del successo ottenuto, il re Vittorio Emanuele gli commissionò quest’opera di soggetto dantesco, nella quale il pittore manifesta la salda disciplina disegnativa ereditata dal maestro Antonio Ciseri, unita ad una complessa capacità compositiva, non certo estranea a modelli celebri come quello di Stefano Ussi, che nel 1861 aveva presentato all’Esposizione Nazionale il suo capolavoro La cacciata del Duca di Atene.

    Piccarda Donati fatta rapire dal convento di Santa Chiara dal fratello Corso
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    Scheda opera
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    IX. Figure femminili nella Commedia: Piccarda Donati

    Giovanni Bastianini

    Busto di Piccarda Donati

    1855

    marmo, cm 54 x 45 x 28

    Gallerie degli Uffizi, Palazzo Pitti, Galleria d'Arte Moderna

    Inv. Galleria d'Arte Moderna - Catalogo Generale n. 722, Giornale n. 231

     

    Frate, la nostra volontà quïeta
    virtù di carità, che fa volerne
    sol quel ch’avemo, e d’altro non ci asseta.

    Paradiso, Canto III, vv. 70-72

     

    Una leggenda vuole che Piccarda avesse mantenuto la verginità, morendo di lebbra prima delle nozze. Dante non accoglie questa versione, ma fa di Piccarda e della sua dolorosa rassegnazione un paradigma della necessità dell’uomo di accordare la propria volontà a quella di Dio, come strumento per raggiungere la beatitudine eterna.

    Se dunque Raffaello Sorbi rappresenta la donna nel disperato tentativo di opporsi al rapimento, Giovanni Bastianini sembra meglio interpretare i versi con i quali Dante la descrive, scegliendo di raffigurare in lei la malinconica accettazione di un destino imposto e quasi l’attesa che un premio futuro ripaghi il suo sacrificio.

    Lo scultore, morto prematuramente come la gentile Piccarda, originario di Fiesole e apprendista nella bottega di Pio Fedi, attinge al repertorio di celebri maestri del Rinascimento, come il conterraneo Mino esplicitamente richiamato in questo delicatissimo busto. Dotatissimo e precocissimo talento, iniziò presto a lavorare per un mercante d'arte che gli commissionava riproduzioni di sculture antiche. Da questo esercizio condotto con lenticolare esattezza, acquisì familiarità con l'opera dei maestri del Quattrocento che, in sculture come questa, reinterpretò aggiungendo quella grazia esplicita e quell'interesse antiquario per i dettagli di costume, come la raffinata acconciatura e lo splendido tessuto operato dell'abito, tipici del gusto ottocentesco.

    Busto di Piccarda Donati
    Architettura | Gli Uffizi
    Scheda opera

Non per foco ma per divin’arte

Immagini dantesche dalle Gallerie degli Uffizi

Credits

Coordinamento scientifico: Anna Bisceglia

Introduzione: Paolo Procaccioli

Testi: Andrea Biotti, Anna Bisceglia, Daniela Parenti, Patrizia Naldini, Chiara Toti, Chiara Ulivi

Traduzioni: Eurotrad Snc.

Editing a cura dell'Area Strategie Digitali delle Gallerie degli Uffizi

Crediti fotografici Francesco del Vecchio e Roberto Palermo 

Nota: ogni immagine della mostra virtuale può essere ingrandita per una visione più dettagliata.

Pubblicazione Marzo 2020

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